❥ 𝕾treghe, vampiri e fantasmi di pesci rossi

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Il rumore ritmato sembrava una ventosa che si attaccava e si staccava da una superficie scivolosa, qualcosa che avevo già sentito altre volte, ma che non aveva mai assunto gli stessi contorni di una pellicola di un film in bianco e nero.

Nero come il tappetino sotto la mia schiena e ai miei pugni chiusi, lo stesso nero dentro gli occhi inscuriti di Fava.
Bianco come i neon sopra le nostre teste e le pareti, che al tatto sembravano gomma.

Il tappetino da ginnastica su cui stavamo sdraiati era freddo, mi si appiccicava addosso, contro le gocce di sudore che scendevano dalla schiena nuda morendo sulla plastica a ogni movimento. Le labbra di Fava, piazzate nella curva tra il collo e la spalla, alitavano contro la mia pelle senza sfiorarla; le sue mani incise sui fianchi, a tenermi ferma, quasi ad afferrarmi le ossa. Assecondavo i movimenti del suo bacino, il suo oscillare frenetico, il suo senso di soffocamento.

Il rumore di ventosa si ripeteva ancora e ancora, all'infinito, saturava l'aria viziata dello spogliatoio della palestra della scuola.
Era tutto un vorticare di luci alogene e pensieri nebbiosi, sensazioni rimescolate: un calderone confuso di mani e di gambe e di lingue.

«Basta chiudere gli occhi.»

La voce di Luca nella mia testa veniva in mio soccorso con una di quelle sue frasi stringate così tipiche di lui, allo stesso modo in cui me lo ritrovavo sempre accanto a reggermi i capelli quando ero tanto ubriaca da finire ad abbracciare il cesso e vomitare anche l'anima.

Avrei voluto gridare, ma ogni residuo di voce si aggrappava ai polmoni senza forza, si attorcigliava in un groviglio di emozioni liquide che mi ammutolivano. Allora seguii il consiglio di quella voce, serrai con forza le palpebre e finalmente un suono, seppure flebile come uno spiffero tra le persiane, lasciò le mie labbra: «Luca.»

Fava alzò lo sguardo, nessuna compassione, solo il barlume di un risentimento dovuto al proprio ego che si sfilacciava. Fu allora che mi morse il collo, come il vampiro che ha trovato la sua preda da succhiare di uno di quei film in bianco e nero che i miei guardavano mummificati sul divano in salotto.

Mi morse e, solo allora, un urlo primitivo mi esplose dalla gola.

La sveglia sul comodino segnava le cinque del mattino ed era già la terza volta che mi svegliavo di soprassalto, tra le lenzuola bagnate di sudore freddo e di lacrime di frustrazione. Ritenni assolutamente inutile restare a letto a farmi assalire da Fava nei miei incubi, già glielo avevo permesso abbastanza nella vita vera, in una escalation di atteggiamenti sempre più viscidi nei miei confronti. Non ne potevo più di pensare a quell'essere odioso, che aveva avanzato pretese su di me passo a passo, approfittando infine dell'unico momento di debolezza che avevo avuto la sfortuna di mostrargli.

Mi avvicinai alla finestra, la notte riempiva di ombre ogni vicolo tra il cemento e le buche dei ratti; le stelle erano gli unici puntini di luce a illuminare i tetti delle palazzine grigiastre. Mi accesi una Winston Blue e mi accoccolai sul davanzale, pensando a quante volte mi ero ritrovata seduta lì, su quello stesso davanzale, a smezzarmi la stessa Winston Blue con Luca.

Automaticamente lo sguardo volò verso la sua finestra: le tendine scostate lasciavano intravedere un letto vuoto e la boccia del pesce rosso che solo qualche settimana prima avevamo fregato da una bancarella, in un luna park che aveva avuto la disgrazia di approdare nella nostra periferia schifosa. Kurt III galleggiava a pelo d'acqua, circondato da una costellazione di suoi stessi escrementi, ed era un po' così che mi sentivo anch'io in quel momento: un pesce rosso a cui Luca si era completamente dimenticato di dare il mangime.

Nel silenzio, mi ritrovai ad avere paura di non ritrovarlo più, mi sentii sempre più compressa tra le pareti strette e asfissianti della sua assenza. Più passava il tempo, più mi convincevo che avesse deliberatamente deciso lui di interrompere il nostro rapporto e, più ci ragionavo sopra, meno riuscivo a raccapezzarmi sul perché. Oscillavo tra tristezza lancinante e valanghe di "vaffanculo", tutto talmente represso in qualche posto sotto lo sterno da farmi sentire una fottuta pentola a pressione, una di quelle in acciaio inox 18/10 che pubblicizzavano in televendita.

Ero arrabbiata con lui perché non riuscivo a capacitarmi di come gli venisse così facile buttare la nostra amicizia nel cesso. E, ancora di più, ero arrabbiata con me stessa, che me ne stavo ancora lì, a stringermi le ginocchia ossute in un abbraccio che non ci avrei messo cinque secondi a elemosinare a Luca se solo lo avessi avuto davanti.

Ma Luca non c'era, e pensai che probabilmente si era dimenticato di me e di Kurt III perché troppo impegnato a passare la notte con l'ultima stronza paladina della guerra ai radicali liberi raccattata dentro a qualche bar chic del centro. Una delle tante che io avrei odiato sempre e comunque a prescindere, perché lei, seppure a pagamento, avrebbe avuto la possibilità di toccarlo e baciarlo, mentre io mi sarei sempre e comunque dovuta accontentare delle briciole del suo tempo e di sesso in preda a uno sballo chimico, ma solo se abbastanza forte.

Senza amore, e forse quello ci stava, ma anche senza coscienza, che era la cosa peggiore.

Il giorno dopo, portai a fare un giro alle mie occhiaie da Guinness dei primati nel cortile della scuola. Lo stage era ormai finito, se Dio voleva, ed erano finiti anche gli straordinari, così almeno non avrei più rischiato di ritrovarmi a creare danni in una di quelle sere dove tutti sembravano schizzati, come se ogni portata potesse essere significativa per l'assegnazione o meno di una stella Michelin.

E poi, ad essere sincera, con il fatto che portavo a casa qualche soldo e facevo qualche spesa, a mia madre era tornata in mente l'idea balorda del pergolato sul terrazzino. Tanto valeva patire la fame.

Mannoni, tuttavia, ci tenne a farci una distaccata e piatta lettera di encomio per come ci eravamo dati da fare in quei giorni. Faceva veramente piangere il pensiero che ricevessimo l'encomio per esserci sbattuti gratuitamente, a dimostrazione del fatto che il mondo del lavoro era davvero una merda ed era bene che ce lo mettessimo subito in testa il prima possibile.

Non avevo visto Luca lunedì, ma martedì arrivò a scuola a un orario da "vengo quando mi pare". Già si poteva considerare di suo un tipo assente, ma quel giorno parve molto meno presente del suo normale standard. Come se a scuola non esistesse. L'unico gesto che dava l'idea delle sue funzioni vitali attive era il battere e ruotare continuo del pacchetto di sigarette sull'angolo del banco, costante e fastidioso come uno sgocciolare del lavandino, che tuttavia non risultò insopportabile a nessuno tranne che a me, ormai sul punto di esplodere dopo quarti d'ora interi a fissare quel ruota e batti, ruota e batti.

Appena il suo livello di nicotina si abbassò abbastanza da costringerlo ad andare al cesso a fumare, contai mentalmente fino a centoventi, poi dissi «Prof, vado al bagno.»

Figurati se quel relitto del Ministero poteva opporre qualche resistenza, così allungai il passo verso il bagno dei maschi. L'assenza da quel posto, che si era protratta per quasi un mese, mi colpì quanto l'odore di piscio vecchio, nicotina e ormoni mal trattenuti.

Luca fumava ad occhi chiusi, come se contasse veramente solo la sigaretta.
La nicotina era stata la nostra prima Mistress: ci aveva colpito, facendoci tossire e sputacchiare, e ci aveva dominato, costringendoci a renderle onore più volte al giorno, ma con il tempo il rapporto con lei era cambiato. Avevamo imparato a ritagliarci tempo di vita persino mentre la consumavamo. Luca così concentrato sulla sigaretta era una cosa che non vedevo dagli ultimi giorni delle medie.

«Ehi.» esordii semplicemente, facendo gesti lentissimi per accendermi la paglia a mia volta.

Lui mi rispose con un semplice cenno della testa. E nel cesso iniziarono a sgocciolare via minuti silenziosi in gran numero. Lo sentii forte come un pugno quel silenzio, gigante, forse eterno.

Iniziai a giocherellare nervosamente con il braccialetto di cotone che avevo al polso, uno di quelli sottili e tutti colorati che quando si spezzano puoi esprimere un desiderio. Ne aveva uno uguale anche Luca, sul lato del cuore. Erano lì da quando avevamo quindici anni, sfilacciati e sbiaditi, rovinati.

«Fa male?»

La sua domanda mi colse alla sprovvista, e solo seguendo la traiettoria del suo sguardo capii a cosa si stesse riferendo: avevo medicato il taglio sul dito con un rimasuglio di garza, tenuta stretta con del banalissimo nastro isolante.

«Il dito no.» risposi.
Chiedimi come sta il resto di me, pensai.

Ma Luca già non mi guardava più, concentrato completamente sulle volute del fumo che s'innalzavano pigre dalla punta ardente della sua sigaretta.

«Sei sparito in questi giorni.» la voce mi uscì stranamente calma, senza il tremore che, invece, colpiva le mani. «Kurt III è morto.»

«Ho avuto da fare dei giri, Pulce.» senza nessuna inflessione nel tono, aspirò semplicemente un altro tiro, la brace illuminò angoli ciechi dei suoi zigomi e del collo.

Mi pizzicai le labbra con due dita dallo smalto nero sbeccato, chiedendomi quando quell'equilibrio di non detto fosse diventato la nostra routine e presi fiato e coraggio in parti uguali, pronta a sbattergli in faccia che nessuna scusa, nessuna parola, neanche quel suo sorriso sbarazzino che gli piaceva tanto ostentare, avrebbero mai potuto cancellare il modo orribile in cui mi aveva fatta sentire la sua assenza ingiustificata.

Ma non ebbi il tempo di aprire bocca.

«C'ho una.»

Due sillabe.
Sei lettere.
Trecentotrentasei possibili significati.

Mi sentii come se avesse sfilato una sciabola dal ventricolo sinistro e i miei polmoni si stessero lentamente e inesorabilmente riempiendo di sangue respirando.

«Era peggio se era uno.» provai a ironizzare, ma mi uscì comunque una smorfia strana, visto che gli occhi cominciarono a pizzicare.

«Daje, Pu'. 'Sta tipa mi paga, okay, ma non solo per scopare. Mi porta un po' in giro, cene, feste. Cose così. Ho pure aggiustato un rubinetto che le perdeva. Scopiamo, quando le va, ma non facciamo solo quello, insomma.»

«Be', meglio. No?»

«Sì, è una cosa varia»

«Varia, capisco.»

«Già, varia.»

«Varia» ripetei, e tirai una boccata alla sigaretta, l'ultima. Avevo una gran voglia di tornare in classe e ascoltare il professore, pur di non restare lì un solo altro minuto di più.

Quando finalmente suonò la campanella, non so quale genere di inerzia mi permise di mettere un piede dietro l'altro e seguire la fiumana starnazzante di studenti verso l'uscita. Ma perfino all'aria aperta, nel cortile, non smisi di sentirmi costantemente sull'orlo di una crisi di panico, claustrofobica. Il chiacchiericcio indistinto mi infastidiva, la vista delle coppiette che si baciavano mi rendevano isterica. Quando tra quelle intravidi il Fava, poi, con mezzo metro di lingua nella gola di una moretta della quarta B dalle tette più grandi del cervello, quasi mi venne da vomitare.

Mi infilai le cuffie del mio vecchio walkman mezzo spaccato che giaceva scarico da mesi nello zaino, solo per attutire tutti quei rumori esterni che sembravano mandarmi in pappa il cervello. Strinsi i pugni e serrai gli occhi, tentando di isolarmi anche solo un secondo per non impazzire, per non urlare; mi chiusi a riccio tra le pareti di un silenzio irreale che, però, non mi confortò.

Poi la vidi.

Quella macchina, la stessa.
Troppo nuova, troppo costosa, troppo lucida.

Mi girai di poco, quel tanto che bastò per vedere Luca comparire al mio fianco, con lo sguardo puntato nella mia stessa direzione.

«Dovremmo smetterla di prendere pesci rossi, Pulce.»

Poi, come nulla fosse, lo osservai raggiungere a grandi falcate quella macchina. Una portiera si aprì, permettendo a una bionda, troppo botulinata per poterne intuire l'età, di venirne fuori. Vidi il suo sorriso artefatto allargarsi alla vista del mio amico, si sistemò la scollatura procace del vestito in un gesto studiato e stampò un bacio al sapore di rimpianti da mignotta troppo vicino alla bocca di Luca per non superare i limiti della decenza.

Pensai a Kurt III, a cui era stata preferita quella succhiatrice di vita. Forse morire non era stata poi una così brutta opzione.

Il pomeriggio fu un altro stillicidio di silenzi, questa volta nella mia camera. Nemmeno il borbottare della pentola per la marmellata di arance, nemmeno lo sfogliare di stupide riviste di arredamento di case enormi mi distraevano. Ero un'anima in pena, lo ammetto, e in quel momento capii che avere avuto per tutta la vita un unico amico, non era stata una grande idea. Mi misi a scandire mentalmente le facce delle persone che conoscevo, compagni di scuola, gente del quartiere, ma nessuna mi faceva venir voglia di schiodare il culo dalla mia mestizia.

Continuavo a rigirarmi il numero di telefono di Bobbi tra le mani.

𝑇𝑒𝑙𝑒𝑓𝑜𝑛𝑎 𝑜𝑟𝑎𝑟𝑖𝑜 𝑑𝑖 𝑢𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑜

Guardai l'orologio.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro