❥ 𝕭iddidi Boddodi Bu

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Di Bobbi avrei voluto guardare più cose per poter cogliere più dettagli. Per esempio, controllare se avesse qualche voglia sul corpo, un neo in un posto insolito, una cicatrice che raccontasse una storia.

Invece, niente.

Tanto per cambiare, ero stata una vera idiota; avevo lasciato che di lui mi restassero impressi solo gli occhi e quel maledetto sorriso, poi basta.

Ah, e il cazzo. Ma questo era abbastanza ovvio.

Certo, non che mi dispiacesse, però ehi, ricordare anche qualcosa in più non sarebbe stato male. Più che altro, sentivo quella strana sensazione di rimpianto per non aver parlato un po' di più con lui. In fondo, non lo conoscevo affatto.

Era bizzarro fare questi ragionamenti romantici su uno che, appena sceso dall'altare e con due moine stentate, mi aveva portato in un cesso dorato per svuotare le gonadi e il cervello, ma la mia situazione psicologica era tutto fuorché lineare in quella fase della vita.

E poi, inutile girarci intorno, il fatto che Luca avesse dimostrato quella sorta di malsano interessamento in merito alla mia botta e via, accendeva in me uno strano incendio che prendeva lentamente possesso della mia testa.

«Ti è venuto dentro, sabato?»

C'era stato qualcosa.

Qualcosa di molto piccolo, quasi impercettibile, come un granello di sabbia minuscolo capace di inceppare un meccanismo sofisticatissimo. Qualcosa che stonava tra la sua posa rilassata e il suo tono vagamente offeso, quasi come se fosse geloso. O invidioso. O entrambe le cose.

Sarà che stavo passando un periodo di merda, che mi sentivo abbandonata, scartata come un giocattolo difettoso, ma la mia mente iniziò a ricamarci su, ancora e ancora.

Quante volte mi era capitato di essere spettatrice delle conquiste di Luca, di essere lì quando con quelle vecchie ci provava, le guardava, le toccava.

Quante volte avevo seguito il movimento di quelle mani cingere fianchi, palpeggiare culi, infilarsi tra cosce e risalire sotto le gonne, lontano da occhi indiscreti, di nascosto, negli angoli appartati dove era sicuro di non essere visto da nessuno.
Nessuno tranne me.

Quante volte era sparito per scoparsele in macchina o in qualche anfratto abbandonato o nel vicolo buio fuori al locale dove mi lasciava da sola senza pensarci mezzo secondo. E non gli faceva neanche troppo schifo, come non si faceva schifo da solo, poi, a venirmi a raccontare ogni dettaglio scabroso, spesso ridendoci su, mentre io, oh no, io non ridevo proprio per un cazzo.

Ma se invece ero io a portarmi a letto qualcuno, allora la storia cambiava. C'era sempre qualcosa nel modo in cui Luca mi guardava, dopo, che mi metteva soggezione e mi faceva sentire colpevole. Non che mi avesse mai confessato di rimanerci male, sia ben chiaro, ma tra noi non c'era mai stato un gran bisogno di parole e io lo avvertivo, avvertivo chiaramente quanto fosse contrariato, come se il mio fare sesso rompesse un tacito patto per cui lui poteva farlo e raccontarlo, mentre io, invece, dovevo essere solo la sua amica asessuata.

Il suo sguardo, la sera delle pillole, mi aveva detto qualcosa - forse solo ai miei occhi, non ne discuto - di diverso. Come se il fatto di avermi usato prima di tutti mi rendesse in qualche modo di sua proprietà.

Questo era ciò che ci avevo visto io, o ciò che probabilmente avevo voluto vederci.

«Ti è venuto dentro, sabato? Il tipo, lì, come si chiama?»

Continuavo a rigirarmi quella domanda nella testa, allo stesso modo in cui mi rigiravo quel maledetto biglietto tra le mani.

𝑆𝑒𝑖 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑎 𝑝𝑒𝑟𝑓𝑒𝑡𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 "𝑖𝑚𝑝𝑒𝑟𝑚𝑒𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒". 𝑇𝑒𝑙𝑒𝑓𝑜𝑛𝑎 𝑜𝑟𝑎𝑟𝑖𝑜 𝑑'𝑢𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑜.

Accarezzai con gli occhi ognuno di quei numeri, fino quasi a impararli a memoria. E quel "quasi" dipendeva in larga parte dal fatto che avevo dato fondo a un quarto della bottiglia di vodka scadente che tenevo nell'armadio per "le emergenze" e avevo già spento una canna nel mio posacenere di plastica rossa mezzo squagliato, arraffato da un tavolo altrettanto di plastica di uno dei bar del Chernobyl, ma che non avevo mai il coraggio di buttare perché legato a troppi ricordi.

Ossessione. Malinconia. Nostalgia.

Iniziai a chiedermi quale fosse il vero nome di Bobbi.

La questione, che alle persone normali sarebbe risultata del tutto irrilevante, divenne il mio ridicolo chiodo fisso. Ci fantasticavo sopra, pensai diversi nomi che potevano, a mio avviso, stare bene ad uno come lui.

Per esempio, Alberto.
Oppure Edoardo.
Oppure Oscar.

Andava bene qualsiasi nome che  avesse qualcosa di duro nelle lettere, senza suonare cattivo, però. Mi ero convinta che doveva appartenergli un nome del genere.

Pensai perfino che potesse chiamarsi Luca, a un certo punto. Avrebbe dato un senso a quella mia assurda fissazione, una sorta di collegamento concreto, o anche solo una riconferma che la sorte avesse davvero un qualche vago senso dell'umorismo.

Almeno, nella mia testa.

E, comunque, fantasticare sulla vita di qualcun altro piuttosto che sulla mia mi veniva molto più semplice.

Mi buttai sul letto con la stessa grazia di un sacco di patate, strozzando nel cuscino un grido di frustrazione. Non ero ancora abbastanza fatta, avevo finito le cartine e mi sentivo talmente ridicola che avvertii il bisogno di lanciarmi nella ricerca di una pala e sotterrarmi viva.

Forse, in quel modo, ci sarebbe stato silenzio. Ci sarebbe stata pace. Una fine.

Di certo, così, avrei smesso di sentire quella lancinante mancanza di Luca.

Di certo, avrei smesso di desiderare di baciarlo ancora, in un contatto disperato e lacerante, fatto di denti, sangue e silenzio incompleto.

Di certo, avrei smesso di sentire la strana voglia di sapere quale fosse il vero nome di Bobbi, che mi faceva pensare a un cane. Un cane con una pulce.

Di certo, avrei smesso di avere quella strana voglia di sentire di nuovo la sua voce.

Troppo facile, vero?
Forse. O forse no. O forse sì. O forse no.

Non l'avrei mai saputo perché non c'avevo voglia di vivere, figuratevi di andare a cercare una pala.

Avrei voluto che qualcuno la cercasse per me, che qualcuno, per una volta, mi aiutasse a realizzare un mio desiderio.

E fu in quel miscuglio di pensieri e sinapsi sovraeccitate che realizzai: io facevo sempre le cose per gli altri e gli altri non facevano mai le cose per me. Delle trecentomila lire che Bobbi mi aveva dato, duecento le avevo date a mamma per dare una parvenza di contegno al nostro frigorifero e alla nostra dispensa, nonché alimentare le sue idiote fantasie shabby chic. Ne avevo tenute per me solo cento. Ergo, avevo erba discreta da fumare e i miei biscotti preferiti che, giuro, avrei mangiato se solo il mio stomaco non avesse deciso di scioperare, ribellandosi addirittura alla fame chimica. Luca, invece, lui spendeva tutto quello che guadagnava solo per vendicarsi di suo padre. E aveva tenuto a sottolineare che "c'aveva una" che lo portava per feste e ristoranti, mica a far la spesa dei pannoloni all'Esselunga.

Che poi, cosa cazzo significava quell'"una" rispetto alle altre? Che aveva di diverso, quella, dalle altre vegliarde che avevano voglia di un'iniezione di giovinezza intravaginale?

E soprattutto, cosa aveva lei più di me?

Fu un istinto primordiale. Mi ritrovai di nuovo davanti allo specchio e, senza staccare nemmeno per un secondo gli occhi dal mio riflesso, iniziai a liberarmi, strato dopo strato, di tutto quello che indossavo. Via il cardigan pesante, la felpa degli AC/DC con la decalcomania scolorita, via i jeans strappati, i collant pesanti, la maglietta. Esaminai con attenzione il mio viso che mi dava quell'aria da elfo bislacco, gli occhi troppo grandi, troppo chiari, il collo, le ossa del bacino che sembravano squarciare la pelle.

Di fronte, di profilo.
Di nuovo di fronte.

Non ero brutta, solo non indimenticabile, e con le tette che aspettavo crescessero da almeno sette anni.

Avrei voluto un bel paio di tette.
Avrei voluto morbidezze al posto degli spigoli.
Avrei voluto un colorito meno grigio e occhi meno tristi.

Avrei voluto. 

La mia intera esistenza era basata su montagne di "avrei voluto". Desideri, su desideri, su desideri. Dov'era la fata turchina? Dov'era la magia che mi aiutasse a rendere il sogno realtà anche solo fino a mezzanotte?

La fottuta scarpetta di cristallo sapevo io dove l'avrei infilata a chi aveva inventato queste stronzate. Tutti che ci aspettiamo che succeda qualcosa, che la manna cada miracolosamente dal cielo, e intanto il nostro Principe Azzurro si fotte la principessa sbagliata.

Confrontare la mia immagine con quella della signora dalla lucente macchina blu scuro che valeva quanto la mia intera casa, mi venne spontaneo. I capelli acconciati in maniera impeccabile, il vestito turchese che fasciava ogni sua curva, la scollatura procace, le rughe e tutti i segni del tempo passato ben nascosti sotto il trucco pesante, come la polvere sotto al tappeto.

Non importava a nessuno - non importava a Luca - quante grinze, quante imperfezioni, quanti difetti ci fossero sotto tutta quella arzigogolata impalcatura che odorava di Chanel e di integratori per la menopausa.

Aprii di nuovo l'armadio, un'altra lunga sorsata direttamente dalla bottiglia di vodka scrausa, intanto che, in preda all'annebbiamento più lucido mai vissuto, gettavo a terra tutti i miei vestiti, liberando quel pezzo di arredamento di tutto il nero, la lana, le felpe, i jeans, le maglie oversize che puntualmente fregavo a Luca, i maglioni sbrindellati dentro cui mi ero ristretta pian piano, tutto.
Svuotai tutto l'armadio sul pavimento.

E lì, in un angolo desolato, lo trovai.

Mia madre me lo aveva preso anni prima, nonostante le mie proteste. Un vestitino di quelli che si chiudono a portafoglio, con un fiocco da annodare in vita. Bianco, con un tripudio di fiori rosa stampati sopra.

Fiori. Rosa. Del. Cazzo.

Dovevano passare a farci visita dei lontani cugini di mio padre e lei non voleva che pensassero che sua figlia fosse - e cito testualmente - un barbone.

Non una barbona. Un barbone.

«Sei una signorina, ormai. E anche graziosa, se solo non ti ostinassi a conciarti come un maschiaccio!» mi ripeteva in continuazione all'ennesimo diniego di indossare quello scempio. «Per l'amor del cielo! Ma che ho fatto io di male per meritarmi una figlia degenerata come te? Restituisci a Luca quella cosa informe che hai addosso o, quanto è vero Iddio, faccio una pazzia!»

I suoi piagnistei nevrotici non fecero altro che fomentare il mio istinto di ribellione e il vestitino rimase relegato, con il suo bel cartellino ancora attaccato, in un anfratto sperduto del mio armadio.

Fino a quel giorno.

Strappai l'etichetta con i denti e lasciai che quel tessuto morbido, delicato, mi scivolasse addosso. Lo specchio mi restituì un'immagine completamente inedita: la scollatura a V metteva in risalto le seppur latitanti tette quasi come se bastassero, la gonna che arrivava un po' più su del ginocchio mi slanciava quei due giunchi che avevo al posto delle gambe e i colori chiari facevano sembrare il mio colorito meno spento del solito.

Con lo stesso impeto con cui avevo riesumato quel reperto archeologico, schizzai in bagno e rovistai nel mobiletto alla ricerca del borsello del trucco di mia madre. Come vi ho detto, ero brava nel disegno, quindi non mi stupii minimamente del risultato discreto alla fine del mio lavoro di polpastrelli a spalmare correttore, sfumare ombretto rosa e picchiettare rossetto ciliegia sulle labbra screpolate.

Mi incantai a osservare l'impronta vermiglia che le mie labbra lasciavano sul filtro della mia sigaretta, mentre con la cornetta del telefono incastrata tra l'orecchio e la spalla attendevo che qualcuno dall'altra parte rispondesse, ponendo fine a quello stillicidio cadenzato di "tuuu, tuuu, tuuu" a vuoto.

«Pronto.»
«Pronto... ehm, Bobbi?»
«Ciao, Pulce. Che bella sorpresa.»

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