❥ 𝕭ambi

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Non avevo la più pallida idea di cosa mi avesse spinto fin lì: la mia stessa presenza era già di per sé una contraddizione. Era un insensato, masochista intestardirsi nell'arrancare sui cocci pure con le ginocchia sbucciate.

In pratica, avevo raggiunto un nuovo livello di idiozia.

Gonfia di un orgoglio ingenuo e superficiale, mi illudevo che la mia fosse una provocazione, quasi un atto di ribellione. Era il mio personalissimo, stupido modo di dimostrare a me stessa - e, perché no, a Luca - che non solo potevo tranquillamente avere una vita senza di lui, ma che poteva essere addirittura più divertente ed eccitante da sola. Senza condizionamenti, libera di essere chi volevo e di fare tutto ciò che mi pareva.

Mentivo spudoratamente anche a me stessa, quanto ero caduta in basso.

La verità era che avevo un disperato bisogno di qualcuno che, per una buona volta, mi facesse sentire desiderata. Amata. O anche soltanto meno sola.

E il fatto che mi trovassi fuori quella determinata porta, a contorcermi scomoda in un vestito che sentivo stretto e dalle fogge ingannevoli, era la prova che mi sarei abbassata a fare di tutto, perfino cambiare me stessa, pur di ottenerlo. Anche solo per cinque minuti.

Volevo smettere di essere quella sempre messa da parte, quella di cui non importava a nessuno, smetterla di essere invisibile.

Volevo guarire e, in quel momento, credevo che per farlo fosse indispensabile trovare il coraggio di suonare quel maledetto campanello, anziché scappare.

Mi ci volle uno sforzo sovrumano, ma in fondo nessuna medicina del mondo ha un buon sapore, no?

Quando la porta si aprì, tenevo la testa incassata nelle spalle e le palpebre serrate, come una bambina spaventata da un'iniezione imminente.
Riaprii pian piano gli occhi e la prima cosa che riempì il mio campo visivo furono i suoi mocassini.
Risalii lentamente lungo le gambe, avvolte da eleganti pantaloni color carbone, vidi le sue mani infilarsi nelle tasche, poi il mio sguardo si arrampicò sul maglione di cachemire arrotolato ai gomiti, che lasciava il costosissimo orologio in bella mostra.
Già quello sarebbe bastato per identificarlo, ma mi forzai ugualmente ad alzare ancora di più la testa fino a raggiungere i suoi occhi.

Quegli occhi talmente scuri da sembrare abissi insondabili, si allacciarono a loro volta ai miei.

Restammo così per qualche secondo, fermi a esaminarci, come se entrambi stessimo cercando una conferma dell'identità dell'altro, di cui paradossalmente conoscevamo i versi che emetteva quando godeva, ma non il nome.

«Ciao, eh?»

A momenti mi sembrò un lieve rimprovero per non averlo salutato per prima, mi venne quasi voglia di scusarmi. Mi schiarii la voce, ormai strozzata, nel tentativo di ricompormi, e avvampai quando il suono della sua risatina pregna di compiacimento mi arrivò all'orecchio.

«Quindi, questa, è casa tua.»
La mia non fu una domanda, solo una piatta considerazione. Al telefono si era limitato a darmi solo un insignificante indirizzo, senza aggiungere nessun dettaglio; mi aspettavo di trovarci un albergo anonimo, oppure uno squallido motel a ore, o perfino il suo ufficio, dove, proprio come in certi filmetti porno di serie B, avrebbe potuto liberare la scrivania con un unico gesto teatrale e prendermi lì, nel posto che lo faceva sentire più potente in assoluto. Gli uomini, in fondo, sono esseri semplici.

Beh, non Bobbi, a quanto pare.

Trovarmi fuori casa sua, una composizione armonica di linee squadrate e tondeggianti su tre piani senza contare il terrazzo e il giardino con piscina, in un quartiere in cui il problema più grave è tenere l'erba del prato tagliata sempre alla stessa altezza, era davvero l'ultima cosa che potevo immaginare.

Non so se fu per la mia stupida affermazione o per l'aria diffidente che avevo, simile a quella di Bambi che deve attraversare la prateria pullulante di cacciatori imboscati, ma il sorriso di Bobbi si allargò ancora di più.

E rise.

Una risata bassa, da uomo, che mi fece tremare ogni vertebra.

«Da quando mi sono sposato, sì. Vivo qui.»

Sposato.
Mi chiesi come facesse quella parola a farmi sentire ogni dannata volta così sporca.

L'istinto di fuga mi pizzicò le gambe prepotente, ma lo ignorai. Sapevo che non aveva senso trovarmi fuori la sua porta – non se si voleva dar peso alla ragione e ignorare tutte le sfumature che troppo spesso disintegravano la bussola del mio agire – ma non ci voleva lui a ricordarmelo e, di conseguenza, a rendermi ancora più difficile essere lì.

Fu una voce alle sue spalle a riempire il vuoto creato dal nostro silenzio.

«Bobbi, hai visto le chiavi della Mercedes?»

Non si smosse, continuò a guardarmi negli occhi, un accenno di sorriso birbante a piegargli le labbra. Dalle scale alle sue spalle scese una donna: lunghi capelli color oro lisci come seta, occhi nocciola contornati da un ventaglio di ciglia nerissime e un sorriso accecante.

Senza il vestito da meringa addosso era praticamente irriconoscibile.

Sotto tutti quegli strati di tulle bianco da principessa Disney, si nascondeva una bellezza raffinata e sobria, che mi sarebbe costata una mascella frantumata sul loro zerbino se avessi smesso anche solo per un attimo di concentrarmi a tenere la bocca serrata.

Razionalmente sapevo che sarebbe stato giusto andarmene, ma non mi mossi: per quanto il disagio stesse crescendo a livelli esponenziali, odiavo l'idea della fuga.

«Sono qui, Ursula, sul mobile all'ingresso.» rispose il marito, con una tranquillità disarmante che faceva a pugni con il sudore freddo che cominciò inesorabilmente a scorrermi dietro la schiena.

La donna si avvicinò con passo leggero per andarle a prendere e solo quando si girò verso la porta per uscire, avvolta in un cappotto blu notte dalle linee pulite, si accorse di me e mi sorrise con una dolcezza infinita.

«Oh, ciao.» disse.

«Ciao.» risposi nel modo più goffo pensabile.

«Tesoro, lei è la studentessa di cui ti parlavo, per quel progetto di educazione alimentare che dovrebbe cofinanziare la Fondazione, ricordi?»

La mia testa scattò su Bobbi. Non avevo la più pallida idea di cosa stesse dicendo, ma anziché una spiegazione, sul suo volto si limitò ad apparire un sorriso tagliente. Un sorriso che fece subito coppia con la scintilla di provocazione che gli accese lo sguardo, che continuava a tenermi spudoratamente incollato addosso.

«Tanto piacere di conoscerti! Io sono Ursula.» cinguettò la donna, allungando una mano verso di me.

Per un riflesso incondizionato, mi ritrovai a stringerla con la mia. Sperai non notasse i tatuaggi che la imbrattavano: una cosa di cui ero sempre andata abbastanza fiera e che, tutt'a un tratto, mi facevano vergognare come una ladra.

Okay, forse non erano i tatuaggi a farmi vergognare, ma era meglio convincersi di questo piuttosto che attribuire quella sensazione che mi attorcigliava lo stomaco al fatto che mi ero scopata suo marito mentre lei ancora faceva il giro dei tavoli tra amici e parenti.

«Bob non ha fatto altro che parlarmi del vostro progetto sull'educazione alimentare in questi giorni. Ne è letteralmente entusiasta.» aggiunse con il volto illuminato da quelle perle bianchissime che si ritrovava al posto dei denti. Mi lasciò la mano e rivolse uno sguardo amorevole al marito, che ricambiò con quello che poteva sembrare lo stesso trasporto. «Si preparano i futuri rappresentanti dell'eccellenza enogastronomica italiana, avete una gran bella responsabilità.»

Non potei fare a meno di pensare ai miei compagni, zotici e puzzolenti sacchetti di ormoni incapaci di mettere in fila due frasi senza dire cioècomedire. Eccellenza enogastronomica italiana, certo, come no.

«Se non vado subito farò tardi alla riunione.» scoccò un bacio sulle labbra di Bobbi e poi si girò di nuovo verso di me. «È stato un vero piacere conoscerti.»

«A stasera, amore.»

«A stasera.» replicò lei quando già mi aveva sorpassata per avviarsi verso la macchina, leggiadra come una farfalla. E io alzai una mano per salutarla, come una perfetta idiota.

Bobbi e io restammo soli.

E lui scoppiò a ridere.

«Che cazzo c'è da ridere?» sputai velenosa, voltandomi di nuovo nella sua direzione. Tutta quella situazione aveva del surreale, mi chiesi se per caso non mi fossi fatta di LSD e stessi semplicemente vivendo un'allucinazione stranissima, per poi magari risvegliarmi sul pavimento di casa mia, dove, con buona probabilità, ero collassata.

«Beh, dovresti vedere la tua faccia.» scherzò senza badare al modo in cui strinsi gli occhi su di lui, resistendo all'istinto di prenderlo a pugni. Poi, però, quella sua risata impudente si spense e la sua espressione divenne di punto in bianco incredibilmente seria. «Entra.»

Qualcosa nel modo perentorio con cui mi impartì quell'ordine mi fece rabbrividire, ma non riuscii comunque a fare niente di diverso dall'obbedirgli.

«Sai, in genere non vado a casa di uno di cui non conosco neanche il nome.» dissi.
Però me lo scopo il giorno del suo matrimonio, pensai.
Alla faccia della coerenza.

«Roberto.» rispose semplicemente, affondando di nuovo le mani nelle tasche, senza smettere per un attimo di guardare me, che guardavo ogni centimetro del suo appartamento.

Roberto. Robbi. Bobbi.

Roberto.
Come cazzo avevo fatto a non pensarci? Forse Luca aveva ragione quando diceva che avevo la perspicacia di un bradipo. E poi, Roberto era un nome che gli calzava a pennello, anche se la moglie lo chiamava Bobbi, come un cane.

«Tua moglie è davvero bella.» commentai senza riflettere, mentre lo seguivo buttando un occhio qui e lì in quello che loro avevano definito "ingresso" e che per me invece era più tipo un salotto. Superfici lucide, linee pulite, un ambiente elegante, ma asettico e impersonale. Nessuna foto incorniciata, nessuna traccia di vissuto. Solo i quadri un po' astratti alle pareti davano un tocco di colore, ma avrebbero potuto dire tutto e niente della personalità di chi li aveva scelti.

«Lo so.» rispose lui, asciutto.

«E allora perché la tradisci?» osai, quando mi accorsi che la stanza in cui mi aveva guidata era la cucina.
La cucina, non la camera da letto.

«La sua bellezza è oggettiva, il risultato di un lavoro accurato su una buona base. Nient'altro che mero artigianato estetico, Pulce, e non mi attrae.» camminò lentamente verso di me, fino a torreggiare con il suo metro e ottanta sulla mia figura, minuscola rispetto alla sua. «È una bellezza artefatta, Pulce, magari è consolatoria, rassicurante anche, è vero. Ho una bella moglie, non lo nego, così come ho una bella casa, una bella macchina e un bel orologio. Ne sono contento, certo, mi fanno sentire un uomo fortunato, invidiato da molti, ma...» si zittì bruscamente, le pupille diventarono due sonde sul mio viso, vicino, troppo vicino al suo.

«Ma?» lo incalzai.

«Ma nessuna di queste cose me lo fa drizzare.» fu un secondo, mi abbrancò il polso e si portò la mia mano aperta direttamente sulla patta dei pantaloni. «A differenza di te.»

Oh, pensai e non potei fare a meno di sentirmi lusingata di quella sua reazione dopo tutto quel parlare di bellezza, di arte e stronzate varie che probabilmente ero troppo ignorante per afferrare appieno.

Se aveste potuto sbirciare attraverso l'enorme porta finestra che affacciava sul giardino sul retro, un attimo dopo, avreste visto la mia schiena nuda strofinare contro il muro algido della sua cucina. Avreste visto le mie braccia tenute alte sopra la testa, bloccate ai polsi dalla stretta di una delle enormi mani di Bobbi. L'altra a tenermi sollevata la gamba, il suo bacino tra le cosce. Avreste visto il mio vestito a fiori accartocciato sul pavimento, una macchia rosa in mezzo al grigio del marmo tirato a lucido.

Gemevo, ansimavo, la testa sempre più svuotata via via che lui riempiva un'altra parte di me.

Mi guardò per tutto il tempo negli occhi con i suoi, così intensi che avrebbe potuto farmi venire anche senza toccarmi se avesse voluto. Si spingeva dentro di me, e io strozzavo un miagolio ogni volta che la spinta era un po' più forte. Avevamo le labbra aperte, appoggiate le une su quelle dell'altro, come le punte dei nasi, come le fronti.

Quando mi liberò i polsi, passò rapido due volte la mano sulla mia bocca come per liberarla dal rossetto e farla tornare naturale, per poi afferrarmi per entrambe le cosce. Il piacere diventò così violento che allontanai quel poco che potevo il viso dal suo, allungando il collo, a corto di aria. Ma Bobbi non me lo lasciò fare: acciuffò il mio mento tra pollice e indice mi veicolò di nuovo verso di lui, con una delicatezza senza eguali, senza farmi male, senza prepotenza.

E mi baciò, in un modo che chiunque ha sognato almeno una volta nella vita di essere baciato.

Forse fu per ringraziarlo che non opposi resistenza quando, premendomi appena una mano sulla testa, mi invitò silenziosamente a inginocchiarmi e aprire la bocca.

Sembrava quasi godere a sentirmi graffiare con le unghie il tessuto dei suoi pantaloni cercando sostegno, a vedere i miei occhi umidi per le lacrime da sforzo causate dalla sua intrusione. Continuava a tagliarmi l'ossigeno, a soffocarmi, la gola che che si stringeva attorno alla sua lunghezza e la saliva a colarmi lungo il mento.

Lingua, labbra, denti, saliva e fiato caldo.

I suoi movimenti si fecero più decisi e meno coordinati, continuava ad ansimare ordini secchi, con la voce spezzata e ghiaiosa.

Succhia, lecca, più a fondo, di più, di più.

Obbedii a tutto, senza fiatare, anche quando mi intimò di ingoiare.

«Brava bambina.» commentò sottovoce una volta finito, mentre si riabbottonava i pantaloni con un sorriso appagato e soddisfatto in viso, e io, ancora in ginocchio sul pavimento, mi ripulivo la bocca con il dorso della mano.

«Posso offrirti qualcosa?» mi domandò poi, come se niente fosse. Mi diede le spalle per andare verso il frigorifero e ne approfittai per rivestirmi, sentendomi improvvisamente imbarazzata e fuori posto, come se l'orgasmo avesse completamente dissolto ogni goccia di coraggio.

«Niente, grazie.» mormorai tra i denti.

«Dai, almeno un'acqua tonica. Mi sentirei uno sconsiderato se ti lasciassi andar via senza neanche averti fatto reintegrare un minimo i liquidi.»

Non so se fu merito di quelle sue parole premurose o dell'occhiolino che mi scoccò incendiando di nuovo i miei ormoni, ma accettai e, dopo poco, mi ritrovai seduta al tavolo della sua cucina a guardarlo spadellare spaghetti aglio e olio, parlando del più e del meno, come due vecchi amici.

Il che, se possibile, rendeva la situazione ancora più surreale.

In realtà, era per lo più Bobbi a parlare, filosofeggiando di matrimoni senza amore e di quanto fosse squallida l'umanità asservita al solo dio denaro. Certo, era facile per uno come lui perdersi in tutti quei ragionamenti dallo scarso valore pragmatico, visto che di sicuro non si era mai trovato costretto a dover elemosinare dilazioni per le bollette o a fare docce fredde anche in pieno dicembre perché non c'erano abbastanza soldi per riparare lo scaldabagno.

«Quanti anni hai?» mi chiese all'improvviso tra una forchettata e l'altra, di punto in bianco.

«Diciassette.»

«Oh. Pensavo fossi più grande.»

«E tu, quanti ne hai?» gli chiesi a mia volta, vagamente offesa.

«Trentatré.»

«Oh, pensavo fossi un po' meno vecchio.» sentenziai vendicativa.

Ma lui rise.
Rise e mi guardò.

Così risi anche io e pensai che era proprio un sacco di tempo che non mi sentivo così leggera senza aver assunto nessuna droga.

E poi pensai che era un sacco di tempo che nessuno cucinava per me.

E che era un sacco di tempo che non mi sentivo così bene.

«Ti preferisco senza, sai?»

«Senza cosa?» parlai ancora col boccone in bocca, una vera regina delle buone maniere, confusa da quella sua affermazione buttata lì, senza contesto, sullo strascico delle nostre risate.

«Il rossetto, il trucco.» precisò, puntellando i gomiti sul tavolo e interrompendo il suo pasto come se quello che stavamo per affrontare fosse un argomento di estrema importanza, tale da non ammettere distrazioni. «Mi piaci come sei, Pulce. Non devi mai indossare maschere con me. Mai.» allungò il braccio e con il pollice strofinò via dalle mie labbra le ultime tracce di rossetto color ciliegia, assieme ai residui di olio e dei suoi baci.

Sentivo che stavo letteralmente per liquefarmi.

«Ora devo proprio tornare a casa.»
La tovaglia di cotone mi mancò da sotto le dita, il tavolo mi sfregò contro le cosce. Ero in piedi, senza neanche essermi accorta del movimento, pronta a scappare, a mettere il mio cuore, impigliato tra vene e arterie, in salvo.

Per la prima volta, Bobbi sembrò tentennare, in quell'attesa malferma di chi si vede scivolare via qualcosa di molto fragile dalle mani.

«Aspetta!» gridò quando già gli avevo voltato la schiena, costringendomi a fermarmi. Lo guardai sparire in un'altra stanza e tornare poco dopo per accompagnarmi alla porta.

«Allora, ciao.» sibilai sull'uscio, non sapendo cos'altro dire. Ma lui mi prese una mano, ci posò all'interno del palmo una bustina da lettere e ci chiuse il mio pugno attorno. Quando lasciò la presa, aprii immediatamente l'incarto e ci trovai dentro dei soldi.

Alzai lo sguardo sgomento su di lui, turbata e sconcertata, al punto da non riuscire nemmeno a proferire parola.

«La prossima volta, però, dobbiamo abbozzare il progetto, Pulce.»

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