❥ 𝖁ita di Pi

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Il giorno del matrimonio facemmo sega a scuola. Beh, direi che era il minimo.

E al Blocco Chernobyl c'era soltanto un posto in cui andare quando si marinava la scuola: un parchetto disastrato, con le altalene scrostate e più spacciatori che bambini. La mattina era un luogo tranquillo e le giostrine arrugginite e piene di graffiti offrivano un buon riparo da occhi indiscreti.

Io e Luca ce ne stavamo come quasi tutte le volte sul muretto a secco che costeggiava il parco, nella parte riparata da un grosso salice piangente che era riuscito a diventare enorme nonostante ci fossero più preservativi usati e lattine di Coca-Cola che terreno attorno alle sue radici. Evidentemente le proprietà nutritive del contenuto dei primi, battevano la velenosità delle seconde.

Il vento timido e tiepido di quella mattina scuoteva appena appena le ciocche ribelli di Luca, che finivano per solleticarmi la coscia. Io me ne stavo ferma. Ferma a godermi quel minuscolo contatto, ferma a combattere con la voglia di infilarci le dita dentro quei capelli, di saggiarne la consistenza, la morbidezza, la resistenza a quanto forte avrei potuto tirarli. Invece lui se ne stava disteso, incurante dei miei turbamenti. Caviglie incrociate, una mano abbandonata sull'addome che si muoveva al ritmo del suo respiro regolare e l'altro braccio sollevato a schermargli gli occhi dal pallido sole che faceva capolino tra le fronde, il nostro tetto frusciante.

Me ne stavo seduta accanto a lui, una sigaretta accesa tra le dita lasciata consumare al vento, le volute di fumo disperse nell'aria a creare strani giochi di ombre. Persa. Sui contorni di quelle labbra screpolate, su quell'accenno di barba che scuriva la linea della mascella, sulla curva di quel naso un po' storto e comunque bellissimo.

Glielo aveva rotto suo padre, due volte.
E due volte glielo avevo raddrizzato io.

Ma nemmeno questo era riuscito a scalfire minimamente la sua bellezza.

Inclinai la testa e mi morsi la lingua. Io non ce l'avevo il coraggio di dirgli che me la sentivo addosso quella sensazione, la sensazione che lo avrei amato per tutto il resto della mia vita; però ne avevo tutta la voglia, di quelle voglie che non passano mai.

Ed era forte, insopportabile ,la voglia in quel momento. Corrosiva, bruciava assieme all'ossigeno dentro i miei polmoni, rendendo insostenibile anche un'azione naturale come respirare. Sarà stata quella calma estatica, quel silenzio, quella rilassatezza di sottofondo che faceva sembrare tutto un sogno. Non lo so, magari a distanza di tempo il mio cervello sta cambiando le carte in tavola, ma sono certa che stessi per dirglielo di essere innamorata di lui, che mi sentivo strappare via un pezzettino di me ogni volta che eravamo così vicini e non potevo toccarlo, che avrei fatto qualsiasi cosa pur di lasciare i polpastrelli liberi di vagare sull'autostrada di vene del suo braccio.

Invece ero costretta tenerli sempre a bada, assieme ai miei ormoni impazziti di adolescente. In quel momento, in particolare, tenevo le mani impegnate ad accanirsi su un buco nelle calze: ci infilavo un dito dentro e ne contorcevo l'orlo fino ad allargarlo, slabbrarlo come una pozzanghera.

«Lù?»
«Mh?»
«Tu ci credi nell'amore?»
«Ci hanno scritto dei libri, Pù. Deve essere una di quelle favole che si raccontano per mandare giù altra merda.»
«Ah.»

Luca si raddrizzò, poggiandosi sui gomiti e reclinando la testa all'indietro per guardarmi. «Che sono 'ste domande filosofiche a prima mattina?» mi chiese. Non c'era traccia di divertimento nella sua voce, solo una sincera curiosità sprizzava da quelle mezzelune scure che mi puntò addosso, come per esaminarmi.

«Niente, era per parlare.»

«Finisce che a Pulce piace uno.» Si mise a sedere e restammo a osservarci per un pugno tremolante di attimi, lenti come se fossero anche loro stanchi di continuare a fuggire via, proprio come me. «Ci ho preso?»

Ebbi l'impressione che avesse ributtato la palla dalla mia parte, che volesse da me il primo passo. Ricordo di aver pensato quanto sarebbe stato bello avere tra le mani la mia vecchia Kodak Fun e scattargli una fotografia, per verificare poi su carta lucida che il filtro del suo sguardo, quella patina di composta frustrazione appoggiata sulle iridi, era reale proprio come mi sembrò in quell'istante. Perché ci lessi aspettativa, ma mi rimarrà per sempre il dubbio che fosse semplicemente quello che io desideravo vederci dentro.

Mi decisi a parlare.

L'avrei fatto, giuro, a costo di prendermi una cantonata supermegagalattica che mi sarebbe valsa perculate da parte sua a vita. Ma non appena schiusi le labbra, proprio come Cenerentola che viene interrotta sul più bello dallo scoccare inesorabile della mezzanotte, le parole mi morirono in gola.

«Bella, raga!»

Tra di noi si intrufolò una voce, infrangendo quel momento irripetibile come un martello su uno specchio.

Lo sguardo di Luca volò su Cesco, che si stava avvicinando a noi con quel suo solito passo studiatamente caracollante, grattandosi la nuca coperta da quella matassa di ricci quasi arancioni che scappavano in tutte le direzioni.

«Ciao, Cè. Fa sempre schifo vederti.» ironizzò battendogli il pugno.

«Pulce, un giorno mi dovrai dire come fai a sopportarlo 'sto qui.» commentò l'altro con il pollice puntato verso Luca, a cui si rivolse subito dopo senza aspettare una mia risposta. «Che ce l'avete una cartina?»

Io e Luca ci scambiammo un'occhiata d'intesa, poi annuì a Cesco con un cenno del mento. Perfino le cartine, per quelli come noi, finivano per diventare un bene prezioso, così io e Luca facevamo a metà per comprarcele, racimolando qualche spicciolo e usandole con quanta più parsimonia possibile. Non rinunciavamo mai al gesto scaramantico di buttare via la prima, ma di certo non permettevamo a nessuno di scroccarcele.

Cesco fu, quindi, un privilegiato, anche se inconsapevole. In realtà, a dirla tutta, quel giorno eravamo noi a essere a secco e con lui avevamo trovato un modo facile e quasi gratuito per garantirci una fumatina. Così, al segnale di Luca, tirai giù la zip del mio giubbotto di due taglie più grandi, infilai una mano dentro lo scollo a barca del top e tirai fuori il pacchetto di cartine dal reggiseno.

Luca trattenne a malapena un risolino divertito di fronte a Cesco, che, con la bocca appena dischiusa in attonita contemplazione della sottoscritta, si spettinò i capelli già in disordine.
«E brava Pulce, ottimizzi gli spazi.»

«Pù, ma a Madre Natura stavi proprio sul cazzo per darti così tanto spazio da ottimizzare, eh?» intervenne Luca ghignante; era così di buon umore che sorrise anche al mio dito medio. Si mosse sul posto per liberare il pacchetto mezzo scassato di Winston Blue dalla tasca dei jeans, ne estrasse una e la spezzò. Ne diede una parte a Cesco, mentre la metà col filtro finì direttamente incastrata dietro al suo orecchio destro: gli piaceva fumarsela dopo, diceva che prolungava l'effetto dell'erba.

A me non sembrava, ma contento lui.

«A proposito di tette - senza offesa, Pulce.» disse il peldicarota asciugandosi le labbra con il dorso della mano e piazzandoci all'angolo la cima. «Lù, te la ricordi Pamela?»

«Pamela quella con le tette a cipolla?»

«Gesù. E mo che sono le tette a cipolla?»

«Quelle che fanno piangere.»

Ridacchiai appresso a lui per quella battuta, felice di risparmiarmi uno dei classici panegirici che fanno di solito i ragazzi su quell'argomento.

«Fai delle battute che fanno ridere al cazzo.» decretò Cesco, mentre scuoteva la testa piccato. «Non è sicuramente lei. La Pamela che dico io la chiamano "la spagnola" e non ha parenti di Madrid.» sollevò un sopracciglio con fare allusivo nel frattempo che raddrizzava la cartina tra i palmi, lisciandone le pieghe.

«Eppure non ce ne saranno mica tante di Pamela. È un nome da zoccola, tipo Samantha.» doveva venirmi fuori come una battuta condita con un pizzico di ironia pungente e self control, invece mi scivolò via dalla bocca con una forma astiosa. Tradiva la gelosia che mi stava mordendo le caviglie solo a sentir parlare Cesco, con Luca, delle tette di un'altra.

«Pamela, quella che c'ha la zia con la videoteca.» precisò il rosso senza distogliere lo sguardo dall'erba che sminuzzava con sapienza in mezzo al palmo della mano.

«Quella dove per prendere i porno facevi tutto quel magheggio?»

«Che magheggio?» chiesi incuriosita.

«Scambiava di nascosto le custodie con quelle dei film Disney prima di andare alla cassa.» rise Luca. «Qualcuno avrà seriamente guardato "Biancaneve e i sette nani" anziché "Biancaneve sotto i nani" per colpa sua. Garantito.»

«Conosce mia madre quella vecchia arpia! E poi non mi rompere i coglioni che quando ce li avevo, venivi a guardarli anche tu, pistolino.» borbottò Cesco, la voce un'ottava sopra l'acuto di un soprano e una sotto il grido atono di una banshee.

«Si vabbè, comunque, che c'ha 'sta Pamela?»

«Ricciolo mi ha detto che vorrebbe avere un tête-à-tête con te.»

«Cazzo è un tête-à-tête? Tetta contro tetta e io in mezzo?»

«Ti si vuole fare.» Cesco inspirò pesantemente, roteando gli occhi al cielo come chi è costretto a spiegare l'ovvio a un bambino dell'asilo. «Nel suo garage. Che ha comprato a fare un materassino gonfiabile a cento chilometri dal mare secondì te? Lù, sei scemo come la merda.»

Luca prese il joint appena rollato e, dopo aver incastrato il filtro tra le labbra, fece scattare l'accendino. Il suo sorrisetto sprezzante si dissolse nel primo tiro. «Ho capito chi è. Non mi va di scoparci. Fa i pompini con i denti.» Il tono annoiato con cui lo disse, diede l'impressione di uno di quei sommelier che assaggiano un vino buono come il Tavernello e lo stroncano con poche ficcanti parole.

«Oh, mi scusi, monsieur, non sapevo che avesse la cappella così delicata.» Cesco si accorse che lo guardavo, affascinata dal suo scarsissimo tatto. Così mi apostrofò: «Pù, ma si può dire "cappella"?»

«Certo. Tu c'hai la licenza poetica, Cé, puoi dire quello che vuoi. Anche se non mi pare che Luca abbia il cazzo schizzinoso.»

Luca si mise a ridere sguaiatamente. Poi, appena si ricompose, strinse le palpebre su di me e si limitò a dire: «Hai la finezza della carta vetrata.» soffiò sulla punta ardente dello spinello e, quando rialzò lo sguardo, lo puntò su Cesco. «Testa di Rame, vivi sereno, siediti qua e parliamo di tipe serie. L'amica di tua sorella.»

«Quale?»

«Che domande, tua sorella ha una sola amica bona. Quella di danza, della foto col tutù.»

«Spero sinceramente che tu non l'abbia toccata quella foto a casa mia. Gliene ho dedicate mille.» sghignazzò. «Ma scherzerai, comunque, quella sta con un mafioso.»

«Ma io mica devo sposarla, voglio solo vedere se fa certe cose anche senza tutù.»

«Smettila che sto male a pensarci, il filmino del saggio l'ho guardato come un porno. Ma ti ripeto, quella non può darti niente se non dell'ottimo materiale per una cosa in solitaria.»

Luca mi passò la canna sorvolando solo per un attimo sui miei occhi bassi e su quella smorfia che non riuscivo proprio a scucire dalle labbra. Ero abituata a sentirlo parlare di ragazze, di tette e culi, di scopate e posizioni, d'altronde era una vita che eravamo insieme e avevo imparato a farmi scivolare di dosso quella strana sensazione di fastidio che mi pizzicava sottopelle ogni dannata volta. Ma quel giorno, solo a ripensare che fino a poco prima ero lì lì per aprirgli finalmente il mio cuore, la cosa mi risultò a dir poco insopportabile. Misi in stand by il cervello con due tiri rapidi e iniziai a rovistare nello zaino in cerca del mio vecchio walkman. Avevo troppo bisogno di estraniarmi.

«Oh, te lo chiedo per l'ultima volta: te la vuoi scopare la Pamela, o no? Ambasciator non porta pena.»

«Che c'è, ti ha promesso due morsi al pisello pure a te?»

Cesco assunse l'aria del tipo navigato.
«Quel materassino io già l'ho provato, hai mai sentito parlare di solidarietà tra amici?»

Luca rise, Cesco stava facendo il gradasso sicuramente. C'era da capire quale fosse il vero motivo per cui si era preso la briga di venire fin lì. Ma a me non importava un cazzo, sinceramente. Ero indecisa tra il maledirlo per averci interrotto e l'ergerlo a santo per avermi risparmiato quella che probabilmente sarebbe stata la più grande cazzata della mia vita.

«Dille di fare un salto lei al mio palazzo, comunque, per me va bene. Tanto Pulce non si scandalizza.» mi diede una leggera gomitata per attirare la mia attenzione, fino a quel momento strategicamente dedicata al groviglio inestricabile che erano diventate le mie cuffiette.

«Figurati, capirai che mi frega.» biascicai con poca convinzione, cercando di inghiottire il groppo che mi ostruì di colpo la trachea. «Va a finire che magari ti piace fartelo succhiare dai castori. È pur sempre un'esperienza.» Il disastro era ancora sul fondo della gola, amaro e ugualmente insipido, un sapore che doveva somigliare al disprezzo e che quasi esondava nel patetico.

Cesco ridacchiò come una iena, il fumo degli ultimi afflati di vita della nostra canna gli fuoriuscì in maniera scomposta tra naso e bocca. Conoscendolo, stava di sicuro fantasticando su qualcosa che aveva a che fare con la zoofilia. In fondo, "Cicciolina e il Cavallo" era un argomento ancora di stretta attualità all'epoca.

Lo ignorai e inghiottii le milleuno bestemmie che mi vennero da lanciare allo schifosissimo walkman che evidentemente aveva le pile ancora più scariche delle mie per decidersi a funzionare.

Luca si alzò, si sgranchì la schiena e ficcò una mano nella tasca del suo Invicta consumato.
«Tieni, Pù.»

Lo vidi sporgersi sulla mia spalla, così vicino al volto da sfiorarmi con la guancia, in un'intimità casuale che mi fece tremare sotto tutta quella mia ostentata indifferenza. Tra le mani Luca teneva il suo walkman, quello che avevamo comprato insieme l'anno prima dallo stesso tizio che mi aveva venduto la macchinetta per i tatuaggi. A quanto pareva a "suo zio" non mancava proprio niente.

Ricordo che quel giorno stesso ci eravamo messi a registrare su un paio di musicassette le nostre canzoni preferite quando passavano per radio. Ne avevamo consumate di matite a furia di mandare dietro i nastri, girandole nei buchi, e alla fine erano da buttare.

«La roba tua è sul lato che già sta dentro.»

Una bazzecola, una cosa di poco conto, un niente.

Ma quella frase ebbe il potere di rasserenarmi. Come un sotterraneo piacere tra i lombi, mi fece sorridere di lusinga. Aveva registrato le mie canzoni, ragionando da solo su quali fossero le più adatte a me, quelle che avrebbero potuto piacermi di più, quelle che avrei canticchiato a bassa voce nei momenti morti.

Ciò che per chiunque potrà sembrare un "niente", per me fu un promemoria della sua presenza, un suo personalissimo modo di dirmi che lui era l'unico, senza eccezioni, a conoscermi tanto bene da trovare la melodia giusta per farmi cantare.

«Rosso, dai, dì a questa Pamela che ci becchiamo verso le due, prima di sto cazzo di matrimonio.» aggiunse poi, un attimo prima di mettersi lo zaino su una spalla, spostarsi in bocca quel quartino di sigaretta che si era conservato e allontanarsi.
Il suo "ci si vede" strascicato tra i denti, fu un tacito promemoria per me stessa a tenere chiuse le tendine della mia finestra se non volevo assistere allo spettacolo delle sue prodezze con Miss Roditore 1993.

«E a te, Pulce?»

«A me cosa?» sospirai, quasi, e cercai di ridarmi subito un contegno mettendomi tra le labbra una sigaretta.
Cesco mi allungò uno zippo di acciaio nero opaco con una A cerchiata attentamente incisa sopra e una fiamma in grado di arrostire un pollo intero. Mi sporsi verso la fiamma e aspirai la nicotina a occhi chiusi.

«Niente. Mi chiedevo se magari anche a te andasse di uscire con qualcuno, oggi.» iniziò a giocherellare timido con il suo bell'accendino, evitando accuratamente di guardarmi. Era già rosso, era fisicamente impossibile che lo diventasse ancora di più.

«Cos'è? Ricciolo ti ha fatto una soffiata anche per me?» puntai l'azzurro del mio sguardo su di lui, un sopracciglio levato con fare scettico.

«Ma no, scema.» ridacchiò e prese posto accanto a me sul muretto. «È solo che, sai, mia nonna mi diceva sempre che ci sono poche cose che un buon gelato non riesce a risolvere. E ho pensato che magari tu ne avessi bisogno.» mi assestò una lieve spallata.

«E perché mai?»

«Boh. È che ultimamente ti vedo sempre più strana.»

Quegli attimi avevano una leggerezza nuova, insostenibile – il senso di vuoto che si prova quando una risata si estingue e pensi a tutte le ombre nascoste in un lampo di luce.
Abbassai lo sguardo in un momento di riflessione. Le mie dita giocavano ancora nervose con gli orli sgualciti dei buchi nelle calze. Ritrovai un sorriso distratto sulle labbra e, quando rialzai lo sguardo, Testa di Rame mi stava fissando.

«Sono solo pensierosa.»
«Già, ma coi pensieri sbagliati.»

Sbuffai una risata disillusa e scossi la testa. Era la prima volta che qualcuno mi faceva un discorso del genere, seppur in maniera velata, e io non avevo nessuna intenzione di diventare la protagonista di uno spettacolino di autocommiserazione da due lire con un unico spettatore.

Schiacciai il mozzicone contro la pietra viva del muretto e balzai in piedi, pronta a tornarmene a casa anch'io. Ma, senza che nessuno glielo chiedesse, Cesco si avviò dietro di me. Per vedere di scrollarmelo di dosso, mi fermai a una bancarella di libri usati, convinta che così facendo si dileguasse per paura di prendere strane malattie. Invece rimase, e mise la mano in una cesta, estraendo un piccolo tomo.

«Ho trovato un libro adatto a te, Pù.» esclamò il rosso d'un tratto.
«Ah, sì? Come si intitola?»
«"L'amore fa schifo". Compralo, solo 1200 lire.»

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