4. RANCORE🖤

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Respiravo affannosa in mezzo a quel prato di gialla sterpaglia.
Gli occhi sgranati e terrorizzati fissavano il vuoto totale.
Ero rimasta basita.

Gli spaventapasseri ancora lì, inermi, a scrutarmi malvagi.

Un dolore lancinante mi dilaniava il nero petto.
Stava scavando ancora di più nelle mie profondità.
Mi stava rovinando, mi stava distruggendo.
Stava consumando la mia povera anima.
Mi rovinò l'ultima scintilla di vita che potevo conservare.

Proseguii lenta, nell'immensa e ondosa vallata.

Si levò una frizzante aria.
Il cielo argenteo si rabbuiò di gonfie nuvole. Incombevano minacciose sopra di me.

Le sottili ciocche di capelli mi solleticavano le guance.
Li scostai, infastidita, dalla mia pelle esangue.
Avvertii qualcosa di sinistro nel mio volto.
Ero più magra e sciupata, ma c'era altro, altro che non riuscivo a scorgere.

Avevo perso le speranze.
La via mia era smarrita da giorni.
Di fronte a me si parava di nuovo il tetro bosco.
No, non volevo intrufolarmi di nuovo dentro il suo macabro cuore.
Non avrei potuto sopportare altri malefici, altre creature malevole e mostruose.

L'aria era diventata più rarefatta, si trasformò in un forte vento che soffiava da oriente.
Un brontolio squarciò le nubi: l'eco del temporale era ancora lontano.
Rabbrividii. Avevo bisogno di un riparo.
Le prime gocce grosse picchiettarono sulla mia nuca e sul terreno.

Mi girai e rigirai, confusa. La testa in preda alle vertigini.
Cercavo un riparo, un rifugio sicuro.
Ma non c'era, non esisteva, non lo trovai mai.
Ero persa in mezzo al nulla, dimenticata a me stessa e al mio dolore.
Ero stanca, da troppo tempo.

I miei pugni si serrarono.
Alzai gli occhi al cielo e cacciai un urlo di rabbia furente.
Il cielo rispose e un fulmine mi accecò, colpendomi il corpo.
Mi accasciai a terra, distesa.
Persi i sensi e mi lasciai cullare dal nero delle tenebre. 

Il mio copro leggero come una farfalla, si sollevò e iniziò a fluttuare.
Qualcuno mi stava trasportando altrove.

Pian piano riaprì gli occhi.
Ero distesa sul terreno sopra un coperta di foglie secche e brune.
Attorno a me, a illuminarmi, c'erano tre fiaccole accese.
Il fuoco scalpitava croccante e aranciato.
Mi destai.
Era notte fonda.

Gli alberi neri e scheletrici mi fissavano immobili con i loro artigli che si diramavano e si intersecavano in un intreccio di rovi e spine fin sopra a soffocare il cielo blu, fino a circondare la pallida luna che rivelava il suo volto colmo di solitario terrore.

Mi misi seduta.

Ero di nuovo al centro del bosco oscuro.

Grugnii d'impazienza, strisciai le unghie sulla terra bagnata.

Qualcuno mi stava manipolando.

Ero una Succube del bosco.

Di lato scorsi un piccolo laghetto circondato da una leggera fuliggine.
Mi trascinai verso di esso. Gattonai fino a giungere sulla riva.

Immersi l'indice dentro l'acqua torbida. Era gelata come l'inverno che tanto odiavo.
Mi leccai le labbra screpolate e secche. Mi assalii una grande sete.
Misi le mani a coppa e ne bevvi più che poté.
Scese giù nelle mie viscere, congelandomi gli organi interni.
Mi punse come spine, ma mi dono freschezza e conforto.
Rimasi lì, china.

Nell'acqua scorsi il mio riflesso.
Spalancai gli occhi. Erano diventati ancora più neri. Non avevo più le pupille.
Due ombre circondarono i miei occhi iniettanti di sangue scarlatto.
Possedevo gli occhi di un Demone.
La mia pelle era attraversata da sottili crepe nere.
I miei capelli erano bianchi come la neve, lisci e spenti.
Vene sottili si irradiavano in tutto il mio corpo, scendendo per il collo.
Nelle braccia pulsavano forte.
Il mio sangue era mutato: era marcio. Avvelenato dal Male.

Avevo il respiro corto e affannoso.
Non volevo diventare un mostro come quelli incontrati.

Il dolore mi stava lentamente uccidendo.
Me l'aveva già spezzata in due.
Avevo l'anima rotta dal Male.
Non avevo più salvezza.
Ero veramente persa.

Meglio che mi lasciavo andare presto.

Una mano viscida, nera e palmata, dalle unghie ricurve e affilate, mi avvinghiò una caviglia e brusca mi trascinò dentro l'acqua. 
Gridai forte che feci scappare via dei passeri appollaiai sui rami più alti. 
Presi a dimenarmi, in cerca di un appiglio, in cerca di ossigeno, in cerca di salvezza.
La creatura si strinse di più a me.
Urlai disperata e impotente.
Mi trascinò giù nei tenebrosi abissi.
Voleva divorarmi.
Riuscì a tirarle un calcio e a liberarmi.
Ritornai con furia a galla. In fretta uscii dall'acqua e mi accasciai sulla riva.
Tossii. Sputai fuori l'acqua dai polmoni.
Emanai un sospiro di sopravvivenza.
Mi abbandonai sul fogliame, riprendendo fiato.

Mi voltai verso il laghetto.
Dall'acqua vidi da un bollore spuntare una nera creatura.
Era lei, la Tentatrice.
Era una giovane donna dai capelli cerei lunghi e lisci che le nascondevano il seno.
Due corna ricurve gli spuntavano dalla testa. Aveva il volto ovale, dalle guance scavate e il collo magro striato di vene nere e sottili. Rivelò la sua coda squamosa e perlacea.
Mi stava fissando immobile, apatica, con il suo sguardo da perfetta predatrice che era.
I suoi occhi circondati di nero avevano le iridi dalle sfumature violacee. 
Forse sta aspettando una mia mossa, un mio gesto per riacciuffarmi e farmi sua per sempre.
«Presto sarai una di noi. Non si può fuggire al dolore. Lui arriverà a riprenderti. Cadrai anche tu...»
Mi sussurrò come una vipera avvelenata. Mi mostrò i denti candidi e aguzzi e la lingua rossa biforcuta.
Scomparì nelle profondità della pozza.

Ero spaventata. Assomigliava tanto a me.

Scossa e turbata mi rialzai di fretta e corsi via, lontano da quel posto.

Vagai per il bosco.

Trovai un'oscura e umida caverna.

Mi addentrai.

Le braccia mi avvolgevano il freddo ventre.
Ero ferma, immersa nell'oscurità, con il capo chino.
I piedi nudi sopra una miriade di rocce frastagliate.
Provavo solo un sentimento.
Odio verso la mia vita.
Odio verso il mio ingiusto destino.
Odio verso il mio corpo.
Odio verso il mio cuore a pezzi.
Odio verso la mia anima rotta.
Odio verso me stessa.
Non mi meritavo tutta questa sofferenza.
Non volevo diventare brutta.
Non volevo diventare cattiva.
Non volevo diventare un mostro,
ma ero già caduta.

Mi inginocchiai e presi una pietra.
Osservai gli angoli affilati e le braccia venate di nero.
Volevo solo morire.
Affondai la punta acuminata nella carne.
La vista si offuscò; le lacrime riempirono i miei occhi.
Strisciai con forza il sasso sull' avambraccio.
Serrai le labbra.
Rivoli neri uscirono dalla pelle lacerata. Alcune gocce picchiettarono sul suolo roccioso.
Compì lo stesso gesto anche nell'alto braccio.
Gemetti.
Gettai a terra la pietra impregnata del mio sangue.
Tirai su con il naso.
Rimasi lì, inerme, con le braccia aperte brucianti e impregnate della mia linfa vitale infetta.
Non provano niente.
Non sentivo niente.
Il mio sforzo non era servito a niente. Mi ero solo rovinata il corpo.

Furiosa fuggì fuori dalla grotta.

Il bosco non vuole che io mi uccidessi.
Solo Lui aveva il privilegio di farlo.

Venni pervasa da una rabbia irrefrenabile.

Corsi e mi schiantai contro il tronco di un acero spoglio.
Sbattei forte la testa e caddi all'indietro.
Una goccia di sangue scese lenta dalla mia fronte.
Urlai e mi dimenai impotente.
Afferrai le ciocche dei miei capelli e inizia a strapparmele una per una.
Avevo le tempie in fiamme.

Avvertii un fruscio sinistro.
Mi sollevai e stetti sull'attenti.
Un cespuglio di rovi e spine vibrò lieve.
C'era qualcuno là dietro.
Percepivo il battito del suo piccolo cuore.
Adagio, avanzai.

Vicino a un gruppo di funghi c'era un coniglietto bianco dagli occhi vermigli.
Si arrestò, smise di mangiare la sua foglia.
Era così grazioso, così bello, così innocente.
Non meritava di vivere in un luogo così oscuro e malefico.
Lo presi in braccio.
Gli accarezzai il pelo candido, folto e morbido e poi...
Con un rapido gesto gli spezzai il collo.
Lo rimisi a terra e lo abbandonai.

Mi voltai e ripresi a vagare per il bosco.
Senza rimpianto, senza risentimento, senza colpa.
Ero pervasa dal dolore e dalla rabbia e molto, molto affamata.
Avevo perso il controllo delle mie emozioni.
Avevo perso me stessa...

Per sempre.

Graffiavo con le miei lunghe unghie ogni albero che sorpassavo.
Spezzavo i loro rami più bassi.
Strappavo via le radici a ogni arbusto che mi si parava davanti sul terreno.
Calciavo e spazzavo via le foglie secche.
Fra gridi e risolini isterici e perversi.
Ero diventata tutto ciò che non avrei mai voluto: un mostro.
Il dolore mi aveva reso brutta e cattiva.
Avevo le unghie sporche di legno e terriccio e le braccia incrostate di sangue.

Davanti a me giaceva la carcassa putrefatta di un qualche cerbiatto caduto vittima già di altre prede.
Intorno al cadavere ronzavano grosse mosche.
Avanzai.
Le miei narici vennero inebriate dall'odore di carne morta e putrefatta.
Era quasi piacevole e invitante.
Mi accucciai e con una mano presi una manciata di carne e me la infilai in bocca.
Era stranamente buona e saporita.
Ne volevo ancora e sempre di più.
Mi tuffai nella carcassa e assaporai ogni sua parte, fino alle budella, fino ai resti del suo cuore.
Lo afferrai e glielo strappai di dosso.
Era ancora caldo, gonfio e viscido.
Me lo misi fra le mani. Era già stato morso da qualche lupo mannaro.

Ora era il mio turno.
Lo addentai e lo strappai in due.
Succhiai il sangue rosso vivido al suo interno, sporcandomi il viso.
Avevo il corpo e l'abito sporcato di sangue.

Avevo anche io le mie colpe.

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