Dulcis in fundo

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Le donne, nondimeno, avevano messo in conto che i rispettivi mariti si sarebbero molto offesi del trattamento ricevuto e non badarono di proposito ai modi imbronciati che tennero con loro per tutto il giorno di Natale; né ritennero strano che, venuta la notte, si astenessero da qualsiasi tentativo di approccio, considerandolo sia un effetto dell'atteggiamento fermamente dissuasivo che per prime avevano messo in atto sia un segno di resa incondizionata. Santo Stefano, fatta la messa nella basilica milanese dedicata al primo martire, la stessa dove, anni prima, aveva perso la vita il duca Galeazzo Maria, e consumato il lauto banchetto, trascorse piattamente fino al tramonto e oltre: le camere da letto non erano mai state così fredde.

Per San Giovanni Evangelista le strette parvero allentarsi. Lorenzo invitò Clarice a passeggiare nella neve e Alfonso passò del tempo seduto di fronte al camino accanto a Ippolita. Ma di nuovo, giunta la notte, tornò una certa indifferenza a separare gli uomini dalle donne e nessuno, da una parte o dall'altra, cercò calore negli abbracci segreti, nei baci o nelle dolci parole che si scambiano prima di dormire.

La mattina seguente il cielo era sgombro di nuvole, l'aria frizzantina e gli animi insolitamente più allegri. Alfonso andò fino alla camera dei Fiorentini, cosa che non era mai capitata in precedenza; quando poté presentarsi al loro cospetto, con un piglio molto convincente, benché non innocente, propose una passeggiata a cavallo nello sterminato parco del Castello. Lorenzo, senza pensarci due volte, accettò per sé e per la moglie.

Clarice però, che tutti sapevano detestare tanto il freddo, poiché le cagionava forti raffreddori, quanto le cavalcate, prese il marito per il braccio e lamentò: «Io starò più volentieri qui ad aspettarvi, ché non sono avventurosa come voialtri né mi garba andare per i boschi, dove si incontrano bestie feroci come lupi e cinghiali. Voi andrete e, al ritorno, mi racconterete».

«Oh, madonna! Voi farete sgarbo alla duchessa a rifiutarvi. Da tanto vorrebbe svagarsi, ma non ne vuole sapere d'uscire senza qualcuna che le stia vicino. Voi sapete quant'è pudica lei, e quanto evita la compagnia di soli uomini. Saremo tra noi, noi quattro e qualche scudiero, senza cortigiani né altri estranei, a goderci una giornata di bel tempo com'è questa», rispose Alfonso, scegliendo ogni parola con cura.

Clarice stava già per declinare la seconda volta, quando Lorenzo intervenne. «Sua Eccellenza ha ragione! Hai quel vizio di non metter mai fuori il nasino da casa e così ti condanni alla prigionia quando potresti correre libera come una ninfa.»

«Io non intendo essere la ninfa di nessuno!» ribatté, pungolata nell'orgoglio. «Se è per la signora duchessa, il sacrificio non mi pesa punto. Quanto a voi, che già ne avete combinate abbastanza, badate di non farvi burle di noi.»

Non sospettava, la poverina, di essere già caduta nel loro primo tranello. I due, infatti, congedandosi da lei con la scusa dell'andare a scegliere i cavalli più docili della scuderia sforzesca, piegarono il percorso più del dovuto, in modo da ripassare nelle camere della coppia aragonese. Ippolita, come suo solito, stava recitando le lodi mattutine insieme alle donne della sua corte e lasciò i visitatori in attesa per alcuni minuti prima di riceverli.

Lorenzo, dopo un ampio inchino, cominciò a dire: «Vostra Eccellenza, è una così bella giornata oggi che mia moglie ed io abbiamo determinato d'uscire per una passeggiata a cavallo nel parco. Vostro marito ha già accettato l'invito che ora io estendo a voi: saremmo onorati se c'accompagnaste».

La duchessa sul momento non rifletté su quanto fosse inusuale, per madonna Medici, partecipare a una simile scampagnata, ma mise avanti le proprie ragioni con un cortese rifiuto. «Vi sono grata della gentilezza, magnifico Lorenzo, ma avevo in proposito di passare la giornata con i miei fratelli, giacché dura ancora poco la nostra permanenza a Milano.»

«Il duca di Bari è impegnato, oggi. E il cardinale ha fatto sapere che i banchetti di questi giorni l'hanno fiaccato e preferisce riposare. Ha sospeso tutte le visite, persino quella del giovane Gian Galeazzo», spiegò Alfonso. Ippolita, guardandolo fisso, replicò: «Allora me ne andrò nelle stanze della mia cara cognata Bona e ricamerò un po' con lei».

«Vedete, Eccellentissima Signora,» tornò alla carica Lorenzo, «mia moglie gradirebbe oltremodo la vostra presenza, soprattutto in vista della vostra prossima partenza. Non spera di vedervi più tanto presto, una volta che sarà tornata a Firenze dai figlioli.»

Era la tenera immagine dei bambini a piegare un poco il suo animo verso la risoluzione incoraggiata dall'ospite? O l'idea di aver trovato una confidente a lui vicina con cui stringere un legame più forte? O la premonizione di avere poco tempo per stare tranquilla, avviandosi a vivere nella patria adottiva tempi non così rosei come avrebbe voluto? In ogni caso, la risposta successiva, ragionata, maturata nel breve silenzio che chiuse l'intervento di Lorenzo, fu positiva. Sì, d'accordo, se si trattava di Clarice allora sarebbe venuta. «Soltanto,» chiosò alla fine, «vi domando la cortesia di non comportarvi da villani come l'altra sera...»

Preghiere inascoltate. Assensi fasulli. Da due come loro non si sarebbero dovute aspettare poi grande lealtà in un frangente delicato quale era quello. Tuttavia, da uomini allenati a dissimulare e a tramare nell'ombra, né Lorenzo né Alfonso lasciarono trapelare indizi sulla loro reale disposizione d'animo. Quando si incontrarono nelle scuderie, entrambe imbacuccate tra mantelli di pelo d'ermellino, cuffie pesanti, stivali imbottiti di pelliccia di coniglio, Clarice e Ippolita si sorrisero sollevate, sentendo nella presenza dell'altra un sostegno indispensabile ad affrontare una giornata fuori con i mariti.

La passeggiata cominciò sotto i migliori auspici: i cavalli scelti per le signore erano mansueti, eseguivano i comandi e, talvolta, li anticipavano, avanzando con placido passo nella neve fresca. Si lasciarono in breve il Castello alle spalle: in testa procedeva Alfonso, poco più indietro Lorenzo, quindi le donne e in coda i pochi servitori. Si chiacchierava gaiamente del più e del meno e, in breve, si finì a parlare della cara prole. Ippolita dipinse con parole sognanti il figlioletto Ferdinando, detto Ferrandino per distinguerlo dall'augusto avolo re di Napoli ancora vivente, e Lorenzo le rispose che aveva una schiera di donzelle in casa sua che si sarebbero offerte a fargli da spose. Si scherzava, dato che tutti sapevano che matrimoni del genere non sarebbero mai stati avallati dalla famiglia aragonese, ma poiché la circostanza intima lo consentiva, si prese di buon grado a far la rassegna delle piccole Medici candidate: e la parola finale fu lasciata alla loro mamma, che più di tutti conosceva il carattere delle bambine, avendole tirate su lei stessa. Non ebbe troppi dubbi a dire: «Loisa! Loisa è quella indicata».

«Suvvia, Clarice, ti privi così della più piccina delle tue creature femmine?» brontolò Lorenzo, altrettanto legato alle figlie e, forse, già geloso di loro. «Non sarebbe un miglior partito la Lucrezia nostra?»

«La Lucrezia è una testa fina come te, ed è troppo sicura del fatto suo. Son sicura che per un erede al trono come Sua Eccellenza il duca di Capua sia da preferire una bimba che promette di riuscire più bella e più sensibile della Lucrezia.»

«Lucrezia, Loisa o chi volete, quel che conta è che il suocero mio si scucia una bella dote dalle tasche e me la dia in denaro sonante!» rise Alfonso, chiudendo la questione.

Si affacciava infatti nel candido orizzonte una casupola che sembrava uscire pari pari da una fiaba: bassa, finestre piccole, tetto di frasche carico di neve, un comignolo che sbuca come un fungo nel manto bianco che lo circonda un po' discosto e il fumo che si avvolge in morbide volute verso il cielo, infondeva una tale sensazione di calore che, pur non essendo una villa degna di quelle cui i quattro cavalieri erano abituati, tuttavia li attirò a sé.

Sarebbe meglio dire che attirò solo le donne, Ippolita e Clarice, grazie al fascino rustico che la connotava ai loro occhi dell'umiltà e semplicità che, in fondo, apprezzavano molto; Alfonso e Lorenzo, invece, avevano ben altri motivi per bussare alla porticina che si apriva a un estremo della parete più lunga. Ancora una volta, però, furono abili, abilissimi a dissimulare: e si approssimava il secondo tranello.

Giunti a pochi passi da lì e accordatisi sul proposito di fermarsi a riscaldare le ossa prima del ritorno per la cena, gli uomini smontarono per primi, affidarono i cavalli agli scudieri e poi si rivolsero alle mogli. Il duca di Calabria, per primo, tese una mano alla duchessa e, presala ben stretta, se la fece scivolare dalla sella fra le braccia, così che non bagnasse il vestito e i piedi. Clarice non fu tanto agile quando Ippolita e, nel compiere la medesima manovra con Lorenzo, perse l'equilibrio, gli cadde addosso e, in poche parole, lo travolse. La neve, per fortuna, attutì il capitombolo, ma cagionò non poco imbarazzo. Lorenzo si tirò in piedi sbuffando di freddo, l'Orsini gli saltellava intorno per controllare che stesse bene. Un siparietto divertente, in fin dei conti, soprattutto perché si concluse con una risata e nient'altro.

Ma le sorprese erano ancora tutte da venire: come ebbe bussato, Ippolita si vide aprire di scatto l'uscio e comparire un uomo alto e ben piantato, vestito della livrea di Ludovico Sforza.

«Benvenuti, Illustrissimi Signori, v'aspettavamo!»

«Ci aspettavate?» ripeté Clarice, pensando di non aver capito bene.

«Certo, entrate! Entrate e servitevi, Magnifici ospiti! Sua Eccellenza il duca di Bari ha preparato tutto secondo il vostro desiderio!» continuò questi, ma un'occhiata sferzante di Alfonso gli fece intendere che era il momento di chiudere il becco e prendere il mantello, cosa che il servo fece prontissimamente.

Le dame non fecero in tempo a domandare spiegazioni: mentre l'omone lasciava il campo incustodito ai nuovi legittimi occupanti, i loro mariti le condussero, uno in braccio e l'altro a spinta, oltre la soglia.

Ludovico li aveva avvisati: non pareti affrescate, non soffitti alti a cassettoni, niente cesellature alle maniglie né intarsi alle porte, alle sedie o al resto del mobilio. Quella era una casa umile, una casa di contadini. C'erano due stanze, piccole ma dignitose, arredate con parsimonia ma con letti comodi e spaziosi, e una saletta ad uso di cucina con un gran camino in opera. Per l'occasione, però, si era disposto un tavolo nel bel mezzo dell'ambiente, accompagnato da quattro sedie e adornato di un servizio d'argento straripante di ogni leccornia. A far da signore della mensa quel pane or ora inventato, quello con l'uvetta e i canditi e la frolla morbida e profumata, frutto dell'ingegno di un Toni e perciò denominato panettone, come a dire pan de Toni. E c'erano creme dolci, intingoli salati, tortine di zucca e frittelle velate di miele. Nessuno sarebbe rimasto indifferente a tanto ben di Dio.

Clarice, entusiasta alla conquista di un po' di tepore, non avrebbe saputo dire se a darle più piacere fosse l'aroma delizioso delle prelibatezze accomodate con ordine sulla mensa oppure l'abbraccio caldo di tutto l'insieme, e specialmente del focolare rampante. Un altro abbraccio giunse a cingerla subito dopo, altrettanto ardente e, in segreto, altrettanto da lei desiderato, soltanto che si era ripromessa di non cedere per nessun motivo: non si sarebbe fatta comprare né dalla golosità né dalle lusinghe, perciò, malvolentieri ma con grande convinzione, fece un passo avanti e si liberò. Lorenzo non diede a vedere quanto la sua ritrosia lo pungolasse e, ostentando indifferenza, si avvicinò alla tavola, finse indecisione, quindi raccolse una frittella e la addentò ad occhi chiusi.

Per colpa del servo sbadato, il secondo tranello era stato rivelato prima del tempo e l'onda della sorpresa era stata incrinata dal sospetto. Ippolita, mettendo i piedi per terra, lanciò giusto uno sguardo alla porticina a cui era entrata, poi questa venne chiusa. Silenzio, rotto solo dallo scricchiolio della legna nel camino. Silenzio, perché le parole avrebbero solo guastato l'atmosfera.

Alfonso si godeva un buon calice di vino rosso; Lorenzo addentava per la seconda volta la sua frittella. Le donne, invece, stavano in disparte, improvvisamente guardinghe. I loro timori presero ulteriore corpo quando, da una delle finestrelle, Ippolita scorse gli scudieri mentre imboccavano il sentiero a ritroso, diretti al Castello. Additò la faccenda a Clarice, che trasalì e spalancò gli occhi e si volse di scatto al marito. «Che cosa sta accadendo qui?» balbettò. Lorenzo mugugnò con la bocca piena per farle capire che, per il momento, non avrebbe avuto una risposta. Alfonso si limitò a un sorrisetto che non prometteva nulla di buono.

«Insomma, messeri, era tutta una congiura contro di noi?» attaccò Ippolita incrociando le braccia.

«Una congiura?» la prese in giro suo marito. «Mi sembra che tu esageri a dire che si tratti di congiura: non vogliamo certo ammazzarvi, non è nostro interesse!»

«Hai capito benissimo cosa intendessi dire», replicò inviperita, ciononostante non suscitò nessuna reazione oltre a una risatina di complicità tra i due mascalzoni. Clarice arrossì d'un colpo di fronte a tanta sfacciataggine e, prendendo a bersaglio Lorenzo, cominciò a dirgli: «M'hai fatto prendere tanto gelo per che cosa? Per una delle tue stupide burle! Non sei più garzone, e io non sono più fanciulla!»

Lui le ammiccò. «Dunque è così che mi ringrazi? Non hai nemmeno visto i cialdoni che ti piacciono tanto», disse, e le indicò i fragranti dolci toscani, semplici e, nella loro semplicità, gustosi, sottili dischi di farina, zucchero ed acqua arrostiti sul fuoco e guarniti con qualsiasi cosa la fantasia e la gola suggerissero. Clarice ne andava ghiotta, così come lui, ed entrambi si erano rammaricati di non averne alla cena della Vigilia di Natale. Lei seguì la direzione indicata dal dito di suo marito, adocchiò i tanto desiderati cialdoni fumanti e, accanto, una generosa scodella di panna fresca. Dovette deglutire, perché l'acquolina le avrebbe facilmente impedito di continuare il suo rimprovero. «Non m'importa dei cialdoni!» mentì. «Vogliamo tornare, ché presto si farà buio!»

«Madonna, qui abbiamo due belle camere messe a disposizione da Sua Eccellenza il duca di Bari; il letto è comodo, ve lo giuro, ma proverete voi stessa stanotte se vostro marito sarà così clemente da farvi anche riposare», spiegò Alfonso, sempre tirato al sorriso dai pensieracci che gli ingombravano la mente.

«Oh, voi non crederete che noi rimarremo qui!» obiettò minacciosa Ippolita.

«Vi toccherà andare a piedi, Eccellenza», concluse beato Lorenzo, e attinse dell'altro dai vassoi; questa volta, una fetta di panettone.

C'erano due sedie che parevano messe apposta affinché, al culmine del battibecco, ci si sedesse a riordinare le idee. Per prima fu Clarice ad accomodarsi, le braccia strette al petto e il viso imbronciato a guisa di bambina capricciosa, lo sguardo rivolto altrove pur di non degnare colui da cui si sentiva tradita e sbeffeggiata. Ippolita la imitò poco dopo, prendendo posto accanto a lei. Rialzati gli occhi verso la tavola, esclamò subito: «Lontani, o prendo a strillare». Si avvicinavano, infatti, con quelle loro facce poco affidabili.

«Che volete, adesso?» fece Clarice, studiando i loro modi; seguì in particolare Lorenzo quando lo vide aggirare la sua seggiola per porsi dietro lo schienale. Lo guardava dal sotto in su, facile preda eppure orgogliosa e testarda. Non da meno era la determinazione di Ippolita di non farsi intimidire, men che meno farsi costringere ad alzarsi. Stettero immobili, donne guerriere, sicure del proprio posto. E questo le spacciò.

Con insospettabile velocità, Alfonso cavò di tasca un laccio e agile, da buon cacciatore quale era, fece due giri di corda attorno al busto della moglie, intrappolandola per i gomiti alla sedia su cui sedeva. Neanche il tempo di rendersene conto, anche Clarice si ritrovò legata e, quando provò ad alzare le braccia per ribellarsi, Lorenzo aveva già annodato i due estremi in un groviglio indistricabile.

«Questa poi!» sbottarono a denti stretti, i pugni chiusi e tanta rabbia negli occhi.

«Tu che prendi, adesso?» domandò placido l'Aragona al suo compare. E questi: «Io mi mangio un cialdone con la panna».

«Io invece mi prendo un po' di panettone.»

Come se nulla fosse, si misero a mangiare a quattro palmenti senza risparmiare complimenti ai cuochi. Di tanto in tanto si voltavano alle mogli e le compativano perché, calando la sera e restando digiune da metà mattina, dovevano cominciare ad avere fame. Nel corso della cavalcata, dopotutto, avevano fatto una breve sosta per uno spuntino, ma non avevano certo saziato l'appetito.

E, purtroppo per loro, il corpo ha esigenze che nemmeno il dispetto più autentico può arrestare: così, nel bel mezzo di una pausa di silenzio, lo stomaco di una delle due prese a lagnarsi ad alta voce.

«Ohibò, si direbbe che qualcuno qui ci stia invidiando!» esclamò trionfante Alfonso, quasi del tutto sicuro che si trattasse di Ippolita. Lorenzo, naturalmente, pensava fosse Clarice la più affamata, giacché già da qualche minuto aveva notato come a fatica distogliesse lo sguardo dai cialdoni.

«De', Clarì!» la apostrofò alla maniera romana, sollevando tra indice e pollice uno di quei dischi dorati. «Se te lo porto, mi dai tu un bacio?»

«Piantala con i ricatti», fu la secca risposta. E così ripresero a mangiare e, sempre con più frequenza, a bere vino rosso. Per quanto si dimostrassero strenue nel resistere, le nobildonne accusavano l'ingiustizia della loro condizione. Quando il lamento di stomaco si ripeté, se possibile, ancora più forte e netto della prima volta, Lorenzo stava proprio intingendo un cialdone nella panna. Così, con il dolce inzuppato per bene, si staccò per la prima volta dalla tavola, si avvicinò alla moglie e, sventolandoglielo sotto il naso, la canzonò: «Che, ti piace adesso fare rinuncia? Sii sincera, Clariciozza, che ti penti d'avermi scacciato l'altra notte?»

E invece che concederle un morso, il morso se lo prese lui con ostentato compiacimento. Alfonso, svelto a rivendicare anche le proprie ragioni, indirizzò a Ippolita un discorso simile. «Le voglie vostre», disse, «non son poi così aliene dalle nostre; e si potrebbe venir pure a patti, se solo non foste così frigide tutt'e due.»

«Frigide? Questa è buona», commentò Clarice, senza più paura del giudizio di nessuno. «Se mi son sottratta è perché avrei fatto peccato a non sottrarmi. Se l'avessi chiesto oggi di pagare il nostro debito, Lorenzo, sai che ti avrei accontentato volentieri.» (1)

«Sì, forse è vero», convenne lui facendo spallucce. «Ma adesso provi che cosa voglia dire aver di fronte ciò che più brami e non poterlo avere!»

Una risposta adeguata le balenò in testa e, senza pensarci, la disse così come le sue emozioni gliela dettavano. «E che cosa non potrei avere? Il cialdone o mio marito?»

Il respiro di Ippolita si mozzò in un ansito strozzato. Come? La timida e riservata Clarice se ne usciva con un motto tanto piccante, e nemmeno arrossiva un po'? Anche Alfonso, colto alla sprovvista, pendeva sospeso, la bocca socchiusa e il mento lucido di olio fritto per via della frittella che aveva appena mandato giù. Lorenzo, piacevolmente stupito dall'arguzia di lei, sentì rimontare dentro di sé il desiderio dell'altra notte quando, rincasando, l'aveva vista addormentata.

«Bene...» prese tempo, nonostante l'insopprimibile voglia di cavarsi i vestiti, che gli erano diventati stretti all'improvviso. «Dato che fai la spiritosa, t'accontento in una cosa.» E, datele le spalle, se ne tornò alla tavola a prendere un altro cialdone zuppo di bianca panna. Nel frattempo, Alfonso capì che doveva a propria volta quagliare con la moglie, o avrebbe fatto la parte dell'imbranato. «E tu, Ippolita, che mi dici a me, che sono il tuo uomo da quasi vent'anni? Non mi dici niente?»

«Più che dirti che solo a te sono fedele, che cosa dovrei dirti? Sarai ben tu a dovermi dimostrare che ti piaccio ancora, e non lo crederò facilmente», rispose lei, sforzandosi di essere schietta quanto la compagna che le stava accanto. Il duca avvampò: una sfida! Ecco che cosa faceva la Sforza, lo sfidava! «Ti darò la miglior prova che si possa dare, Ippò! Or vieni con me!» e buttato giù un calice colmo di vino, quasi si scordava di slegarla e già si avviava verso una delle due camerette. Lorenzo, intanto, tornava dalla moglie e le si inginocchiava davanti, persuaso che sarebbe riuscito a prolungare la sua agonia almeno di qualche manciata di minuti.

«Tienti il cialdone. De' su, assaggialo, che so che ti garba tanto! O che? Non lo vuo' più?»

Clarice serrava le labbra come se in verità lo odiasse, quel dolce. E voltava il viso da una parte all'altra, gli occhi sempre fissi negli occhi di lui, per intrigarlo. Poi, nell'atto un po' avventato di premerle il cialdone sulla bocca, Lorenzo le sporcò il mento, le guance e anche il naso; appena se ne avvide, ritrasse la mano, ma il danno era fatto. Alfonso rise in modo veramente poco educato, sollevò tra le braccia Ippolita finalmente libera e se ne andò con lei, sparendo dalla circolazione fino al mattino successivo.

Clarice, questa volta davvero imbarazzata dall'incidente, non potendo aiutarsi con le mani, passò istintivamente la punta della lingua sulle labbra, che ricomparvero più rosse che mai. Lorenzo non la perdeva di vista un momento; un brivido lo percorse dalla testa ai piedi, uno struggente desiderio lo riempì di slancio e, fremente, sussurrò: «Mmh, Clarice... Così ti condanni, però! Ché io ora ti mangio!»

Da genuflesso che era si trasse in piedi, chino su di lei, tutto preso a baciarla con quel gusto soffuso di panna a inebriare entrambi. Le pulsioni erano forti, dirompenti come alla Vigilia di Natale, ma senza più freni a frapporsi tra il desiderio e il suo compimento. La corda, che sembrava annodata per l'eternità, si sciolse in un battibaleno; la moglie balzò in piedi impaziente, il marito la brancò nell'inconscia paura che volesse sfuggirgli ancora e, come la sentì viva, reale, fatta di carne e non di vaghe illusioni di sogno, nulla poté più trattenerlo. «Vieni, vieni, Clarice mia! Mmh, cosa non ti farò stasera!»

«Vengo, ma solo se portiamo i cialdoni!» obiettò lei con una vocina eccitata.

«Ah! Furba, la mi donna!»

E fecero proprio così: uno prese il vassoio dei cialdoni, l'altra prese la scodella piena di panna, e insieme sparirono ridendo dietro la terza porticina, che subito si richiuse a custodire le loro follie.



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(1) "pagare il debito" = perifrasi con cui si alludeva alla consumazione di un rapporto sessuale all'interno del matrimonio. Secondo la dottrina della Chiesa, infatti, ciascun coniuge contrae un debito "di carne" nel matrimonio, in quanto dona il proprio corpo in possesso all'altro. In questo senso, "pagare il debito" significa dare al marito o alla moglie ciò che gli/le spetta di diritto. Attenzione! La cosa è reciproca, per cui non è solo l'uomo a poter richiedere il pagamento, ma anche la donna può farlo. Nessuno dei due è obbligato a cedere, si può anche dire di no (questi mal di testa ricorrenti!), ma nessuno dei due ha facoltà di sottrarsi sempre. Difatti, anche in presenza di un voto di castità da parte di uno dei coniugi, l'altro può richiedere comunque la consumazione del matrimonio.


Con questo capitolo si chiude questo racconto lungo che, spero, vi sia piaciuto. Purtroppo diversi eventi brutti a gennaio mi hanno tolto tempo e fantasia per portare a termine la storia, perciò chiedo scusa a tutti voi.

Ora riprenderò la storia principale, a meno che @semperinfelixnon torni a ispirarmi qualche novella un po' licenziosa (lo scopriremo presto...)

Ad maiora, cari lettori!

La vostra Lucille <3

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