Leren e Luce - Storia nostra

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La storia che segue, è nata da un invito di ClassiciIT. Il tema della challenge, la rielaborazione d'una scena degli immortali Promessi Sposi. In realtà, senza riaprire il libro scolastico, ho riavuto in mente l'incontro di Lucia con Don Rodrigo, che scatena l'intera vicenda, e quello tra Renzo e Don Rodrigo morente, che di fatto la conclude.

Se i due giovani non fossero stati semplici umani... se la potenza del signorotto non fosse derivata dalla ricchezza, ma da poteri magici...

Io sono Luce, e sono un'elfa dei boschi. Poiché esistono molte razze di elfi e molte credenze inesatte su di noi, credo necessario che vi precisi quale sia il mio aspetto e la vita che conduco.

Sono nata in un piccolo villaggio, costruito tra i giganti verdi d'un bosco che dalle rive d'un gran lago s'arrampica fitto su una parete montuosa. Un'imponente catena rocciosa orla l'orizzonte dei miei luoghi a Nord e a Ovest, scivolando poi il terreno più dolcemente in colline e pianure a Est e a Sud.

L'aspetto della mia gente è vicino a quello delle creature che chiamate umane, ma la nostra corporatura slanciata e l'agilità con cui ci muoviamo nei boschi inganna sulla forza con cui sappiamo lavorare materiali di ogni tipo, rendendo i nostri manufatti di una eleganza mirabile e apparentemente magica.

In realtà alcuni di noi, in epoche ormai così remote da confondersi col l'inizio della vita stessa su questo mondo, avevano veramente capacità prodigiose che oggi chiamiamo magia, ma esse si sono lentamente affievolite e molti elfi non ne presentano ormai più traccia.

I pochi maghi attuali tra noi si distinguono quindi per ascendente e potenza, benchè l'eredità magica spesso non si sia accompagnata affatto alle migliori qualità del mondo elfico.

Il potere cioè ha capricciosamente scelto non i più generosi, né i più intelligenti e responsabili. In definitiva pur essendo la nostra una razza rispettosa di molte leggi, con un'etica e un senso profondissimo dell'onore, alcuni tra noi sfigurano la nostra civiltà e usano il proprio potere con arroganza, impunemente.

Questo è quanto oggi io vado a denunciare, avendo in prima persona subito una pesantissima ingiustizia e un tentativo di violenza che grida vendetta fino al cielo dei draghi.

Nel trascorso inverno un giovane elfo del villaggio aveva preso a raccogliere nel bosco le erbe che gli occorrevano, sempre nel tempo che io stessa dedicavo alla raccolta. Insieme, in modo apparentemente casuale, avevamo cominciato ad ascoltare le canzoni degli alberi suonate dal vento notturno e avevamo stretto amicizia col bosco chiedendogli parte della sua vegetazione.

Entrambi siamo tessitori, e con entrambi la vegetazione generosa aveva dialogato piacevolmente, stabilendo con noi e tra noi un legame complice e rispettoso.

Leren, l'elfo gentile di cui parlo, è un senza famiglia, avendo perso i suoi in quel tempo di grave conflitto che tolse anche a me il padre.

Per questo, pur ancora giovane, egli già desiderava vivamente una compagna e una discendenza; nuova stirpe, perché gli elfi non si estinguano.

E io, ammetto, avevo provato una dolce sensazione di calore, quando avevo colto su di me il suo sguardo, carezzevole ma deciso.

Non mi manca la coscienza d'avere i capelli più sottili, argentei e lunghi che il villaggio possa vantare, né gli occhi più grandi e verdi che si vedano lungo le sponde del lago.

So di avere in massimo grado la bellezza eterea che caratterizza la nostra specie, ma fin qui essa non era stata per me cosa di alcun valore, non avendone alcun merito e non intendendo trarne alcun vantaggio, non avendo desiderato mai altro che quella serena tranquillità che la vita mi aveva già donato.

Ma da quando Leren si era avvicinato... gioivo d'essere bella, perché lui mi guardava incantato più che se avessi poteri ammaliatori, e avevo preso a desiderare d'averlo accanto e di riempire la sua casa fra i rami che abitava in solitudine.

Leren mi avevo donato molto presto una tiara di oro lieve come un ramo di salice intrecciato, perché l'indossassi per lui, e mi aveva chiesto di accompagnarlo dal ministro del Tempio del lago, affinché accogliesse e rilanciasse la nostra preghiera al Principio, che benedicesse la nostra unione e le assicurasse fecondità; ma io avevo temporeggiato, non volendo abbreviare quel periodo dolcissimo dell'attesa.

Ogni stagione va gustata nella sua pienezza, nè il tepore della primavera dev'essere sprecato nel desiderio dell'ardente sole estivo.

Finchè... finchè qualcosa mi aveva risolto a indossare la tiara senza svelare a Leren il motivo per cui aspettare non mi era parsa più la decisione migliore.

Il Signore del bosco della Morena, un elfo magico molto potente dalla pessima reputazione, mi aveva un giorno incontrata mentre rientravo al villaggio con le mie erbe, e mi aveva rivolto dei complimenti alquanto pesanti cui avevo reagito con ostentata indifferenza, provocando l'ilarità dell'amico con cui quello percorreva le sue terre.

Il giorno successivo ancora li avevo incrociati, e mi ero eclissata in fretta come un cervo che annusi cacciatore e cani sottovento, non prima di cogliere nuovamente il sarcasmo del compagno a cui il signore del bosco aveva risposto con un: "Vedremo". E avevo avuto la percezione d'essere stata oggetto di una scommessa.

Leren è un elfo gentile, ma il suo sangue è giovane e caldo, e niente affatto vigliacco. Temetti la reazione che avrebbe potuto avere nell'immaginarmi oggetto di una attenzione così volgare, e come posta d'una scommessa.

Allora, gli dissi che avrei indossato la sua tiara davanti al ministro del Tempio.

Pensai che non essere più una vergine senza legami avrebbe fatto cadere l'interesse del potente signore, stuzzicato forse proprio da quella mia qualità, di creatura che non aveva ancora nella propria carne il sigillo di alcuno.

Fui ingenua. Forse sapere che non ero più un'elfa lunare, cioé sapere che, ormai sposa, non ero più consacrata alla dea della purezza e dell'innocenza, avrebbe veramente cancellato l'interesse dell'elfo della Morena, se fosse stato solo.

Purtroppo egli era in compagnia, aveva avuto un testimone del suo desiderio, un compagno che con lui aveva scommesso e che dunque avrebbe potuto dire di lui, che non aveva potuto ottenere una cosa che voleva.

Purtroppo io incarnavo così più di uno capriccio, diventavo una questione d'orgoglio, di principio. E il nostro cielo diventò plumbeo.

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Ma ogni nostro piccolo cielo, è sempre avvolto dall'invisibile cielo del mondo, ben più vasto. E quell'altro cielo, cui i nostri sguardi non arrivavano, era molte, mille volte ancor più scuro e in tempesta!

Un terribile male guastava la natura, come mai era accaduto e avanzava, noi ignari, anche verso i boschi degli elfi. Un male che pareva una maledizione, che affliggeva gli alberi e gli animali e infine colpiva le creature che mai avevano conosciuto la malattia.

Gli elfi scoprirono infelici che il lento affievolirsi dei loro poteri li scalzava ormai dal ruolo privilegiato di creature intangibili. Cominciarono ad ammalarsi, e a MORIRE.

La morte era sconvolgente, per la nostra gente. Quella naturale arrivava in una vecchiaia remotissima, e sola avevamo dovuto temere quella che gli uni gli altri potevamo procurarci.

Gli elfi soli, fino a quel momento, potevano uccidere altri elfi, supremo orrore ma possibile. Per questo io e Leren eravamo fuggiti davanti all'elfo della Morena. Ma improvvisamente, il Principio diede alla natura il potere di rivoltarsi contro di noi, e conoscemmo la malattia.

Le eleganti, armoniose corporature degli elfi rattrappirono, artigliate da un male che risparmiava solo uno su dieci, anche venti di noi. La tinta lunare della pelle ingrigì coprendosi di ulcerazioni, ogni bellezza si mutò in orrore, ogni forza in debolezza. La maledizione dilagò ovunque, rapida, e il terrore non risparmiò nessun angolo di foresta.

Io e Leren, che ci eravamo separati, fummo travolti dal dolore di non poter neppure sapere, ciascuno, che sorte avesse  avuto l'altro.

Infine, lui ritrovò le mie tracce. Portavano ad un campo affollato dove gli elfi malati si erano concentrati per assistersi gli uni gli altri, sino alla morte. Lì mi cercò, lui che era tra quelli che si erano ammalati ed erano sopravvissuti.

Era l'uno sui venti graziato.

Nel campo, cercandomi, ancora ignaro se fossi viva o no, trovò qualcun altro. Il ministro del Tempio, che continuava instancabile ad implorare il Principio che la piaga s'inaridisse, infine, prima di cancellare la nostra intera stirpe. A lui Leren chiese notizie di me, e quello non ne aveva; nel campo affluivano disperati da ogni parte, spesso solo per ricevere un ultimo gesto di pietà e non rimanere insepolti nel bosco.

Neppure di morire l'uno accanto all'altra, avevamo potuto avere la grazia, e Leren proclamò il suo dolore e il suo odio per chi ci aveva tolto tanto. A sentirlo però il ministro si adirò.

Era stato un elfo magnifico, il ministro del Tempio, autorevole e giusto, e ci aveva protetti facendoci fuggire perché il signore della Morena non ci soggiogasse con la sua magia. Ora la malattia minava il suo fisico armonioso e gli sforzi per assistere gli altri lo piegavano e accorciavano il suo tempo, visibilmente.

Ma a sentire in Leren sentimenti di odio si raddrizzò e tornò per qualche istante vivido e carismatico come era stato: per quella durezza, argomentò, per quella incapacità di vivere come fratelli gli elfi decadevano e il Principio non trovava più tra loro ciò che desiderava!

"Vorresti che ti fosse stata concessa una cosa così grande, come ritrovare Luce viva", tuonò:" ma come pensi che il Principio potrebbe ascoltare la tua voce, distinguendola tra le altre, se come gli altri hai nel cuore solo risentimento e desiderio di vendetta? Come ogni altro senti, come ogni altro riceverai".

Leren si guardò allora intorno, e il dolore e il lutto che respirò gli aprirono gli occhi. Cambiò tono, pentito di quel che aveva desiderato: ritrovare l'elfo della Morena vivo, solo per poterlo ripagare della sua prepotente violenza.

Fosse stato vivo, fosse stato uno dei sopravvissuti... erano rimasti così in pochi! L'avesse trovato vivo,  avrebbero dovuto piuttosto stringersi insieme,  e combattere per sostenere quel che restava del nostro popolo.

"Mi spiace, in questo mondo in rovina servirebbero elfi migliori di me", riconobbe più calmo  Leren:" ma se lo rincontrassi, non so se riuscirei a dimenticare".

"Non dimenticare dovresti,  infatti", gli replicò il ministro,"ma perdonare e pregare che si salvi". E vedendone la mortificazione lo portò al giaciglio di quello che era stato il Signore della Morena. Di lui sì, infatti, sapeva che era al campo.

Tale vide la rovina del suo nemico, ormai privo di coscienza e agonizzante, che Leren sentì svuotarsi il cuore dell'odio, e riempirsi di pietà.

Non so se questo decise la nostra sorte. Credo di sì. L'elfo che Leren era stato, che l'amarezza aveva sconvolto, tornò.

Chinò il capo davanti a tanta desolazione e pregò per ogni creatura dolente dell'universo, lasciando nelle mani di chi conosce ogni verità, di dirigere la sua via.

E i suoi passi furono guidati fino a me.

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Gli Elfi non dominano più le foreste della Grande Madre, ma ancora la nostra stirpe vive, tornata in armonia col Principio. Ancora tra il verde di casa vediamo occhieggiare le acque tranquille del lago della nostra infanzia, e gli alberi ora sussurrano ai nostri figli, miei e di Leren, i tessitori, confidando loro che la vita è sempre e soltanto amore.

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