.44. Dammi del tu.

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Barcellona,
19 Marzo 1809.

<<Cosa vi ha fatto...>> mormorai incredula e scioccata toccando la catena che collegava il collare alla parete. <<È tutta colpa mia...>>

Alzò gli occhi pieni di lacrime su di me e assunse un'espressione affranta. <<No, non è colpa tua.>> disse tirando con il naso. <<Ho sempre saputo che fosse un mostro. E non vedo mia madre ormai da mesi. Ho paura che le abbia fatto qualcosa di ancora più grave...>>

Pianse tanto, ed io insieme a lei.

Dopo qualche minuto, mi alzai e spostai la candela intorno a me e ne notai un'altra sulla parete; la accesi e la luce ne illuminò un'altra a qualche metro, poi un'altra e un'altra ancora. Ora il perimetro era più illuminato e potevo vedere meglio in che condizioni viveva Sara da ormai mesi: una ciotola conteneva acqua sporca, un'altra e poco distante le sue urine. Un po' più in la le sue feci. Un mezzo tozzo di pane duro buttato contro la parete, come se le fosse stato gettato addosso e non offerto per pietà. Sara mi raccontò che lui le faceva visita ogni due giorni per controllare che fosse ancora viva e per darle da mangiare e cambiare le ciotole dei suoi escrementi; una volta a settimana la slegava per lasciarla camminare fino ad un piccolo bagno sporco e logoro dove la bagnava completamente per sciacquare via lo sporco dal corpo. I vestiti, invece, erano gli stessi da quando era lì.

Durante il suo racconto mi sforzai di non piangere ancora e non vomitare; dovevo essere lucida e in forze per trovare un modo per aiutare tutti ad uscire da quell'inferno.

<<Juan...>> balbettai all'improvviso. <<Vi prego, ditemi che è ancora vivo.>>

Lei annuì, però non mi guardò negli occhi. <<Mio padre gli ha curato la ferita e ci ha rinchiusi entrambi qui. Siamo stati vicini, seppur al buio, per tutto questo tempo. Poi qualche giorno fa lo ha preso e portato in fondo alla cantina, in un posto in cui non sono mai stata.>>

La speranza crebbe forte dentro di me e trovai le forze per abbandonare la paura e prendere in mano le redini della situazione.

Tornai da Jonathan; era diventato molto silenzioso ed ero parecchio preoccupata.

<<Signore, per favore, si svegli.>> gli dissi una volta raggiunto e toccato la fronte: scottava da morire e aveva gli occhi chiusi.

<<Sono sveglio, Geneviève. Il dolore non mi permette di tenere gli occhi aperti.>> rispose soffocando un gemito. <<Hai trovato Juan?>>

<<No.>> confessai. <<Però è qui. C'è anche Sara, sua figlia, imprigionata e legata come un cane.>>

Lo vidi mordersi le labbra sporche di sangue. <<Quel bastardo. Una volta usciti di qui non vedrà mai più la luce del sole. Te lo posso giurare.>> tossì e ancora sangue uscì dalla bocca e dal naso.

<<Vi prego di non parlare. Vi prometto che troverò un modo per uscire vivi da qui.>>

Il capo aprì gli occhi e cercò i miei: li trovò subito e, per qualche secondo, sembrò dimenticarsi di tutto quel dolore. <<Ti prego, dammi del tu.>>

Mi sorpresi, ma diedi la colpa alla febbre per quella richiesta. A prescindere dalla situazione in cui stavamo, una ragazza della mia età non poteva nemmeno sognare di dare del tu ad un uomo più grande.

<<Geneviève.>> sussurrò cercando la mia mano. La prese e la tenne stretta nella sua. Io non riuscivo a capire il motivo di quel gesto intimo. <<Se usciremo vivi di qui, ti prometto che ti dirò la verità.>>

<<Riguardo cosa, signore?>>

<<È ora che tu conosca la verità su chi sei davvero, e del motivo per cui ti sembra che ti tratti in maniera diversa sin da quando ci siamo incontrati la prima volta.>>

Le sue parole mi abbandonarono in un leggero torpore. Avrei voluto chiedergli di dirmi tutto in quel momento, ma non ce la facevo. Avevo paura di sapere, e in quel momento le sue rivelazioni mi avrebbero distratta.

Dovevo trovare Juan, liberare Sara e soccorrere Jonathan.

E non avevo idea di come fare.

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