Tè e sotterfugi

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NOTA DELLE AUTRICI

Bentornate in questa nostra collaborazione. Siamo io e  TheEerieEden a darvi il lieto annuncio riguardante la continuazione di questa semplice storiella. Purtroppo, abbiamo avuto qualche disguido e dopo l'eliminazione del vecchio profilo – AnitaDoyle1995 – abbiamo dovuto ricominciare tutto dall'inizio. Tuttavia, non ci fermiamo e siamo più che determinate a far vivere questa avventura, anche grazie al vostro impagabile supporto. Oggi ha inizio il secondo capitolo, dopo una rapida pubblicazione di quello precedente. Speriamo possa allietarvi, con tutto il cuore.

Buona lettura...

La camminata, veloce ma altrettanto rilassante, donò a Sherlock Holmes la possibilità di inalare un'aria che fosse quantomeno buona. Presso il Bartholomew's Hospital, difatti, non esisteva il marciume che invece, intasava i vicoli di tanti altri quartieri che costituivano la capitale. Tuttavia, all'interno dell'edificio, l'odore acre – a dir poco stomachevole – della malattia scivolò lungo le mura, sino a tormentare il naso dei nuovi visitatori, le cui narici furono offese dal fetore.

John Watson, così come il fido collega, era abituato a qualsivoglia puzzo, tanto ne aveva odorato durante la guerra. La carne decomposta, la sporcizia e il tanfo di morte, purtroppo, furono un tassello essenziale della sua carriera da medico militare. Per quel che, invece, riguardava l'investigatore, molto poco vi era da aggiungere. Mr. Holmes accettava qualsiasi profumo, purché da esso riuscisse a scovare un indizio con il quale titillare la mente, abituata a macabri scenari e decadimento.

Entrambi si trovavano nell'obitorio della strutture, un groviglio di corridoi al di sotto del suolo umido. Proprio lì, al di sotto delle lampade a olio, il cadavere di una donna era stato rinvenuto da poco tempo, regalando all'investigatore più noto di tutta Londra, un nuovo caso da sbrogliare per mezzo della testa. Gli indizi, difatti, si erano oramai impressi sulla pelle cerea, sotto forma di violenti segni, tatuati da due forti mani sul collo. Qualcuno aveva strangolato la vittima.

John, completamente inghiottito dal silenzio del coinquilino, nel frattempo non riuscì a non rivolgere il flusso di pensieri verso ben altre direzioni. Il macabro profumo della decomposizione – esacerbato dalla calda stagione – non gli impedì di coinvolgere nelle sue riflessioni la giovane Gwendolyn, che ancora attendeva un verdetto sul piano di fuga.

La decisione sembrava astrusa, ricca di risentimento, e il medico non riuscì a dividere la voglia di soccorrere la fanciulla, da quella di rimanere del tutto fedele al caro amico Holmes. I due doveri, sembrarono scontrarsi, corrodersi l'un l'altro, senza mai cedere al riposo.

«Strangolamento, da parte di un familiare»

La voce dell'investigatore rimbombò tra le scure mura di pietra, mozzando ogni congettura del medico, non più intrappolato dalle tante possibili conclusioni riguardanti ogni problematica incontrata. John, solo dopo tale interruzione, riuscì per la prima volta a codificare il volto della vittima, che un po' pareva rimarcare quello amatissimo della sorella Harriet, residente nella propria cittadina natale, nell'Hampshire.

«Sì, avete colto nel segno» recitò l'ex soldato, titubante.

«Non ho in alcun modo specificato le mie deduzioni, Watson» osservò Holmes, notando appena l'espressione del collega. «Eppure, nonostante l'assenza di chiarificazioni, mi avete proceduto in sciocche congratulazioni. La vostra voce è tremante, molto meno sicura rispetto ai vostri comuni standard. Qualcosa sembra arrecarvi turbamento.»

Colto in flagrante, John mise a tacere ogni sillaba e alternò respiro profondi, atti a narcotizzare quel senso d'ingiustizia che gli avvelenava le viscere. Il detective aveva immediatamente colto quel suo malumore e, non aveva nemmeno indugiato nel dare prova delle propria capacità.

«Confido si tratti di un disguido facilmente risolvibile. Ho bisogno di voi e della vostra prontezza. Questo caso è relativamente semplice, ma dovete tenere la vostra mente concentrata. Non desidero dover perdere del tempo prezioso a causa di emozioni incontrollate e un collaboratore poco dedito all'aiuto nei confronti del proprio collega», Sherlock espose la maggiore preoccupazione e, nuovamente, degnò di una seconda occhiata la fredda salma della vittima, pietrificata dal rigor mortis.

Il medico trattenne un fiotto di bile dentro l'esofago. Mr. Holmes, purtroppo, sapeva come essere burbero e alquanto antipatico, il più delle volte. Rivolgeva insensibilità alla moltitudine di conoscenti e solo Iddio sapeva cosa avrebbe riservato all'innocente bambina che aveva voluto in sposa, senza alcun bisogno d'amore, o di mera compagnia.

«Sono solo un po' stanco, Holmes. Londra non conosceva un stagione così calda da molto tempo. La calura invalida gli animi, e ci rende molto più deboli. Mi auguro solo che il vostro giorno nuziale non incontri temperature così sgradevoli. Non lo sopporterei affatto.»

Il consulente ignorò qualsiasi riferimento al matrimonio.

«Come sta, se posso, Miss Gwendolyn? Dovreste avere sue notizie?»

John finse di non anteporre il proprio interesse per le docile fanciulla al dovere investigativo. Cercò, in ogni modo, di tastare il terreno, riuscire a individuare una qualche benevolenze da parte del coinquilino nei confronti della povera disgraziata, ingabbiata in una scelta altrui. Holmes, di tutta risposta, si dedicò a delle parole poco sentimentali.

«Non è un dovere del promesso sposo il mantenimento della condizioni di salute della fidanzata. Miss Blomst risiede ancora sotto il tetto del padre. È lui a dovere provvedere alla figlia, sino al giorno dell'unione coniugale. Per di più, non ho avuto modo di contattarla, né il desiderio. La caldo rende le bestie violente e Londra sembra voler proliferare di nuovi misfatti. Non ho alcun tempo per le sciocchezze, non quando Scotland Yard si trova impantanata in così tanti enigmi da risolvere.»

John sentì il dolore dovuto all'insensibilità dell'uomo che aveva accanto. Il desiderio di protezione nei confronti della bella fanciulla dai capelli d'oro, divenne mastodontico, un desiderio irrefrenabile, legato a un qualche battito incontrollato.

«Talvolta parlate della futura Mrs. Holmes come di un nonnulla» evidenziò, senza alcun remore. Da diversi anni criticava Holmes circa i compartimenti più meschini intrapresa, grazie a una confidenza saturata dallo scorrere imperturbabile del tempo e dalle tante avvenute vissute. «Spero fortemente che le cose cambino, dopo il vostro giuramento dinnanzi a Dio».

Sherlock, abbandonando il caso per un solo istante, premette le iridi cerulee sul baffuto compagno. Dopodiché marchiò con un leggero ghigno il viso spigoloso, che si fece maggiormente severo e rese molta giustizia alle tante parole che fuoriuscirono dalla labbra polpute.

«Vi lasciate troppo guidare dalle emozioni, Watson» dichiarò, senza mai staccare lo sguardo dal diretto interessato, alquanto scoraggiato. «Miss Blomst non ha migliore alternativa al nubilato. Non esiste un uomo onesto, in tutta l'Inghilterra, desideroso di averla in sposa».

«E se invece non fosse così? Se invece lei desiderasse un altro spasimante?» chiese, con il cuore tra le mani e l'indecisione nella testa, ronzante di alternative, idee riguardanti, riguardanti una nuovo matrimonio e le tante gradevoli sorprese a esso legate.

«Se così fosse, e non lo è, vi offrirei una ricompensa nello scovarlo. Chi vorrebbe un donna irriverente e con abilità mentali al limite dell'occulto?» ironizzò l'altro, sardonicamente.

«Nessuno.»

«Esattamente.»

Uno strato di polvere grigiastro ricopriva interamente superfici di mensole e scaffali, ricolmi di pezzi d'oggettistica di vario genere. Gingilli, statuette, ritratti di austeri personaggi d'altre epoche, persino un teschio umano dall'inquietante sorriso sempre fisso, occupavano gli spazi del salotto, quasi come per un costante e maniacale bisogno di non lasciare fastidiosi vuoti scoperti. Un coltello a serramanico se ne rimaneva in posizione verticale poiché ben ancorato con la punta affilata alla mensola del camino, e trafiggeva un plico di fogli sovrapposti, corrispondenze o telegrammi, o più semplicemente le "questioni in sospeso" del detective Sherlock Holmes.

"La polvere sa essere particolarmente eloquente", la giovane Annie ancora rimuginava sopra tale supposizione e al divieto impostale dallo stesso Mr. Holmes secondo cui nessuna mano munita di spolverino avrebbe dovuto azzardarsi a spazzare via polvere e sporco dal caotico appartamento. Ogni cosa lì presente non avrebbe dovuto subire alcun spostamento, neppure il più lieve, ed Annie non mancò certamente di tener fede a quell'obbligo.

«Un'incombenza in meno» rifletté rincuorata, vagando lentamente per la casa solo per pura e semplice curiosità. Entrambi i padroni di casa quella mattina erano fuori perché chiamati a rispondere circa un cadavere rinvenuto solo poche ore prima dentro un vicolo dell'Est end, una parte ben poco raccomandabile di Londra. Così la domestica si era ritrovata a origliare mentre un preoccupato ispettore di Scotland Yard enunciava in tutta fretta l'enigmatica scoperta.

Volumi di libri, per lo più riguardanti argomenti di natura scientifica, ingombravano un'intera parete. Libri polverosi riguardanti la chimica, l'anatomia – la botanica persino – attirarono l'attenzione della donna, le cui iridi custodi di un'accesa bramosia catturarono quei titoli dai complessi ghirigori, rilegati in pelle o semplicemente scritti con inchiostro nero su dorsi di grandi raccoglitori strabordanti di fogli.

"Crimini, 1800-1830" lesse Annie, protesa sulle punte degli stivaletti consunti, per poi proseguire e spulciarne subito i documenti vicini, "Crimini, 1831-1860", "Crimini, 1861-1894".

Si trattava di veri e propri annales di crimini commessi durante l'intero arco del secolo, catalogati, studiati e presi in analisi dallo scrupoloso detective. Annie non poté fare a meno di chiedersi, smarrita, poiché tanto male albergasse nel mondo, e se fosse vero che un Dio buono e caritatevole convivesse tra gli esseri umani – suoi figli. Quel essere divino, a causa di cosa, permetteva il prolifero di tante disgrazie, e tra queste la morte dei suoi stessi genitori?

Subito però, tentò di scacciar via dai suoi pensieri quell'immagine funerea, che da mesi, oramai, obbligava la sua anima a piegarsi in due dal dolore, una sofferenza all'occasione attenuata da una vistosa eccezione, Sherlock William Scott Holmes.

L'uomo era una distrazione ben accolta dalla giovane orfanella, la quale ancora rammentava l'inaspettato atto di gentilezza dell'uomo quando solo una sera addietro aveva preso le sue difese – di lei, una semplice ragazza di campagna –, sebbene fosse chiaro ai molti, lì presenti, là già radicata antipatia nei confronti di Mr. Anderson. In aggiunta, neppure il dolce ricordo di un tocco premuroso – protrattosi seppur solo per breve tempo – delle mani dell'ancora contraddittorio e aitante investigatore, non accennava a scomparire dalla pelle della donna. Una sorta di invisibile marchio infuocato, difatti, era stato impresso sulla donna, dal momento che il giovane Holmes aveva reso concreto il tenero atto di voler liberare la sua candida pelle dall'acqua riversata in un lavello poco pulito. E nonostante il tessuto di un ruvido canovaccio si fosse intromesso tra il diretto contatto delle loro dita, poco importava. Per la giovane fanciulla, sognatrice di mondi e amori più puri, tanto era bastato a riaccendere nuove scintille di speranze.

Barcollando leggermente all'indietro poiché perduto l'equilibrio a causa di un portasigari incappato tra le sue suole, Annie raggirò una delle due poltrone, che si fronteggiavano l'un l'altra, per poi trasferirsi in un secondo ambiente del bislacco appartamento, una stanza di dimensioni più ridotte, dentro cui strumenti dall'apparenza delicata e tante altre cianfrusaglie erano sparse su di un tavolo da lavoro. Il tutto per niente era dissimile da una qualunque aula scolastica adibita all'insegnamento di materie scientifiche.

Un piccolo mappamondo sostenuto da una base a tre piedi finemente lavorata, fece sì che le dita di Annie – attratte come il ferro da un pezzo di magnetite – corressero a sfiorarne la curva superficie, e che con lentezza ne facessero ruotare la sfera allo stesso ritmo delle sue pupille, inchiodate a quell'oggetto quasi in un incanto fanciullesco. Territori a lei del tutto sconosciuti e dai nomi quasi impronunciabili giunsero a palesarsi ai suoi occhi curiosi, ma soltanto uno ad attirarla nel vortice della malinconia.

Nessun altro luogo dalle meraviglie orientali – che fosse ricoperto da ghiaccio perenne che venisse riscaldato da raggi di sole cocente – avrebbe sperato di competere con l'unico posto che la giovane orfana amava considerare casa: l'Italia, patria indiscussa della sua nascita.

Così, alternando labirinti di ricordi a sogni a occhi aperti, la donna rinvenne dalle sue fantasie, ma troppo tardi da riuscire a impedire alla gola di emettere uno strillo di elementare sgomento.

Dita umane mozzate e galleggianti all'interno di una sostanza giallognola suscitarono il raccapriccio di Annie, la quale oscillò pericolosamente all'indietro, distanziandosi dal ripiano, ingombro di tali stranezze.

Un medesimo squittio spaventato venne fuori dalle labbra dischiuse, nel momento in cui il tocco delicato – e allo stesso tempo portatore di inquietudine – premette sulla schiena della fanciulla.

«Miss Bernardi.»

Trasalì la domestica davanti al tono autoritario del secondo padrone di casa, il caro collega di Mr. Holmes.

«S-signore», balbettò, rivolgendosi a John Watson in un timido inchino e combattendo contro l'affanno che le avvinghiava i polmoni. La vista dei pollici conservati in quel contenitore di vetro, assieme allo spavento causato dalla repentina apparizione del medico, comparso così silenziosamente alle sue spalle, non aiutò il cuoricino di Annie a calmare il proprio battito accelerato.

«Vi stavo cercando», enunciò dunque l'uomo indiscutibilmente serio, con entrambe le mani nascoste dietro la schiena.

Per un attimo, Annie si chiese se ciò fosse dovuto al piccolo intoppo riscontrato durante la consueta attività di lucidatura degli stivali dello stesso. Probabilmente il padrone aveva deciso di rendere Annie consapevole di un deplorevole errore e, chissà, addebitarne i danni – seppur esigui –, sopra il ben misero guadagno della sbadata fanciulla.

Ben lontano dal dispensare rimproveri, tuttavia, il dottor Watson tentennava ora di fronte alla domestica, più di quanto avesse previsto in seguito alla propria decisione, che solo poc'anzi aveva ritenuto ostinata e invalicabile. La liscia superficie cartacea della lettera risultò tutt'a un tratto umidiccia sotto il contatto dei polpastrelli. L'indecisione premeva costante come una roccia pesante e disposta a rammentare quel suo peccare di indecenza e ingratitudine nei confronti di un amico che tante, troppe volte, gli aveva salvato la vita.

Holmes l'aveva, primo fra tutti, sottratto alla solitudine, sua peggior nemica. Gli aveva fatto dimenticare la mancanza di sanguinosi campi di battaglia, accogliendolo a mo' di relitto, aiutandolo a sopravvivere, nonostante l'inesistenza di una famiglia, né di una casa.

«Signore, desiderate?», il quesito della nuova tuttofare riportò a galla John Watson che, nonostante tutto, avrebbe continuato a desiderare quel certo brio vitale piuttosto che una vita senza stimolo alcuno. Tuttavia non insicuro sul tradire un amico per la salvezza di un altro essere umano bisognoso di aiuto.

"Sì", si disse, osservando il volto fresco e florido della piccola domestica dai capelli rossi. La donna che invadeva i suoi pensieri avrebbe potuto avere la stessa età della ragazza. Entrambe, dopotutto, erano simili in fatto di statura, seppur differenti in fisionomie e colori.

Fu proprio nella contemplazione di quel viso dai rosei e genuini lineamenti, che John compì la sua scelta, prima che inutili ripensamenti giungessero a bloccarne ogni azione. L'oggetto, portatore di tanto subbuglio interiore, fu portato sotto gli occhi della giovane donna, come una spada sguainata da un combattente.

In effetti, a onor del vero, John Hamish Watson una seconda guerra era in procinto di intraprendere, una battaglia dentro cui sentimenti contrastanti ne mutavano continuamente l'esito finale. In un primo fronte, il medico si era lasciato vincere, sopraffatto dal sentimento d'amore che lo spingeva tra le braccia della bella Gwendolyn, in un secondo, la guerra contro il suo migliore amico, a colpi di tradimento increscioso, era ancora ben lungi dall'essere risolta.

«Dovete farmi la cortesia di rendermi un servigio» ordinò senza perdersi in quisquilie il dottore, con nella voce un'insolita emozione di caparbietà. «È essenziale che vi rechiate presso la dimora del dottor Blomst» proseguì, avanzando di un passo. La lettera stretta in una mano venne elargita così all'attenzione della giovane, ma un percepibile tentennamento da parte dell'uomo lasciava intendere al contempo di non volersene ancora liberare.

Proprio perciò, Annie attese una più ristretta vicinanza dell'uomo, nel momento in cui quello s'adoperò una volta per tutte di riporre, sebbene con lentezza e tanta inspiegabile cura, la lettera tra le mani dell'orfana.

Il sempre tranquillo e composto padrone di casa tradì il classico autocontrollo da soldato, mostrando invece un atipico atteggiamento di impazienza e ansietà. Nell'ambiente cupo e illuminato, se non da un paio di lampade a olio, i suoi occhi parvero armarsi di un breve ma intenso scintillio, nell'attimo in cui la distanza tra sé e la domestica andò più a restringersi.

«Ho provveduto personalmente a chiamare una carrozza» informò il baffuto medico facendo in modo di abbassare la voce fino a ridurla gradualmente. Annie, intanto silenziosa e ubbidiente, dovette prestare particolare attenzione al labiale, ma non mancò di comprendere il consecutivo bisbiglio frettoloso dell'uomo. «La missiva dovrà sopraggiungere nelle mani di Miss Blomst, siate voi stessa a fare in modo che accada».

Annie si ritrovò, suo malgrado, ad annuire, con il fine di rassicurare il padrone e a prendere parte a tale commissione, all'apparenza semplice e ordinaria, ma che anche conservava un arcana faccenda.

Sconcertata e con la mente inabissata in possibili congetture, la donna ruppe quel contatto visivo tanto intenso, avendo oramai chiarito, negli occhi plumbei dell'uomo, un certo significato nascosto, fatto di parole taciute e pensieri inesprimibili – se non solo a egli stesso e, forse, alla diretta destinataria della lettera.

Prima che potesse accomiatarsi, un ultimo suono sgorgò dalla bocca di John Watson, ma anche allora, gli occhi del medico si espressero meglio di mille parole.

«Siate discreta, mi affido a voi.»

Quella divenne una supplica grave, che trasformò le palpebre strette dell'ex soldato in una linea, testimoniando uno sforzo sovrumano, uno scrigno di segreti e verità inconfutabili, percepibili solo da chi sapeva spingere la mente anche oltre la bugia di una realtà soffocata nell'obbedienza al rigore.

L'orfanella dai capelli rossi sorrise, esprimendo sincera gratitudine per quel gesto di fiducia che, una volta dimostrato dal padrone, ne impreziosiva la nuova missione con un valore maggiore.

«Contate su di me» asserì Annie in tutta convinzione, alleggerendo piacevolmente il petto del medico da un fardello in meno.

La carrozza, appostata davanti al 221 B, rinchiuse in breve l'aspirante istitutrice in una stretta campana di vetro, dentro cui rumori e suoni, derivanti dall'esterno, chiassoso venivano eclissati dalla grande quantità di pensieri parlottanti dettati dalla propria coscienza.L'abitacolo della vettura si riempì così del trambusto interiore della donna, le quali domande trovavano risposte dentro un cuore palpitante di emozioni, non dissimili da quelle già ben scorte nei tremori malcelati di John Watson.

Scenari di un amore contrastato, desideri anelati e la scelta necessaria di una donna contesa, si incastonavano in un sublime accordo con la mente, sempre protesa al dolce immaginar dell'orfanella.La missione che il medico le aveva affidato con tanto ardore negli occhi, soleva permettere ad Annie il rendersi partecipe di un possibile intrigo amoroso che, solo grazie alla sua complicità, avrebbe potuto avere buon fine. Di conseguenza, una notevole abilità nel riuscire a celare il reale sotterfugio costituiva il dover crucciarsi per agire sotto vie traverse.

Un pretesto era necessario affinché la domestica avesse modo di raggiungere le stanze di Miss Blomst, senza che nessuno nella casa si accorgesse della misteriosa lettera. Nel tentativo di lambiccarsi la testa, si ritrovò a osservare una piccola venditrice di strada dai capelli stopposi nascosti da un fazzoletto color cenere.Ella, in un angolo appartato del vicolo vicino, vendeva la sua merce, mentre se ne stata tutta sola in attesa di possibili clienti. Finalmente, venne la soluzione al cervellotico dilemma dipanarsi tutt'a un tratto davanti agli occhi della tuttofare.

«Fermate la carrozza!» urlò scattante Annie tirandosi su nell'abitacolo e battendo più volte il palmo della mano contro il tettuccio della vettura. Con un lieve scossone, i cavalli ne fermarono il trotto, venendo poi subito seguiti dal vocione del cocchiere che, a suon di lamenti, chiedeva il motivo di tale interruzione.

«Aspettate qui, vi prego. Ci metterò pochi secondi» raccomandò la giovane domestica, prima di precipitarsi all'esterno della via, rigonfia come sempre di gente che faceva avanti e indietro in un flusso implacabile.

La bimbetta, poco più che undicenne, osservò attentamente la ragazza dalla veste scura e dalla rossa testa, che s'avvicinava di gran fretta verso la sua direzione. Ancorato ad un braccio della ragazzina, una cesta con all'interno quattro diversi mazzettini di fiori, lì a costituire i pezzi della merce da vendere. Il visino scarno ma roseo della piccola, s'illuminò di allettante aspettativa. Dopo diverse ore di vendita infruttuosa, quella donna poteva finalmente renderla felice con pochi spiccioli.

«Ehi, ciao, bambina!», Annie si concesse di riprendere fiato, per poi rivolgere la sua attenzione a ogni singolo fiore presente nella cesta. Rose bianche, rose rosse e qualche piccola margheritina erano tutto ciò che costituiva i piccoli mazzolini, tenuti fermi tramite un sobrio laccetto di lana.

La fanciulla tenne contemporaneamente alta l'attenzione verso il cocchiere alle sue spalle, sperando che non si dissolvesse per l'impazienza di aspettarla. Tornò tuttavia a fronteggiare i vispi occhietti della sorridente bambina la quale, come ammaliata da una visione celestiale, smaniava dalla voglia di avere a che a fare con un possibile avventore.

«Se volessi acquistare quei-»

«Sono sei pence per le margherite, dodici per le rose» l'anticipò di gran fretta la giovanissima venditrice, esprimendosi con atteggiamento serio e preparato.

La giovane Annie si ritrovò a sorridere dimostrando dolcezza oltre che una spiccata ammirazione per una bimbetta tanto schietta, quanto fremente di concludere il primo vero affare del giorno. Certamente, i morsi della fame e il bisogno di rincasare con qualche moneta parlavano al suo posto.

«Va bene...», la domestica recuperò allora il contenuto dal piccolo sacchetto porta minuzie, che aveva allacciato alla cintola del semplice abito grigio tramite un legaccio sottile e terminante con un fiocco nella parte posteriore della vite sottile. La missiva affidatale dal dottor Watson rimaneva lì, con i bordi appena accartocciati per l'esiguo spazio, pronti a rammentarle il perché di quella uscita mattutina. Insieme ad essa, pochi spiccioli tintinnarono al movimento del sacchetto, scivolando fuor, sul palmo della miss, e catturando l'interesse della ragazzina.

La vista del denaro ammaliò la poverella allo stesso modo di un arrosto succulento sotto gli occhi di una bestia denutrita.Due scellini e soli tre pence, frutto di occasionali gratifiche da parte della gentile governante, Mrs. Hudson, era tutto ciò che in quel momento la tuttofare avesse con sé. Perciò non rimaneva che riflettere bene su come spenderli, nonostante le quattro rose bianche – costituenti uno dei bouquet della cesta  – attraevano inevitabilmente due iridi azzurro mare. Il candore di quei fiori rispecchiavano forse in parte la purezza della donna alla quale la missiva era stata destinata, ma solo la presenza di una rosa rossa come il sangue, come la passione di un amore ribollente, poteva rappresentare un preludio degli intrigo e dei misfatti dell'intera vicenda.

Le delicate margheritine, giudicò la ragazza, non sembravano adatte a una simile circostanza, nonostante il minor costo di vendita avrebbero indotto Anna Bernardi a un risparmio alquanto vantaggioso. Tuttavia, non fu l'esigua paga a convertine la decisione. La rosa era da sempre simbolo d'amore indiscusso, e se Sherlock Holmes non avrebbe mai neppure pensato a un simile gesto, un ben altro ossequioso gentiluomo – che fosse quantomeno innamorato della donna prescelta – sarebbe stato indotto all'acquisto di quei fiori.

«Ti offrirò due scellini se alle quattro rose bianche ci aggiungi pure una quinta tra quelle rosse che vedo sbucare dalla cesta.»

Gli occhi grigi della bimbetta dai capelli color paglia – smorti e nodosi a causa della mancata pulizia –, si spalancarono, mostrando due pupille colpite da uno shock fulminante.Le mani svelte e pallide corsero alle rose, e in breve tempo, composero il bel mazzolin di rose bianche, con al centro un fresco bocciolo scarlatto a farvi da spicco.  Il bouquet fu reso alle braccia di Annie, mentre l'argento dei due scellini scomparvero dentro la scarpa consunta della schietta venditrice di fiori.

«Usali con parsimonia. Mi chiamo Annie, comunque.»

«Lucy! Che Dio vi benedica, gentilissima signorina» strillò la bimbetta contenta.

Annie, dovette controllare l'impulso di abbracciare quell'innocente creatura, nata sotto una sfortunata stella. Solo allora la ragazza, difatti, badò al sostegno legnoso che sostituiva una gamba della piccola furia saltellante.

«Ciao, Lucy, che Dio benedica te» fu l'ultimo saluto che Annie sentì nascere dal profondo del proprio cuore, sperando con tanto ardore che potesse accadere per davvero.

«Un omaggio da Mr. Holmes?» fece eco la severa governante di casa Blomst, mostrando, ma solo per un momento, un espressione di sorpresa, subito seguita a ruota da un sincero luccichio negli occhi chiari, sgranati per quel sentimento che ne tradiva lo spiccato interesse per l'intera situazione.

Mrs. Sutton, per quanto preferisse nascondere affetto sotto false apparenze autoritarie e distanti, avvertiva da tempo devozione e attaccamento verso la famiglia presso cui lavorava, svolgendo il proprio lavoro con attentissima scrupolosità e adeguata preparazione. Tuttavia, il cuore della donna, perfetta governante qual era, non avrebbe potuto negare quella predilezione per la più piccola dei Blomst, una creatura cresciuta senza la presenza di una madre a farle da guida e da insegnante di vita. Perciò, ci aveva pensato lei stessa, compensando una tale gravosa mancanza con qualche carezza affettuosa, ogni qual volta la bimba s'avvinghiava piangente alle sue gonne. Oltre ai gesti di tenerezza, vi furono anche diversi rimproveri, utili a educare la fanciulla danese e a trasformarla nell'impeccabile signorina che, in seguito, si era dimostrata.

In quel momento, dunque, al solo sentir nominare il futuro consorte che l'amata pupilla avrebbe, di lì a pochi mesi, raggiunto all'altare, la governante lasciò trasparire irrefrenabile fierezza. Si comportò come se, lì, proprio davanti ai suoi occhi, la bionda borghese dalla pelle color porcellana si fosse materializzata con indosso l'abito nuziale.

«Louise!», la donna dalla crocchia severa si dispose così, chiamando a raccolta una graziosa cameriera, la quale s'affrettava già a raggiungere le due donne, con tra le mani un delicato vaso riccamente decorato.
Annie intuì all'istante l'intento della governante e, prima che la piccola boccuccia della terza figura femminile potesse intromettersi, la ragazza parlò con decisione.

«Il signor Holmes ha espresso l'esatta volontà che fossi io stessa a consegnare l'omaggio a Miss Blomst.»

L'arcigna Mrs. Sutton per un momento indignata dall'essersi vista interrompere da una sempliciotta tuttofare, parve rabbonirsi all'istante, similmente a un cane abbaiante che venie messo a tacere dal comando del proprio padrone.

«Oh, ma chi sono io per osteggiare la volontà di Mr. Holmes?», approvò dunque la richiesta della tuttofare, facendo ancora accenno a Sherlock Holmes, con atteggiamento esageratamente ossequioso.

Tutti, compresa la governante, non potevano che sottostare all'inumano fascino di cui il bel gentiluomo sapeva godere, né tanto meno non riversare orgoglio e ammirazione per un'unione tanto proficua. Il cuore di Annie, allora, avvertì una piccola scossa, come un piccolo terremoto ma di forte concentrazione. Ciononostante, pensò a mascherare quell'orrenda sensazione di disagio tramutandola in un sorriso piuttosto finto e impacciato. Nel mentre annuì davanti a Mrs. Sutton e a quel suo invito a seguirla su per l'imponente scalinata.

Due tocchi alla lucida porta a due battenti, e una flebile voce venne fuori dall'interno della stanza. La rossa tuttofare si ritrovò catapultata fra le mura color rosa pastello, dinnanzi a un letto ben fatto e all'apparenza tanto comodo, e una donna dai capelli illuminati dai pochi raggi di sole, che facevano capolino dall'ampia vetrata davanti alla quale si stagliava un'eretta figurina.

«Annie» pronunciò Gwendolyn nell'immediato istante in cui vide la ragazza, sfoggiando inoltre un sorriso ritrovato, intento a spazzare via tutta quell'amarezza sconvolgente che – per tutta l'antecedente serata e poi per tutta la notte a seguire –, aveva tenuto la povera sciagurata cogitante e immersa in congetture moleste.

«Miss Blomst», salutò col capo l'orfanella dai capelli ramati, attendendo che la governante uscisse, ma non prima di essersi pronunciata in un raggiante «Un omaggio dal vostro fidanzato, mia cara Miss Gwendolyn».

Le rose strette al petto, le cui corolle aiutavano a mimetizzare la presenza estranea della misteriosa lettera, vennero tese all'attenzione dell'altra, in un vago tentativo di eloquenza, a causa delle parole che tardavano ad arrivare. Annie non aveva la più pallida idea sul come dover spiegare alla bella aristocratica la realtà dei fatti, e neppure era convinta se l'intento del dottor Watson fosse già nei pensieri della donna lì presente, secondo un accordo ben preciso e sancito antecedentemente. Il volto della bionda, contratto tanto all'improvviso, parve però dire più di quanto si osasse pensare: delusione per quel regalo certamente inaspettato, ma elargito – secondo la propria credenza – dall'uomo sbagliato. La missiva composta dal baffuto padrone di casa non doveva dunque essere nei piani di entrambi.

«Per voi Miss...» cominciò la domestica, dividendo la distanza quel tanto che bastava per raggiungere le braccia sottili della fanciulla. «Ho giurato la mia discrezione» aggiunse in seguito, sperando con tutta se stessa di gettare amo a sufficienza per far ben intenderne la celata eloquenza.

E difatti, la parola discrezione, marcata appositamente, ebbe effetto di enfasi tale da indurre la bionda altolocata a ricevere il bouquet fra le mani, e studiarne attentamente il contenuto. Sulla sua fronte si delinearono delle pieghe di cruccio, atte ad alterare la pelle liscia.

«Sono splendide» giudicò la bionda, rivolta all'inserviente, cosi scambiando con quell'ultima un abbozzo di sorriso. Il bianco dei vellutati petali a cui faceva da contrasto il vermiglio dell'unica rosa rossa lì presente, bastò a far riaccendere di speranza il petto di Gwendolyn, ma mai tanto quanto un angolo appuntito di un biglietto inserito all'interno del mazzo e camuffato tra i fiori. Si illuminarono di scoppiettante, ma silenziosa esultanza, due iridi color carbone.

Senza attendere i passi dell'altra dirigersi verso l'uscita, la miss non dissipò altro tempo per aprire la missiva e spulciarne con attenta curiosità il contenuto d'inchiostro. La grafia ben leggibile e nervosa allo stesso tempo, evocò scenari emotivi non tanto dissimili da quelli sentiti dal profondo della giovane in quei giorni di scompiglio. L'ardore e il turbamento vennero frugati in mezzo a quelle parole ricche di promesse, legate a una decisione in particolare.

«      Cara Miss Gwendolyn, le vostre intenzioni mi hanno aperto gli occhi sulla nuova via, che mi è apparsa davanti così improvvisamente. Per tutta la notte ho camminato su e giù per il pavimento, cercando di decidere quale corso era mio dovere perseguire, e ho deciso di rispondervi francamente come desiderate.

Non tenterò di essere remissivo, perché voi meritate la mia decisione, ma sarò breve e confesserò ogni mia debolezza nei riguardi di nuovi sentimenti. Quando mi avete chiesto di sposarmi, ho creduto, per un solo attimo, che fossimo congeniali e che avrei potuto rendervi felice. Non sono ricco, ma ho abbastanza – come d'altronde penso – da permettervi tante comodità. Riflettendo sul vostro stato e, naturalmente, su di voi – più che predisposta ad accontentarvi di una competenza moderata –, vi ho forse invitato a fare affidamento su di me. L'intimità più stretta, probabilmente, ha dimostrato il mio errore. I vostro desideri stravaganti sono completamente oltre i miei mezzi, ma un'incomprensibile follia mi incentiva ad accettare la vostra proposta. Non conosco i capricci del futuro, ma sarò pronto ad affrontarli assieme a voi, favorendo della stessa tempra con cui sto scrivendo queste parole.

Il nostro dissennato progetto avrà un compimento, ma il percorso verso l'altare sarà duro e rischioso. C'è una cittadina vicino Londra, Lyndhurst, situata nello sfavillante verde della New Forest, nell'Hampshire. Da bambino vivevo lì e, affinché ogni cosa fluisca nel miglior modo, vorrei condurvi in suddetto luogo, dove potremmo finalmente suggellare la nostra unione. Non potrò darvi una cerimonia sfarzosa, ma solo un'umile celebrazione, atta al solo fine da entrambi escogitato. Compiuto il misfatto, torneremo nella capitale, cosicché ognuno venga a conoscenza della nostra scelta.

Se è ciò che desiderate, fatevi trovare a tra Pall Mall e St. Street alle dieci in punto di domani mattina. Non tardate, né siate troppo in anticipo. I nostri amici e familiari potrebbero nutrire un qualche dubbio e annullare ogni progetto.    »

Lasciandovi l'ultima decisione, dott. John H. Watson

«Col vostro permesso, Miss, vi chiedo di potermi congedare» richiese timidamente la tuttofare, preferendo uscire di scena piuttosto che ficcare il naso in faccende tanto personali e segrete.
Gwendolyn, tuttavia, staccando gli occhi dalla lettera, pronunciò:

«Il mio matrimonio non si rivelerà altro che una prigione dorata, Annie» così snocciolò, dunque, senza remore alcuno, sotto lo sguardo allampanato della rossa cameriera.

«Ma Miss Blomst... Il signor Holmes è-»

«Non è l'uomo con il quale desidero trascorrere il resto dei miei giorni», la donna pareva essere sul punto di piangere talmente la gola le vibrava. «Cercate di comprendere la mia delicata posizione» confessò con fare implorante.

Nonostante tutto, Annie comprese, come già in precedenza era riuscita a comprendere, nell'uomo, responsabile di tale messaggio, quel genere di trasporto amoroso che, fino ad allora, solo nei libri le era stato concesso di osservare e ammirare.

«La fuga, cara Annie, è l'unico rimedio capace di contrastare il mio destino già scritto per conto di altri.»

«Nessuno può decidere del nostro destino» confermò inaspettatamente la giovane, cogliendo di sorpresa l'interlocutrice.

Nessuno avrebbe mai potuto obbligare la stessa Annie a un matrimonio senza amore. L'amore, dopotutto, era da sempre forza motrice di ogni anima, e così avrebbe continuato ad essere, nonostante l'apparente pensiero deviato di una singola fanciulla dalla mente troppo aperta e per nulla confacente a società di quel tempo.

Miss Blomst, dal suo canto, sentì di librare su di una nuvola invisibile, di divenire finalmente leggera e appagata come non mai. Per la prima volta nella sua vita, avrebbe potuto vantare non soltanto una scelta tutta sua, ma il poter anteporre il proprio volere al quello degli altri, anche a quello di un'amica cara e comprensiva, capace di capire i desideri e le necessità più reconditi di una donna che scalpitava sotto le catene di un unione non voluta.

Con un moto di brio incontenibile, Gwendolyn Blomst non poté contenersi, e raggiunse la mesta compagna di segreti, così da cingerla per entrambe le braccia.

La scettica Annie, subì il calore delle mani dell'altra, che s'andarono intrecciandosi alle proprie.

«Annie, finalmente la mia grande occasione è giunta», le alitò in viso esibendo dei denti bianchi e perfetti. Tuttavia, ciò che attirò maggiormente la giovane orfanella, fu quel viso tanto bianco come la neve, che s'andava per l'occasione colorando di un delicato rosato, come a dimostrazione di una riscoperta vitalità. «Il dottor John Watson è un uomo d'onore. Lui saprà rendermi libera, lo sento. Partiremo domattina» continuò la miss, mentre le iridi azzurre di Annie sottostavano all'effetto incantatore delle due pozze nere e profonde dell'altra. Le pupille scomparivano all'interno di quelle, camuffandone la reale presenza, così tanto da rendere difficile il distinguere le iridi.

«E dove andrete? Se posso chiederlo» domandò ingenuamente la domestica, con nella testa una nuova emozione a commemorare ognuna di quelle nuove intense rivelazioni.

«A detta del dottor Watson, c'è una cittadina situata nell'Hampshire, mia cara Annie. Lì potremo sugellare la nostra promessa nuziale, lontani finalmente dalle chiacchiere indiscrete della gente e dai miei obblighi familiari. Oh, Annie, naturalmente vi prego di mantenere il più assoluto riserbo. Vi chiedo di resistere sino al momento del nostro ritorno nella capitale, dopo quel giorno niente potrà più essere cambiato.»

Annie si ritrovò a vagare sognante nella beatitudine più eterea, in un paradiso ricolmo di speranza e benessere, dove l'invidia e la gelosia – provate inconsciamente per la bella miss Blomst, promessa sposa dello spasimante Sherlock Holmes – scivolarono via, dissolvendosi come se non fossero mai esistite. Per quanto inconveniente fosse il solo pensare a un atto di fuga a danni di un promesso sposo, l'immagine di una donna legata da una fede sbagliata e da un cuore rivolto ad un terzo, era di gran lunga più brutale.

«Confido in voi, Annie, dopotutto, non dev'essere difficile fingere di provare la più assoluta indifferenza circa un uomo che ogni giorno siete costretta a servire.»

Dinnanzi una verità tanto lampante, le gote di Annie s'infervorarono come fiamme incandescenti. Si trattava di una realtà inconfutabile, davanti alla quale, nulla avrebbe potuto obiettare con il fine di rispondere il contrario.

Possibile che Miss Gwendolyn avesse intuito quella folle bramosia che le stringeva cuore e stomaco ogni qual volta lo strambo detective le stava vicino?

Ben certa di non aver mai accennato a un solo atteggiamento civettuolo nei riguardi di Mr. Holmes, Annie cominciò a pensare se mai qualcuno, durante la festa di fidanzamento di un giorno addietro, avesse osato osservare il solo e innocente atto di gentilezza dell'aitante padrone, formulando dunque conclusioni sbagliate.

«Non temete, Annie. Abbiamo entrambe dei segreti da proteggere.»

La schietta Gwendolyn non avrebbe potuto esprimere meglio la grottesca situazione dentro cui l'inerme Annie era oramai del tutto coinvolta. Nuovi dubbi e altre emozioni, dunque, osteggiarono ancora la pace dell'aspirante istitutrice. Il futuro sembrava presagire sempre nuove sorprese, eppure, secondo la giovane – ma già ferita – anima di Annie, l'insicurezza e la fragilità erano pronte a sconquassare inediti cammini, stando dietro l'angolo.

«Avete la mia parola, Miss Blomst» sancì infine la giovane tuttofare, stringendo con appena più forza le piccole mani di Gwendolyn, in segno di un patto stabilito.

Dopodiché, non restò altro che andare via, insieme a un cuore traboccante di felicità e una mente, atta a rinfacciarle quanto pessima e infedele fosse stata, una domestica per nulla meritevole di servire un buon padrone, un uomo non così perfetto di nome Sherlock William Scott Holmes.

La valigia in pelle bordeaux venne richiusa con uno scatto energico sotto le dita nervose del biondo ex medico militare. Qualche capo di biancheria e poche camice inamidate furono tutto quello che vi mise, ed erano sufficienti al superamento di un viaggio di andata e ritorno, verso la poco distante contea dell'Hampshire. In previsione dell'oscuro misfatto ai danni del pressoché sempre infallibile Sherlock Holmes, John Watson non mancò di pensare alla scusa più attendibile tra tutte quelle studiate in quelle ore di massima tensione, una frottola ben architettata e che non potesse essere messa minimamente in discussione dal sorprendente acume tipico del coinquilino investigatore.

Il salotto che, nella stessa mattinata turbolenta era stato adibito a una cella di interrogatori, raccoglieva in quel momento di tregua il secondo coinquilino in un silenzio di tomba. Il frenetico andirivieni di ben sette personaggi – tra i più eccentrici che John avesse mai incontrato – aveva scongiurato, attraverso una sola osservazione, la possibilità di un probabile omicida tra quegli stessi sospettati. Tuttavia, ben altri misfatti nascosti erano giunti alle orecchie del medico, il quale si era ritrovato inconsapevolmente invischiato in minori reati, comprendenti ben due relazioni amorose clandestine, un ladro incallito di oche, uno scommettitore di combattimenti tra cani, un cocchiere dedito all'alcol e agli incidenti su strada, e una zingara fattucchiera, imbrogliona quanto maleodorante.

La vita privata di ogni singolo individuo era stata così scoperchiata e sviscerata con quanta mai naturalezza dalle labbra implacabili dello stesso signore, situato lì, affianco al camino spento, o in chissà quali meandri oscuri della psiche.

Il giovane Holmes sedeva in atteggiamento composto nella sua poltrona scura dagli ampi braccioli morbidi. Le mani a piramide congiunte sotto il mento e gli occhi chiusi, smarriti in una qualche visione deduttiva, lasciavano intravedere un gesto intrinseco di una vaga solennità. Dinnanzi ai molti che non comprendevano la reale verità dei fatti, l'uomo sarebbe potuto apparire semplicemente immerso in un momento di concentrata preghiera con, tutt'intorno, l'ambiente in penombra, intento a stagliarne la sagoma immobile, tanto simile a una statua della miglior fattura italiana.

John Watson s'annunciò alla porta con un finto colpetto di tosse, atto a interrompere tale intensa meditazione, e tanto repentinamente, il detective riemerse dall'abisso della sua stessa mente, spalancando le palpebre, per un momento fisse davanti a sé ma dopo vogliose di muoversi, per meglio riacquistare contatti con la realtà circostante. Il medico interdetto, osservò Sherlock Holmes tramutarsi da statua granitica a corpo umano ansimante d'eccitazione. Da quell'istante l'intero salotto parve rispecchiare l'irrefrenabile iperattività dello scattante detective.

Fu proprio così che, mentre John se ne stava fermo nella propria posizione – con lo sconcerto a controllarne gli arti e la bocca –, fogli di giornali e ritagli di foto venivano fatti svolazzare per aria, così come la vestaglia bluastra, indossata sino a poc'anzi dall'investigatore, che andò a ripiegarla malamente su di un grosso baule, situato nell'angolo più estremo della parete.

«Cappotto e stivali, Watson. Non abbiamo tempo da perdere!», si esibì il gagliardo consulente investigativo volgendo le spalle al dottore, ancora non del tutto convinto circa la bizzarra esaltazione dell'amico.

La mente di Sherlock, roccaforte inespugnabile di saperi e riflessioni a lui solo conosciuti, ballonzolava da una parte all'altra senza tregua e, incapace di darsi un tono di qualsivoglia genere, rivolgeva la sua massima attenzione alla donna ritrovata morta, uccisa precedentemente, a causa di motivi che solo lui era stato in grado di carpire, nonostante i pochi indizi rinvenuti sulla scena del misfatto.

Il tornado di vigore, fatto a persona, si consumò dopo un'ultima giravolta mentre andava a scovare un cappello da caccia finito incomprensibilmente sotto il grande tappeto rosso dai toni orientali. L'inseparabile copricapo che da qualche tempo a quella parte, assieme all'assiduo contributo della stampa londinese, pareva far combaciare la figura di Sherlock Holmes a quella del geniale investigatore inglese dell'ultimo secolo, finì calcato in testa con un gesto teatrale. Non vi era alcun dubbio, la noia era l'ultimo dei problemi dell'uomo che, tornato a fronteggiare il coinquilino, pungolò con lo sguardo vispo l'uomo coi baffi, soffermando la sua curiosità sull'aspetto generale del medico. In vero, osservò il cappotto e la bombetta, come risvegliatosi da un sogno a occhi aperti.

«Watson! Vedo che siete già pronto. Lo siete davvero...» confermò in un mugugno pensieroso, simile a quello di un sonnambulo risvegliatosi di soprassalto e non ancora del tutto conscio della realtà circostante. Il più grande detective privato di tutta l'Inghilterra mancò un'osservazione tanto lampante, ma la prassi di quella convivenza prevedeva anche ciò.

Ciononostante, John si ritrovò comunque a domandarsi se l'uomo non avesse fatto un uso improprio di sostante stimolanti. Cocaina e, il più delle volte, morfina provvedevano al sostentamento del giovane, nei giorni in cui il tedio, provocato dall'assenza di misteri, abbrancava la mente di un cervello così pretenzioso.

«State bene, Holmes?», da bravo medico, John ritenne d'obbligo accertarsi di tali situazioni.

Sherlock, al contrario, mutò la propria espressione in una ancor più crucciata, che finì appena più giù, sullo valigia che l'ex medico militare impugnava saldamente dalla maniglia.

L'attento detective, affatto ottenebrato dai piaceri della droga, non mancò di eccepire quel dettaglio.

«La vostra innaturale sagacia mi lusinga, dottore, ma devo dissentire circa l'uso della vostra valigia.»

Un sonoro campanello d'allarme rimbombò nelle tempie di John. Si scoprì, difatti, intento a temere se Sherlock avesse dedotto ogni cosa. La camera si fece indubbiamente più accaldata di quanto non lo fossero le strade londinesi in quei mesi d'estate cocente.

«Per quanto vogliate rendervi previdente, il vostro solo taccuino sarà sufficiente. Il luogo verso il quale siamo diretti, la casa dell'assassino della sciagurata rinvenuta morta non dista più di un quarto di orologio, trenta minuti al massimo se consideriamo il possibile fattore traffico e dei cavalli rallentati dalla calura» specificò come suo solito Holmes, con quella punta di saccenza che mai lo abbandonava.

John Watson si ritrovò tutt'a un tratto smarrito, lontano anni luce dal pensiero del fidato coinquilino. Trovò lo stesso le parole, col chiaro tentativo di sviare le intenzioni di Sherlock Holmes, qualunque esse fossero e, dopo, ridacchiò appena, sfidandone impavido lo sguardo penetrante.

«Potrei aver errato di mancata comprensione, Holmes, ma non sembra anche a voi di aver peccato di disattenta osservazione? Dopotutto, i miei segni sapranno esservi... Eloquenti.»

«I vostri segni?» ripeté il detective in tono grave, pungolato nell'anima da tale incredibile offesa, certamente mai voluta intenzionalmente. Per quanto abile fosse John Watson nel proprio lavoro, guarire ferite e malati non comportava allo stesso tempo vantare di un'eccelle abilità di riflessione e valutazione dei fatti – ciò portava lo stesso ad apparire come un ingenuo fanciullo, che s'accingeva alla finestra del mondo esterno, solo guardarvi curioso pur senza alcun sforzo.

«Mio caro Watson, non sopravvalutatevi troppo. Giù in strada c'è una carrozza appostata di fronte al portone d'ingresso, inoltre la vostra valigia, la più nuova delle due in vostro possesso, è piena ma non abbastanza da indurvi a posarla al pavimento durante questo nostro interminabile dialogo, dunque posso dedurne quanto breve sia il viaggio di andata e di sosta verso il luogo da voi prescelto. Pochi indumenti lasciano intendere la vostra intenzione di rimanerci se non solo per pochi giorni. Vi recherete da vostra sorella, presumo.»

Solo un respiro, soltanto uno, energico e liberatorio, concesse sollievo al povero medico, che solo per poco non tradì tutto il proprio malessere, dovuto a quella menzogna così spudorata.

John, sbatté un paio di volte le palpebre, sfuggendo alla vista delle iridi chiare di Holmes, poi spostò il peso del corpo sulla gamba sinistra e fece schioccare la lingua.

«Avverto l'impellente bisogno di far visita alla mia cara Harriet. Il cadavere di quella povera donna all'obitorio mi ha indotto a pensare a lei per tutto il giorno.»

«Be, vi perderete l'impiccagione del suo stesso fratello! Non me ne compiaccio affatto, è un vero peccato per voi non esserci.»

«Che volete che vi dica...» biascicò in tutta innocenza John Watson, rivolgendo all'altro un'espressione di rammarico. «Il fratello, dunque. Dove andremo a finire?»

Tali parole furono le ultime che anticiparono l'uscita del medico. Erano in parte dovute a una spicciola e, forse, neppure appieno convincente recitazione. Tuttavia contenevano un sincero interesse per la donna assassinata. Non riuscì, il medico, a non pensare all'amata sorella Harriet, giovane ragazza data in sposa a un uomo di poco più grande di lei, benestante e di gran cuore, abbastanza da prendere in moglie una donna dalla psiche fortemente instabile, decidendo comunque di amarla e proteggerla dalle insidie del mondo.

Gwendolyn Blomst gli apparve nella mente, fluttuando come uno spirito benigno, candido e puro come un bocciolo di rosa bianca soltanto da poco tempo schiusosi ai raggi del sole. Era fatta, e John Watson se ne rallegrò, non mostrandolo: quel valido alibi avrebbe potuto concedergli qualche ora di vantaggio, prima che Holmes s'accorgesse dell'ignobile scappatoia.

Londra, una sconfinata babilonia di ruvidi mattoni scuri e prominenti ciminiere, si ramificava come il microscopico reticolato venoso di un alveolo. Le tante vie, unite da incroci e rotatorie, subivano l'aggressivo calpestio di fiotti umani, intenti a dare vita alla caotica capitale. Gli zoccoli trottavano lungo le strade, trainando carrozze di diversa tipologia, e creando un'incessante scroscio, simile a quello di uno spietato diluvio. Oltre a ciò, un vociare poderoso, si univa al fragore, disturbando l'orecchio di chiunque avesse un po' di sensibilità uditiva. Gli odori, infine, si incollavano alle stoffe, depauperandole dal buon sentore di pulito che prima emanavano.

Gwendolyn non si era certamente smarrita, ma si sentì come disorientata da quel sovraccarico sensoriale, composto dagli strilli – acuti o meno –, dal puzzo di sporcizia misto all'odore pungente del fumo, dai troppi colori impetuosi che dipingevano la città con la stesso vigore ammirabile in un dipinto di William Turner – in vero, la Londra vittoriana, dacché tutto era così pieno di vita, di ambigua decadenza, di contrasti e altro, più che di un dipinto, vantava lo stesso equilibrio della tavolozza di Turner, un legno soffocato da tempera rimestata.

La miss aveva conosciuto Londra attraverso il vetro di un carrozza, e quasi mai riusciva ad articolare lunghe passeggiate per gli interminabili sentieri della città. Il legno del mezzo di trasporto la rendeva meno vulnerabile dinnanzi alle cattive intenzione di un popolo sofferente, senza moralità e con in testa un unico codice, quello della sopravvivenza. Non esisteva una capitale sicura, ma solo una contemplabile da dietro una protezione, o piccoli accorgimenti. Le donne per di più, soprattutto se di buon ceto, non avevano il consenso di mostrarsi un pubblico, se non accompagnate da altre dame o, molto più comunemente, dalla servitù. Esse dovevano gironzolare nel gregge, se realmente desideravano non incorre nei loschi piani dei lupi che si nascondevano nelle strade soffocate dall'impetuoso marasma.

Gwendolyn si sentì sguarnita da qualsiasi difesa e alla mercé di chissà quale malfattore, dal momento che aveva sgattaiolato via dalla propria dimora, un rifugio resistente e familiare, come un silenzioso ladruncolo, lasciando un unico messaggio al proprio padre, impegnato nel solito sfiancante lavoro. Per le serve, secondo le parole ritrovare sul profumato legno lucido dello scrittoio, Gwendolyn non era in nessun luogo se non a Regent's Park, sotto la supervisione di Evangeline – che in realtà non aveva ancora fatto ritorno dal proprio stato di convalescenza presso un certo dott. Jonathan Butterfield, a Dartford, nel Kent, una contea limitrofa alla capitale. La scusa non sembrava lontanamente plausibile, ma il tempo non l'avrebbe aspettata. Sviare la famigliola con qualche ricerca – magari far perder tempo alla servitù con un qualche viaggetto sino al Kent, con il fine di conoscere la reale posizione di Evangeline – avrebbe potuto favorire la fuga.

«Perdonatemi, padre», Gwendolyn lo sussurrò a se stessa, osservando il cielo, come l'unico punto di riferimento. Non aveva mai escogitato sotterfugi così cimentosi, ma la disperazione era tanta e nulla poteva contro il terrore di una vita al di sotto delle angherie di Mr. Holmes, la scelta più errata dopo le leggiadrie di una vita serafica.

John Watson rappresentava una caduta nel burrone, la morte della propria vita e la nascita di una completamente stravolta dalle tante novità della unione matrimoniale. Certamente, il medico non era meno sconosciuto del consulente investigativo, ma aveva un qualcosa nell'anima che ben ispirava la fiducia di una donzella come Gwendolyn, più che capace di sfiorare con la mente le viscere di ogni emozione umana e di ogni personalità. Se Sherlock Holmes non le trasmetteva nient'altro che la parvenza di un futuro infelice, il medico riusciva a donarle una commovente malinconia, mista a un bisogno di amore, o di più tenera amicizia. Quell'uomo era un incognita, ma lei ben sperava di trarre da essa un semplice rapporto. Certamente, l'amore era uno standard troppo elevato per chi era stato privato dal beneficio della scelta, ma un legame di reciproca fiducia sembrava un traguardo più che soddisfacente.

Rianimata da un nuovo coraggio, la donna diede forza alla gambe e si fece avanti, tagliando la calca di gente che ingombrava lo spazio e le tormentava la vista. L'aria si era surriscaldata, a causa del luminoso sole di giugno, un cerchio di fuoco inestinguibile e non più velato dal soffice strato di nuvole delle giornate precedenti. La calura toglse il fiato a Gwendolyn, che camminò con disinvoltura, cogliendo con l'occhio le ampie gonne degli stormi di fanciulle, qualche viso infantile – imbruttito dal carbone –, e soprattutto una sfilza di uomini: gentleman borghesi, aristocratici e poveri straccioni, intenti a denudarla con il solo potere di uno sguardo ben assestato.

La giovane si allontanò da soggetti apparentemente ostili e, contaminata da una nuova ansietà, si circondò il busto con le braccia e affrettò le falcate, così da raggiungere Saint James's Park, un meraviglioso angolo di verde, a pochi chilometri da Piccadilly Circus, cuore morale della città e meraviglioso luogo di luci, insegne moderne e incessabile progresso – Cupido, in bilico sulla propria fontanella centrale, nell'atto di scoccare una bella freccia, vegliava sul traffico e sui comuni mortali, subordinati alle leggi del sentimento.

Gwendolyn continuò l'ultimo tratto di strada e, infine giunse nel luogo d'incontro dove, con il fine di ripararsi dai violenti raggi, si rifugiò in uno scorcio d'ombra. John Watson intanto, a solo pochi metri di distanza, mise mano all'orologio da taschino – un adorabile regalo da parte dell'amata sorella Harriet – e, lasciandolo oscillare e raccogliere qualche riflesso aureo, sguinzagliò le iridi e le lasciò andare a caccia dell'adorabile fanciulla. Con il cuore battente, e le mani intorpidite dal peso di un'unica valigia di cuoio, frugò tra i movimenti scattanti dei londinesi, in cerca, tra le tante teste frenetiche, un visino familiare. Sfortunatamente erano in troppi; cilindri e ampie vestiti, inoltre, sembravano otturare ogni singolo metro. Servì qualche minuto per riuscire a scorgere la donna, lì, accanto al Saint James's Palace, un mastodontico edificio, mattonato e disteso lungo la via.

Gwendolyn quel giorno indossava un abito bianco, che ben le fasciava la vita e i fianchi. Il tessuto, nonostante le coprisse tutta la pelle – persino il collo esile – appariva leggero e candido quando una la spuma delle onde. Si trattava di tulle, trasparente, ottimo nell'esacerbare il pallore della giovane, percorsa da labirinti di vene bluastre. Gli occhi neri, circondati da occhiaie non molto marcate, davano alla miss un'aspetto malaticcio e fragile, molto in voga all'epoca – dacché le donne doveva apparire indifese e deboli.

John, seppur ancora dubbioso, nel vederla così sola e sottomessa al corso degli eventi, si gettò verso l'ingresso del palazzo, così da coglierla di sorpresa, ma senza mai cercare di darle spavento.

«Miss Gwendolyn.»

Gwendolyn si girò, riconoscendo quella voce con un'innata facilità. Subito, corse incontro al medico e, ignorando ogni senso del pudore, con le mani gli abbrancò il braccio, come in segno di profonda gratitudine nei confronti del proprio salvatore, l'angelo custode.

«Dottor Watson», le guance le si avvamparono. Purtroppo, si era dimenticata quell'effetto, di quel piacevole torpore che percepiva a causa dello sguardo dell'affabile Watson. «Sono così lieta di rivedervi».

Due scogli, saldi e granitici, in mezzo al flusso umano che, come la marea, li inghiottiva inesorabilmente. Il medico si sentì sull'orlo di un precipizio, invischiato in una avventura nuova e pregna di mistero. Solo il cielo sapeva casa quel matrimonio avrebbe comportato, ma infondo nulla era ritrattabile. Lui le aveva concesso una scelta e niente gli avrebbe impedito di non rispettare la decisione intrapresa.

«Si preannuncia un ottima giornata... Per viaggiare» aggiunse dopo un continuo cianciare. Gwendolyn, dietro alla veletta del proprio cappello – fondamentale alla protezione della pelle dal calore – sorrise, sfoderando due labbra coloro ciliegia. Quel giorno, aveva messo il rossetto e le donava molto su quel meraviglioso colorito avorio.

«Sì, il tempo sembra assisterci» disse, togliendo le dita dal braccio dell'uomo e riportandole strette al petto. Il sole non era mai stato così ricco di vita e di fuoco: le sue lingue sembravano voler indennizzare il regno, a seguito di un lungo inverno di neve, nebbia e grandine.

«M-Mi auguro che il tempo sia clemente, cosicché le condizioni del sentiero campestre non... Impediscano alle ruote di impantanarsi», John cercò di risultare sicuro, ma le pupille fuggiasche e l'angoscia di avvenimento così rilevante trasudarono un'evidente stato di allerta. Lui non era ancora convinto di quel progetto e Gwendolyn, riflettendo ogni emotività, lo comprese all'istante.

«Dottore...» farfugliò, sgomentata.

John allungò le braccia e, afferrate le spalle della giovane con delicatezza, si ritirò in un piccolo buco di strada, dove nessuno avrebbe minacciato una migliore intimità. Con le schiena contro il muro, Gwendolyn subì la presenza dell'uomo, molto più sicuro che in precedenza. C'era qualcosa nella sua bocca, una qualche illazione intenta a nascere.

«Ascoltatemi, Madame, non vorrei sembrare eccessivamente insistente, ma voi siete davvero sicura della vostra scelta? Io conosco bene l'onore e quest'ultimo, poiché terribilmente prezioso, non è facile da mantenere. È necessaria solo un cattiva voce, un nonnulla, e si dissolve via, come vapore. L'onore ha già abbandonato me, a causa di questo nostro progetto, ma abbandonerà anche voi, una volta intrapreso il nostro cammino», John fu gentile con le parole.

Gwendolyn, tuttavia, non demorse e, sempre più colpita dalle tante premure del nuovo accompagnatore, si avvicinò maggiormente al medico, premendo il proprio corpo contro quello accanto.

«Cosa desiderate davvero, Miss?» chiese l'uomo, avvertendo quel contatto così intimo. Era solo un tocco innocente, ma d'altronde non sfiorava una donna da davvero molto tempo e aveva dimenticato quella sensazione. Lei stava come cercando una maggiore protezione, rifugiandosi contro quell'insolita armatura di carne.

«Che voi mi portiate via da qui» sussurrò, abbattuta.

Le sue mani, intrecciate come in segno di preghiera, erano strette al torace di John, rapito dall'ultima disperazione. Il dado era stato tratto e lui, da gentiluomo qual era, avrebbe preso quello scricciolo sotto la propria tutela, così da regalarle un po' di respiro, o di speranza.

«È la vostra ultima decisione?»

«È la mia unica decisione, dottore.»

John non era mai stato un uomo riflessivo, ma tempestivo e impulsivo sino al midollo. Durante il turbolento periodo di guerra, nel lontano Afghanistan, non aveva minuti per pensare, ma solo secondi per agire. In quegli aridi territori anche solo una riflessione troppo protesa avrebbe potuto significare una morte certa o, nelle migliori ipotesi, una gamba in meno. Sicuramente, in Inghilterra, mettere in moto fiumi di pensiero era molto meno rischioso, tuttavia a Baker Street, esisteva già un essere pensante, Sherlock William Scott Holmes.

John, in quegli anni, aveva lasciato al collega l'arduo compito di ragionare, così ricalcando un temperamento molto più ferrato sull'azione. Era stato rapido nei suoi interventi, ma mai nel ponderare qualsiasi scelta di vita. Persino Mary Morstan nient'altro era che un caduta nel vuoto dell'incertezza, nel più completo dubbio.

Perso nel rancore, aveva conosciuto Mary e nell'arco di una sola settimana aveva deciso di prenderla in moglie, così da compensare il vuoto lasciato dalla lontananza di Holmes, creduto morto. Mrs. Watson non si era rivelata una scelta congeniale, dacché era una scaltra bugiarda e una perfida millantatrice. Scovate le menzogne, John l'aveva perdonata e, in un certo senso, era pure riuscito ad affezionarsi a lei, nonostante tutti i sotterfugi e le continue liti.

Gwendolyn pareva molto diversa da Mary, in ogni singolo aspetto. Era molto più docile e di bell'aspetto, però anche molto più criptica. Dietro il viso pallido e si nascondeva uno strano potere, che ben le permetteva di penetrare le menti; l'insolenza, per giunta, ben si accompagnava alle sue tante particolarità. John non riusciva a non soffocare un'insana attrazione: quel commisto di fragilità e forza a scolpiva la personalità della miss, perfettamente unica nel suo genere.

«State bene, Miss Gwendolyn?» chiese il medico, notando al di sotto della mani trasparente i segni di sutura. Il filo rosso contrastava contro tutto quel candore, riportando l'uomo alla fatidica notte, quella che aveva dato inizio a nuovo corso di eventi, a tante nuove possibilità.

«Posso dichiarare di sentirmi notevolmente meglio, dottore» dichiarò lei, osservando dal finestrino immensi prati, ricolmi di profumi e colori. La carrozza, cigolando e scricchiolando, li stava portando via, verso l'altare di una piccola chiesa a Lyndhurt. Erano partiti da solo un'ora, ma Londra sembrava già un lontano ricordo offuscato.

«Sarà un lungo viaggio, non è così?» domandò la giovane.

La voce del medico si unì allo scalpiccio degli zoccoli.

«Dovrebbe comprendere tra le dodici e le quindici ore, escludendo possibili pause o imprevisti» specificò lui, notando i molteplici dettagli che tanto caratterizzavano la giovane, la quale non aveva con sé niente, se non una borsetta – con usignoli scolpiti sul rame lucente, e troppo piccola per contenere i viveri necessari o un qualcosa di prettamente utile. «Spero fortemente non vi sia disagevole, Madame».

Gwendolyn diede un espressione complice al medico e, dopo, la riportò nuovamente allo scenario campestre. L'imminente mezzogiorno tingeva il grano, scosso dal venticello e, perciò, divenuto un vero e proprio oceano dorato. Le onde flave salivano e scendevano, al di sotto di un firmamento blu e sereno, molto discostante dal tipico clima del Regno Unito, soggetto alle troppe burrascose precipitazioni.

«Mi aggrada viaggiare, a dire il vero, lasciare la confusione di Londra di tanto in tanto. Stare tra l'erba stopposa delle campagne e osservare il cielo, con la sola compagnia del vento», Gwendolyn si fece confidenziale e rivelò una piccola curiosità. Presto sarebbe divenuta la moglie del dottor Watson e, un'innocente chiacchierata prematrimoniale sembrava d'obbligo. «E voi, dove amate rifugiarvi?»

"Dove vorrei rifugiarmi... Che bizzarra domanda!", John sorrise tra sé e sé, ricambiando un piglio molto divertito nei confronti della donna. La mente corse, volò tra i cieli dell'Asia, per poi tornare in Europa, al di sopra dei tanti vicoli della capitale, dove il male si rintanava.

«Oh... Beh... Sinceramente... Io non saprei...»

La fanciulla ribatté.

«Io avrei giurato il contrario, dottore.»

Lo stava rifacendo, e per l'ennesima volta. John si sentì limpido quanto un ruscello, acqua fresca, malleabile e così trasparente da lasciar intravedere ogni dettaglio sommerso. Solo Sherlock Holmes aveva il potere di sfruttare l'altrui nitore, estrapolando ogni genere d'indizio; tuttavia Miss Gwendolyn sembrava avere capacità molto affini.

«Prego?» chiese il medico, testando la donna.

«Ve lo leggo negli occhi» rispose lei, inchiodando le iridi nerastre al proprio interlocutore. L'uomo, nonostante il volto stancato dall'inevitabile scorrere degli anni, si ostinava a conservare una strano scintillio negli occhi, la voglia di essere costantemente sorpreso. Desiderava ancora l'avventura, l'azione e una vita che non fosse atrofizzata dall'immobilità. «L'amore per Londra, e per i suoi misteri».

Il medico avvertì all'interno della testa il guizzo di una fugace intuizione. Solitamente lui scriveva delle tante imprese vissute, così da renderle pubbliche nei molteplici quotidiani di una Londra curiosa.

«Oh, avete per caso letto dei miei resoconti?»

«Quali resoconti?», la giovane increspò il viso.

Lei non lo sapeva, ma aveva intuito tutto solo attraverso il comportamento e il temperamento del nuovo compagno.

«Solo quelli riguardanti le indagini di Mr. Holmes» replicò John, catturato dalla meraviglia. Sul serio lei non si discostava molto da Sherlock Holmes, differente solo a causa di una personalità un po' meno magnanima. Il consulente era alquanto tendete all'insolenza e al disaccordo – tant'è che quella stessa mattina avevano discusso e Holmes, come da copione, aveva seppellito il medico sotto una valanga di critiche e parole litigiose. «Vi inviterei a leggerli ma, purtroppo, non hanno nemmeno soddisfano il loro protagonista. Mr. Holmes continua a insinuare che abbia una naturale predisposizione nel romanzare gli eventi, deturpandoli della loro più pura essenza. Non tendo mai a narrare il fatto nudo e crudo ma, ahimè, lo abbellisco con delle emozioni sciocche e superflue».

"Le emozioni non sono sciocche" pensò istintivamente Gwendolyn, ripercorrendo ogni attimo vissuto in presenza di quel burbero essere. Forse Sherlock viveva secondo la condizione del "cogito ergo sum", rifiutando di riconoscere vita anche nell'intrepido scivolare delle emozioni. Dolore, gioia, rabbia, tristezza erano il fulcro dell'esistenza, l'unico modo – assieme al pensiero – con cui capire di essere reali.

«Sarei curiosa di leggere i vostri scritti, dottore.»

John sorrise delicatamente. Miss Gwendolyn era un come un intruglio lenitivo, un balsamo efficace e pronto a curare ogni malanimo con l'affabilità tipica di una dolce fanciulla. Forse, l'avere nuovamente accanto il conforto della giovane, avrebbe a lui permesso di migliorare la qualità del rapporto con Holmes, il complicatissimo amico – sempre sperando nel perdono dopo la fuga premeditata.

«E voi, voi non amate la confusione, bensì la solitudine, deduco.»

"Dedurre, da quando ho cominciato a dedurre?", John si sentì contagiato dall'ambiente del 221 B, giacché riusciva a captare indizi.

«Solitamente amo un solo tipo di solitudine» chiarì un'assorta Gwendolyn, intenta a tenere le mani unite sul grembo, ben irradiato dalla bianca luce di una giornata sfavillante, «quella che mi costruisco in assoluta autonomia. Di certo, non quella che altri potrebbero impormi. Quel tipo di solitudine non piace nessuno, credetemi».

Il medico aggrottò la fronte, leggermente vizza, e lasciò correre le memorie del lungo periodo di convalescenza, al seguito della pallottola fatale – la stessa che gli aveva mangiato la spalla –, e del ritorno a Londra, dove ad attenderlo esisteva solo un'odiosa solitudine. Sherlock era giunto come un miracolo, ponendo fine a ogni isolamento.

«Comprendo a pieno le vostre opinioni» confidò John, sentendo la coscienza punta da un leggero senso di colpa, nei confronti del coinquilino, lontano e inconsapevole del folle piano ideato.

«Delle volte ci si può sentire soli anche in mezzo al torrente umano che infesta la capitale, altre volte ci si può sentire in compagnia di se stessi nel solenne silenzio di una comune carrozza. Siamo noi a decidere quale tipo di solitudine ci aggrada, non è così?», Gwendolyn divenne introspettiva e deliziò il complice con qualche riflessione che potesse dare prova d'intelligenza. Forse, non avrebbe mai nemmeno osato rivolgere il proprio pensiero ad altri uomini; forse, sarebbe rimasta muta quanto una roccia, nel rispetto di un'etichetta che le stava troppo scomoda e la sottometteva a un ruolo deplorevole e limitato.

«Credo di sì.»

La donna ritornò al panorama.

«Mi addolora annoiarvi con troppe chiacchiere» rivelò, con il cuore tra le mani e la tensione al di sopra del petto altalenante. Non voleva essere una presenza così intrusiva, né gingillarsi con frasi e opinioni mai realmente richieste. Sentiva il bisogno arginare i propri inconsueti modi e apparire leggermente più mansueta agli occhi dell'uomo che l'avrebbe sposata. «Solitamente non sono così loquace».

John afferrò una nota di dispiacere nelle dichiarazioni della donna, una nota molto flebile, ma esistente. L'idea dell'unione secondo il rito stava scavando nella mente di lei, pigiando sull'intrepidezza e destabilizzando ogni parvenza di serenità. Gwendolyn, probabilmente, stava cercando di non essere ingombrante e John si sentì in dovere di rassicurarla – i panni del marito sembravano già di sua competenza, tanto aveva preso a cuore l'infelice causa della fanciulla danese.

«Beh, ogni solido rapporto si basa sulla comunicazione, e se voi desiderate comunicare con me, ne sarò lieto, Miss», sicuramente lui non amava perder tempo in chiacchiere troppo becere, e s'interessava solo ad argomenti stuzzicanti, al gusto verso il macabro e, soprattuto, verso il mistero. Il crimine e le avventure gli aveva elargito un nuovo adattamento alla vita civile, senza mai castrarlo con rigore o tediose convenzioni.

Gwendolyn ne approfittò, cercò di diminuire il controllo e, come una novella conoscenza, si concesse una solo domanda, diretta al medico, seduto su di un comodo sedile parallelo, rosso e ingombrante.

«Di che cosa volete parlare?» chiese con un po' d'entusiasmo.

John arricciò il labbro.

«Come?»

«C'è qualcosa che desiderate chiedermi?» rettificò la giovane.

Sfortunatamente, avevano davvero troppo poco tempo per comprimere tutte le possibili conversazioni appartenenti a delle tempistiche di fidanzamento che fossero quantomeno rispettabili. In poche ore sarebbe stato meglio cercare di scandagliare un poco dell'altro e, naturalmente, aiutare il tempo a filare via, dissolversi assieme alle ore giornaliere.

«O-Oh, no», John negò qualsiasi domanda, «n-no».

Il medico non aveva intenzione di porre quell'essere sotto interrogatorio. Conosceva tutto ciò che doveva sapere grazie al tante deduzioni di Sherlock, al quale era bastato poco per riuscire a conoscere ogni dettaglio dell'intera famiglia Blomst, comune quanto le tante altre.

«Ne siete sicuro? Non rimane molto tempo, quindi affrettatevi.»

Gwendolyn si mise a nudo emotivamente, piantando nell'uomo un seme di fiducia. "Se anche Mary fosse stata così" pensò l'altro, con ancora nel cuore le impronte delle cattive menzogne della precedente moglie.

«Non desidero chiedervi alcunché», John sfoderò solo una gentilezza disarmante, a tratti molto confortevole, «o...»

"O...", Gwendolyn accolse con gli occhioni, due interminabili pozzi imbevuti di sole e tanta innocenza, quell'accenno e, tirando le labbra rosse in un esternazione di supporto, rinfrancò con gentilezza il medico.

«Forse, solo una cosa, se mi è permesso» disse lui, rimarcando la fanciulla attraverso la sola vista. «Desidererei solo sapere un vostro pensiero, Miss Gwendolyn: cosa vi aspettate da queste promesse nuziali, conoscere i vostri progetti, o i vostro voleri, quantomeno...».

John lo sapeva, lui non sarebbe stato Sherlock, non avrebbe trattato un essere umano come un utensile, dissanguando sogni e più floride aspettative. No, lui avrebbe protetto quella donna, l'avrebbe tenuta con sé, come una figlioccia, e avrebbe goduto della sua amabile compagnia, senza mai offenderla o costringerla ad azioni indesiderate, o inopportune.

«Non è compito della sposa poter decidere, almeno non secondo un comune contratto matrimoniale, dottore», Gwendolyn si mise sulla difensiva, sbriciolando tutta l'audacia della sera addietro, senza però mai negare le tracce di una propria franchezza. Esisteva nel medico una cordialità disarmante, capace di saltare su di ogni protezione e far concepire alla giovane il garbo, o una maggiore compostezza.

«Vorrei solo non forzavi a ricadere in un possibile errore», ammise l'uomo, rivalutando l'impresa un'ennesima volta, così da tenere il controllo sul presente e sul futuro. «La sincerità è la solida base di un buon matrimonio... E vi confido di essere a conoscenza di ciò solo a causa delle mie precedenti esperienze, Miss», la lingua batté sul dente dolorante, su di un'unica dichiarazione, riemersa da un oblio temporaneo, da cui ogni triste ricordo si era lasciato travolgere.

La donna strabuzzò lo sguardo, o meglio, lo spalancò per solo un decimo di secondo. La notizia, improvvisa e inaspettata, sembrò schiaffeggiarla, e poi pugnalare a tradimento quella sensibile tranquillità recentemente ottenuta. Il buon John – a quanto pareva – aveva avuto moglie e non si era trattenuto nel rivelarlo con fare coscienzioso e maturo.

«Siete stato sposato?», Gwendolyn sembrò dispiaciuta.

John si rese conto di quella scelta azzardata, ma trattenere dentro le verità – cosa che aveva fatto Mary – sarebbe stato come rosicchiare le fondamenta di quella possibile novella unione.

«Sì, Miss» confermò il medico, «sono già stato sposato».

La fanciulla divenne impacciata, laconica.

«E-E... Quindi, siete un...»

«Vedovo, un vedovo» ripeté John con più decisione. Il turbamento lo sfiorò, minacciosamente, ma si preannunciò solo come la discesa in un oscuro abisso d'incognite. «Desiderate voi pormi delle domande?»

Tuttavia, lei si fece silenziosa, un umile pesciolino in uno stagno cristallino, debole e fragile quanto le alghe danzanti che lo blandivano.

«Non apprezzerei ricadere nell'indiscrezione, dottore.»

Il medico si sentì risucchiato in una trappola di ruote, quiete e trotto. La carrozza continuava imperterrita a condurli verso l'altare, ma le intenzioni sembravano essere smorzate da inesplorate verità, nate dalla fretta e dalla paura dettata dal dubbio. La giovane, ferita dalla rivelazione, abbassò il capo in segno di malinconia, inducendo Watson a credere a una possibile eventualità: lei non lo avrebbe più sposato.

«Seriamente? Non desiderate sapere altro?» domandò l'ex soldato, con tono mansueto, ridestando il volto della piccola creatura.

«Se Dio vorrà, avremmo molto tempo per conoscerci», Gwendolyn ribaltò ogni paura, sottolineando nuovamente la ribelle volontà di divenire Mrs. Watson, con tutta l'anima. «È solo che... Che... Mi duole venire a conoscenza della vostra terribile perdita, davvero».

"Era solo... Addolorata a causa della mia perdita".

«Siete molto comprensiva, Miss Gwendolyn.»

La porta del salotto si andò allora richiudendo, lasciando un detective in ombra, con gli occhi ridotti a sottili fessure e una mente che ancora gettava luce su realtà di così tale – cristallina – portata.

«Mi avete fatto chiamare, signor Holmes?» si preannunciò così la tuttofare, subendo su di sé lo sguardo distratto del padrone di casa.

Impegnato in uno dei suoi strambi momenti creativi, Sherlock Holmes maneggiava con innata maestria lo strumento musicale, le quali note soavi non cessarono di riecheggiare e incantare le orecchie della donna, neppure dopo l'intrusione di quest'ultima nel salotto. Il detective, proseguì imperterrito la complessa sonata, alternandovi momenti di calma a ben altri di incredibile frenesia. La giovane Annie non osò ripetersi né tanto meno avanzare di un passo, come se così facendo avrebbe rischiato di recidere quel filo invisibile, per mezzo del quale ogni nota nascente si susseguiva in tante crome concatenate.

Quel pomeriggio, le tende alle finestre erano state aperte così da permettere alla luce della sera imminente di filtrare dai vetri. Il signor Holmes, postura tesa e spalle alte, osservò fuori, al contempo offrì alla via, che s'affacciava all'esterno, della buona musica, cosicché qualunque passante, trovatosi a udire quei suoni, potesse apprezzare l'indiscussa bravura del violinista.

Il modo con cui le crine si posavano sulle corde delicate o il trasporto che l'intero corpo dimostrava nello strimpellare l'elegante Stradivari, lasciavano trasparire un'anima grande celante una dolcezza sconfinata. L'armatura d'insensibilità che Sherlock Holmes s'era da sempre ostinato a mostrare alla gente, non era altro, in quel momento, che un lontano miraggio. L'investigatore certamente non si preoccupò nemmeno se la giovane inserviente fosse lì, dietro di lui, a contemplarne le doti di bravo musicista, oltre che di un uomo capace di grande emotività. Era da sempre risaputo, dopotutto, che la musica fungesse da strumento, attraverso cui gli animi più appassionati svincolavano le apparenze più dure per dar sfogo a sentimenti nascosti. Il detective più famoso d'Inghilterra, da come acclarò Annie, non era da meno.

Quando infine lo spartito si dissolse con un graduale abbassamento di note vibranti, la melodia cessò di propagarsi per le mura, e violino e archetto furono separati da quella sorta di unione antecedente, simile a quella due amanti che si fossero trovati a sfiorare i propri corpi in una danza leggiadra, carica di passione, tra contatti dolcemente accennati e sfregamenti vigorosi. La coppia di oggetti venne dopo riposta via con maniacale premura da quelle stesse braccia che prima, con quanto ardore, li impugnavano con fermezza.

Come rinvenuto a galla da quel passatempo musicale di portata tanto coinvolgente – in cui mente e cuore parevano collaborare in un'unica entità –, Sherlock volse la sua persona all'attenzione della giovane, scrutandola dall'alto della ponderante altezza. Un atteggiamento remissivo, persino timoroso aveva fin da subito contraddistinto la timida tuttofare del 221 B, eppure Mr. Holmes non aveva mai mancato di scorgere in tale esile figurina qualcosa di poco più eclatante rispetto alla semplice fanciulla che era, dalle umili origini e dalle gote tonde – in quel momento esse furono macchiate da tracce di cenere.

La fanciulla ricordò la prima volta in cui, chiusa nel silenzio del suo semplice giaciglio – ovvero uno dei pochi disponibili tra quelli delimitati dalle due sole stanze adibite alla servitù,  un buco invalidato dalla condivisione con la russante cuoca, la signora Montgomery –, stette all'ascolto dello strumento, che a notte fonda proseguiva melodioso, incurante di intralciare il sonno di tutti i risiedenti nella casa, nonché di quelli dei numerosi vicini. Nel buio rischiarato dalla flebile luce di una candela, alla donna non era rimasto che lasciarsi cullare dai dolci suoni, con la complicità di lunghe ombre tremolanti, creatrici di immagini e di mondi fantastici, tutti scaturiti dalla mente di lei, continuamente affamata di storie e di sapere.

Non era tuttavia quello il caso di nutrire ulteriormente la fantasia, per via del contegno che Annie dovette imporsi davanti alla prestanza di Sherlock Holmes, il quale rasentava una certa nobiltà.

«Tazza di tè?», l'uomo parlò causando in Annie un sussulto che ne fece risvegliare la coscienza assopita, rimasta tutto il tempo ancorata alla bellezza delle note musicali fabbricate dal violino.

«Oh, certamente, Mr. Holmes! Ci vado subito», ella scattò sull'attenti, dedicandosi ai suoi doveri di brava serva.

Un sospiro di sollievo si levò dalla labbra carnose sopra cui s'allargò un sorrisino furbetto. In effetti, a quanto pareva, il piacente padrone di casa aveva gradito – e senza battere ciglio – lo stufato di anatra che Annie stessa, poche ore addietro, si era adoperata a cuocere. Fatto stava che, nel cruciale momento, atto all'insaporire la pietanza, il sale contenuto in un barattolo di latta fosse stato sostituito da zucchero finendo così per alterarne inesorabilmente il gusto. Ultimato il lavoro, la cuoca grassoccia, accortasi dell'errore, aveva condannato aspramente la povera Annie, ma sfortunatamente non c'era stato tempo per apportare modifiche al cucinato. Entrambe le donne, allora, non poterono far altro che sperare di non ricevere reclami dai due uomini della casa.

Il fatidico evento in casa Blomst non aveva certamente giovato alla sempre ben distratta tuttofare, il cui pensiero veniva contaminato dagli eventi suggestivi delle poche ore intercorse, tra una lettera intrisa di parole innamorate, la fuga di due anime ribelli, un tradimento perpetrato sotto lo stesso tetto di un uomo all'oscuro di tutto. Per quanto il suo cuore battesse gioioso, la mente rinfacciava il peccato.

L'inganno di cui la stessa Annie si era addossata, anche se solo a causa dell'incapacità di negare l'aiuto di semplice tramite, non rendeva la sua anima meno turpe di un qualsiasi altro crimine riguardanti le menzogne.

La fanciulla s'avviò verso l'uscita con quella morsa che le strinse inavvertitamente lo stomaco. Suo malgrado si sentì rincuorata della piccola distrazione offerta da Holmes nel dover preparare il tè, ma qualcosa andò storto, sviando quella sua piccola speranza.

«Non scomodatevi, prego» risuonò alle sue spalle la voce grave di Sherlock. «Mrs. Hudson vi ha preceduto. Ho insistito io stesso».

La giovane cameriera palesò sorpresa e sconcerto e, in seguito, seguì con gli occhi il detective, mentre egli  si dirigeva a passo sicuro verso il basso tavolino rotondeggiante che affiancava la poltrona del dottor Watson.  Annie, si chiese se quest'ultimo fosse ormai lontano abbastanza da non destare sospetti o lasciarsi dietro delle tracce.

«Accomodatevi, Miss.»

La giovane non seppe spiegare l'inaspettato senso di vertigine che la colse dal profondo delle viscere, per poi risalire su, fino alle tempie, così da crearle scompiglio persino alla radice dei capelli, già fulvi di natura. Il visino delicato e macchiato di fuliggine pulsava di calore allo stesso modo del suo cuore tamburellante. La mano lunga e flessuosa dell'uomo, intanto, invitava la donna a sedere di fianco al camino, nello specifico su di una delle due poltrone disposte frontalmente. Quella di John Watson, ovvero la più consunta e che ben s'andava diversificando da quella appartenente del detective, veniva indicata affinché la donna comprendesse la natura di quel muto ordine perentorio, camuffato a sua volta da banale atto di gentilezza.

Con il passo titubante, Annie non poté che sottostare, mantenendo un remissivo silenzio. Mai avrebbe contraddetto il suo giovane signore, nemmeno in un singolo istante.

"Attenta a quello che prometti, Annie", si contraddisse subito dopo, quando la comoda poltrona del medico ne accolse l'esile corpo, avviluppandolo tra i due morbidi braccioli e uno schienale alto – quello fu particolarmente ristoratore per le povere spalle della giovane, martoriata da mille fatiche casalinghe.

Proprio alla sua destra, le dita magre dell'uomo toccarono la bianca porcellana del servizio da tè, di cui solo allora si fece conscia la tuttofare. Il breve assolo e, dopo, quell'invito a sedere in poltrona alla pari di una qualsiasi damigella degna di una così pregevole cortesia, ne aveva intrappolato il raziocinio senza darle possibilità alcuna di guardare null'altro che non fosse l'affascinante violinista. Sherlock Holmes, nel frattempo, si dilettò a riempire dapprima una tazza, dedicando a essa una maniacale attenzione e, forse, anche maggiore abilità di una comune donna istruita al saper maneggiare un intero servizio.

I ruoli si erano ribaltati. Per la prima volta nella sua vita, Annie sentì meno il peso dell'umiltà e dell'oppressione dovuta a una classe sociale ritenuta inferiore rispetto a un qualsiasi cittadino rispettabile, di lucro e cognome. Ancora, la giovane orfanella non seppe spiegare l'ipnosi sotto il qual s'era vista nuovamente catturata così intensamente da non accorgersi della tazza, accoppiata al piattino, che il detective le premeva sotto il naso.

«Vi ringrazio, Signore» rispose la fanciulla alla gentile offerta, accogliendo la durezza della bella porcellana fra le dita impacciate. Mai prima di allora le era stato permesso un tale gratuito privilegio, poiché la servitù doveva servirsi di un servizio da tè decisamente meno pregiato, in quanto vecchio e scheggiato.

Con gli occhi riabbassati troppo in fretta, Annie concentrò la propria attenzione al caldo liquido ambrato, inspirando il buon aroma che risaliva in spirali danzanti di vapore. Il detective aveva, intanto, preso posto fra i braccioli della seconda poltrona, sprofondandovi appena con contegno quasi regale. L'eleganza strabordante nell'insieme e, con essa, una ricca dose di altezzosità, avrebbe attratto indubbiamente ogni donna che si trovasse vis a vis con il giovane. In vero, se solo in quel momento avesse osato incrociare i suoi occhi, Anna Bernardi non ne avrebbe sostenuto quell'apparenza indagatrice.

Se il sapore dolciastro dell'anatra incriminata fosse stata la causa di tanta farsa, un rimprovero ben assestato sarebbe stato sufficiente. Tuttavia, la faccenda sembrava andare ben oltre un solo piatto di carne mal condito.

L'imbarazzo si protrasse al limite della sopportazione, e l'aromatico tè nel frangente intiepidito sembrava divenire maggiormente scottante a ogni imbevuta della rossa tuttofare, che accoglieva in bocca qualche goccia con distrazione. L'intero ambiente pareva fatto di fuoco, o forse – e più verosimilmente –, era la donna ad ardere di oscure emozioni.

«L'impiego di cui vantate deve apparirvi quanto meno stimolante, considerata la vostra predilezione nel fare gitarelle fuori porta.»

Dinnanzi a tale constatazione, Annie sbroccò in un incontinente colpetto di tosse, causato dalla bevanda che le andò di traverso.

«Signore, no-non capisco» balbettò a tratti la ragazza, espellendo i pochi residui di liquido che ancora le raschiavano la gola.

Sherlock Holmes, dal suo canto, continuò indifferente, «oh, eppure le tracce di terriccio sul mio tappeto mi paiono incredibilmente eloquenti. Le stesse che portate al di sotto delle vostre suole».

La mente di Annie frenò la voglia di formulare parole a vantaggio di un unico pensiero più grande: la macchia incriminata. Il rosso tappeto dai neri ricami orientali, sopra cui poggiavano i suoi stessi piedi, presentava una tinta ormai scialba e consunta dai danni causati dagli anni e dalla polvere. La giovane, allora, si chiese quale tipo di impressione avrebbe fatto a un qualsivoglia cliente bisognoso di una consulenza investigativa. Di conseguenza,  si preoccupò di quale giudizio avrebbe ricevuto, in quanto servetta della casa. Sicuramente, avrebbe rischiato di apparire sotto una cattiva luce,  la responsabile di una sbagliata gestione dell'ambiente casalingo.

«Sono desolata, signore» si scusò a testa bassa a causa della vergogna, così preferendo, come più consona attrattiva, le punte delle sue scarpe sporgenti dall'orlo della veste, sollevata di qualche centimetro. «Vi prego di perdonare la mia incompetenza»,  un sussurro un po' rauco seguì quell'implorazione.

La fanciulla in cuor suo maledisse quell'innata mancanza di giudizio che l'aveva punita col finire additata come colei che imbrattava tappeti. Si diede inoltre della piccola stupida per via di quel senso di inadeguatezza che fin dalla più tenera età l'aveva accompagnata, facendone poi la stessa donna intenta ad arrossire dinnanzi a Sherlock Holmes. Era solo una ragazzina che sempre desiderava restare attaccata alla terra, alla sicurezza, nonostante un'innata propensione alle nuvole più bianche.

Il silenzio si fece carico di nuovi sospiri. Di certo, Annie aveva notato che quella mancata pulizia, avvenuta a causa delle suole, era stata giustamente data dalla carenza di tempo, lo stesso che le veniva sottratto dai doveri di un impiego asfissiante e faticoso. Purtroppo, quello era l'unico lavoro e lei doveva tenerselo stretto stretto.

«In che modo ritenete possa essere l'artefice di quelle macchie?», una focosa spinta di ribellione risalì tanto in fretta sotto comando di verità, inconfutabili neppure da uno dei più grandi detective di tutto il mondo. La tazzina di tè oscillò pericolosamente a quell'implacabile e coraggioso atto, offerto dal rialzare la rossa testa.

Per qualche strambo e indefinibile ragione, Sherlock Holmes ne restò almeno in parte colpito, ma ridivenne attento, come suo solito, nel ribattere.

«Suvvia, Miss Bernardi, delle macchie di fango non appaiono così per magia... A meno che, questa mattina, non ci sia stato qualcuno a fare in modo che ciò accadesse. Da incallito osservatore quale mi è concesso di essere, potrei giurare di aver visto i vostri stessi stivaletti calpestare il mio tappeto e lasciarne un'impronta ben marcata. Il tutto non prima di pranzo. La posizione da voi adottata mi permette di avere una chiara visuale della schiacciante prova.»

La giovane cameriera irrigidì la postura, avvertendo un'altra ondata di imbarazzo colpirla ulteriormente. Il gesto di eloquenza da parte di Holmes – ammiccante dinnanzi allo stato sedentario della donna – lasciava intendere che vi fosse precedentemente un piano a far da padrone a quell'invito accomodante, con tanto di tè e poltrona. Come da protocollo, del resto, come avrebbe potuto Mr. Holmes dare prova dell'ipotesi senza prima sollevare il lembo della lunga veste della miss? Invitarla a mettersi comoda non era stato niente se non un mero stratagemma utile ad accalappiare la fiducia della donna, affinché questa fosse incline a parlare.

«Lavandula angustifolia» pronunciò con certa enfasi il detective, articolando alla meglio ogni singola lettera.

«Lavanda officinale» tradusse la giovane con prontezza, proprio come un allievo preparato, desideroso di rivolgersi al maestro.

La piccola libreria appartenente a suo padre aveva dato i suoi frutti migliori. Sui quei scaffali, alle volte, era stato possibile trovare anche libri che non fossero solo romanzi d'appendice, e Annie ancora ne ricordava con nota nostalgica ogni singola disposizione di tomi. La risposta esatta della donna non mancò di far sorridere Sherlock Holmes, un sorriso nascente su di un angolo delle labbra serrate che, a onor del vero, nascondevano stupore e un sentimento di lode per una servetta tanto eccezionalmente arguta.

«Vogliate essere così emancipata come dimostrate, così da spiegarmi in che modo lo stesso fiore coltivato nei giardini di villa Blomst sia finito sotto le vostre suole.»

Il cuore di Annie pompò sangue due volte di più, ma quello stesso martellante muscolo parve ghiacciarsi fino a fermarsi del tutto. Le mani sudaticce non sostennero un solo secondo di più la liscia superficie di porcellana, che fu abbandonata alla prima occasione sul tavolino vicino. Contegno era tutto ciò a cui soleva pensare affinché il signor Holmes non vedesse la verità in quei suoi modi decisamente goffi e un po' ansiosi.

Con tutta la calma di cui fu capace, il visino di Annie scolpì su di sé una smorfia di finta incomprensione, mutandola in un'altra, quella tipica di chi viene colpito da un lampo di genio.

«Il vicino Regent's Park è molto bello, signore. Ci sono stata stamattina per una breve passeggiata» inventò così su due piedi la giovane, senza battere ciglio.

«Hmm ...» mugolò l'uomo che, posati piatto e tazzina, rimise in piedi la possente figura, sfidando a colpo d'occhi la presunta verità della miss.

«Suppongo abbiate fatto il tragitto a piedi» disse Sherlock pacatamente, iniziando a gironzolare in tondo per la stanza, mani dietro la schiena in atteggiamento concentrato.

«Bè, sì, a dire il vero» asserì la giovane.

«Molto bene. E immagino siate tornata qui appena in tempo per adempiere ai vostri numerosi doveri.»

«Come sempre, signor Holmes»

«No, permettetemi di contraddire il vostro alquanto onorevole tentativo di essere fedele al vostro padrone... Quale dei due mi è tenuto soltanto immaginarlo.»

La timida Annie tentò invano di contraddire il proprio datore di lavoro, ma nulla poté contro la fredda occhiataccia che quello le rivolse come a zittirla d'anticipo. Il silenzio ingabbiò così la gola della donna in una morsa.

«Il parco da voi maldestramente menzionato avrebbe innegabilmente previsto l'ausilio di una vettura di piazza, cosa indubbiamente avvenuta al fine di raggiungere un così tale luogo. Esso alcun dubbio, ha una distanza maggiore rispetto al più vicino High Park. Pessimo alibi, signorina. Suppongo la signora Hudson non possa confermalo.»

Un senso di sconforto attanagliò la tuttofare, consapevole oramai di aver errato d'ignoranza, a causa dell'ancora sconosciuta locazione dei vari parchi londinesi, assieme a tutte le altre più belle attrazioni. L'impiego e tutti i suoi doveri non prevedevano uscite in serena libertà, se non quelle annotate nell'unico giorno libero che le spettava. Tuttavia, sola e senza alcuna compagnia a farle da guida, non avrebbe certamente sperato di avventurarsi per le strade tortuose di Londra senza rischiare di imbattersi in tizi loschi e poco raccomandabili, in cerca di giovani donzelle da abbordare e Dio solo sapeva cos'altro.

Sherlock Holmes proseguì quella sorta di interrogatorio, puntando inquisitorio la donna messa alle strette.

«Le vostre assai eloquenti movenze spiegano perché il dottor Watson portasse su di sé delle tracce ben visibili di inchiostro, una lettera, io presumo»

«Come potete esserne convinto?»

«State forse mettendo in dubbio la mia capacità di giudicare i fatti?»

Annie si fece piccola piccola dinnanzi alla grande ombra scura che s'abbatté su di lei, assieme a quei due occhi cinici e duri come la pietra. Simile a un animale impaurito, la donna cercava conforto, sprofondando ancor più nella morbida poltrona, e desiderò al contempo che – per qualche miracolo divino – di divenire non più visibile alla vista di Holmes.

«Inviare una missiva di preannuncio indirizzata a sua sorella lo stesso giorno in cui decide di partire? No, nessuna premeditazione, la scelta di un viaggio ha comportato una certa fretta. Per quale ragione comporre una lettera pur sapendo che quella non sarebbe mai giunta prima dello stesso dottore? La lettera, Miss Bernardi, non era indirizzata ad alcuna Harriet Watson»

Il giovane detective aveva avuto modo di osservare scrupolosamente tutti i segni che avevano contraddistinto i modi di fare dell'ex medico militare, e lo fece con la stessa dedizione di un cacciatore che si ostina a braccare la preda dentro il bosco più fitto. Tralasciando l'insolito comportamento adottato dall'uomo all'obitorio e, in seguito, gli insoliti dettagli riguardanti l'inchiostro nero sulle dita e un profumo inconfondibile di violetta – lo stesso che il medico aveva spruzzato sulla carta da lettera, null'altro avrebbe fatto presagio al consulente una realtà così pregna di cattiveria, di subdole macchinazioni. Poteva aver dato per scontati quei segni? John Watson, l'uomo al quale avrebbe affidato la sua stessa vita, sarebbe stato l'artefice della rovina del suo matrimonio? Dio solo sapeva quanto odiasse non conoscere.

«Sono il vostro padrone. Parlate» ordinò lui in tono fermo, gonfiando il petto. Ciononostante, la voce baritonale rimase pacata. Non un solo grido traboccò dal padrone scorbutico.

«Temo di non potervi aiutare, signore», la rossa cameriera non pareva lasciarsi abbindolare, e preferì sfoggiare un'apparenza istrionica.

«Siete scaltra, devo ammetterlo, ma non abbastanza. Le vostre emozioni vi tradiscono continuamente. Vi rendono debole»

Tali ultime parole scalfirono – e non poco – la fragile anima della piccola orfanella, che avvertiva tutt'a un tratto il grave peso dell'intera situazione spingerla verso un desiderio irrefrenabile di arrendevolezza. Una forza più grande di lei la convinse irrimediabilmente a dire tutta la verità, senza mai indurla, però, a fare a meno di un ben assestato «Voi non la meritate!»

Non servì pronunciarsi oltre, poiché l'uomo dagli occhi di ghiaccio comprese ciò che vi era da capire. Rivolta alla donna un'occhiata severa, voltò le spalle, come a lasciarsi indietro anche ogni più recondita allusione racchiusa in tale semplice accusa.

«Chiamate una carrozza, bisogna partire al più presto» questo fu l'ultimo ordine impartito alla ribelle cameriera dai capelli color del fuoco.

Di conseguenza, Annie s'affrettò giù per le scale, scese poi in strada con molta furia, fermandosi sul ciglio della strada. La sua mente pareva non toccare un solo pensiero, ferma com'era ancora al momento di quel gesto così avventato nei confronti di uomo che, di lì a breve, avrebbe deciso di metterla alla porta, abbandonandola al proprio destino senza più un tetto sicuro sotto cui ripararsi.

In pochi minuti, Sherlock Holmes fu al suo fianco mentre la governante, la signora Hudson, fremeva per scoprire il motivo di tanta fretta.

«Ne va del mio lavoro. Vi è tenuto sapere solo questo» spiegò vagamente Holmes insieme a un'agitata tuttofare, intenta a ronzargli intorno con il fine di aiutarlo col cappotto – nel frangente indossato solo da una manica. L'occhiata torva che lui riservò alla giovane non nascose un certo fastidio e, difatti, scrollò di dosso la bianca manina, così da incamminarsi verso la lucida carrozza, che si era appostata lì davanti. Dei passettini echeggiarono spavaldi, e Sherlock assodò che quell'insulsa ragazzetta non avrebbe ceduto.

«Vengo con voi.»

«Voi non andate da nessuna parte.», contraddì invece Holmes sull'orlo di un esasperazione crescente oltre ogni limite. «ritenetevi responsabile di ogni futura conseguenza» sentenziò in seguito, riprendendo a sollevare un piede e accingendosi a immettersi nell'abitacolo del mezzo.

«Mi riterrò pienamente responsabile quando spifferirò ogni cosa a orecchio indiscreto»

Silenzio fu tutto ciò che ne seguì da parte di entrambi, quando ancora una volta la piccola bocca della curiosa inserviente si rivelò troppo larga. Un breve e fugace scambio di sguardi intercorse trai due e una dovuta decisione, inoltre, balenò nella testa del giovane detective.

«Salite... E badate di restarvene muta»

Un sorriso di pura soddisfazione illuminò il bel visino della vittoriosa tuttofare, la quale portò al viso un lembo del grembiule da lavoro, strofinandovi appena laddove la cenere ne aveva macchiato le guance rosate. Dunque, ancor più in fretta, raggiunse la cara Martha Hudson, porgendo l'indumento sfilato, le rivolse infine un cenno di radioso commiato e tornò dal suo padrone, così da partire alla volta di una meta tutta nuova da esplorare.

L'estate era imprevedibile, o semplicemente lo era l'Inghilterra. Londra era stata benedetta dal sole e dall'estate, stagione di coloriti frutti saporiti, tarde camminate nei parchi verdeggianti, di ozio – almeno per chi poteva vantare buone ricchezze – e di matrimonio. Il grano dorato ricopriva con le proprie spighe filiformi gli sterminati colli della nazione, pazientando l'incontro con lunghe giornate di raccolto. Il cielo, però, non sembrava voler mantenere quell'umore così stupendamente radioso.

Con il passare del ore, dopo un rapida sosta – utile ai viveri e qualsiasi umano bisogno – la notte era giunta in un solo istante, risucchiando via la luce e generando una leggera frescura, tutta manipolata dalle neonate correnti. La luna aveva cominciato a farsi divorare da fitte nubi, invalidando il percorso del cocchiere, pagato profumatamente per i suoi consueti servigi. Le ruote continuavano a traballare ritmicamente al trotto, e solcavano la terra umida, lasciando tracce, pronte a cantare sotto l'intelletto di Mr. Holmes.

John era stanco, stravolto da una così faticosa gitarella. Chiacchiere e belle conversazioni avevano alleviato la sofferenza di quell'interminabile tragitto, favorendo un primo contatto con l'adorabile consorte scelta. Gwendolyn – sedutasi dell'altra parte, dopo il breve ristoro a North Waltham – non aveva più retto alle palpebre pesanti e, vinta da un sonno indomabile, aveva fatto ciondolare la testa lungo la spalla del proprio salvatore. L'intimità, che era stata raggiunta dopo dialoghi e scambi d'opinione, non solo le aveva concesso di favorire un contatto con quell'uomo, ma anche di sfruttarlo come valido supporto con il solo fine di favorire un dolce dormire di sogni e serenità.

Il medico non riuscì a evitare l'accaduto e, al di là di un galateo non più rispettabile, la lasciò libera di assopirsi sul suo torace. Il solletico del respiro gli torturò dolcemente il collo, e ciuffi dorati gli si impigliarono nelle vesti, spargendosi come rivoli d'oro sciolto sul tessuto della scura giacca primaverile. Nessun movimento fu più possibile e l'uomo, nonostante i continui salti della carrozza – il mezzo più discreto per qualsiasi "fuga d'amore" – dovette stare immobile quanto un pilastro, così da non recare disturbo alla poveretta, stravolta dal tutto.

La New Forest, intanto, si distendeva lungo 566 chilometri quadrati, delimitando l'unico sentiero percorribile. Tronchi massicci e fronde si univano in un unico ammasso di piante, in un fitto labirinto di vegetazione altamente oscuro e terribilmente minaccioso dinnanzi agli occhi di coloro senza alcun senso dell'orientamento. Gli animali notturni – barbagianni, civette e chissà cos'altro –, gracchiavano litanie continue, come per favorire spauracchi negli sconosciuti; in aggiunta, lo zampettare di fulve volpi inglesi contaminava la quiete, accompagnandosi a scricchiolii e improvvisi fruscii di vaporose code contro l'erba alta, del tutto immersa nel nero più nero.

La notte sembrò docile, ma solo sino a un certo momento, quando uno strepitio continuo si allungò da dietro gli alberi, attirando l'occhio concentrato del possente destriero, che non solo si mostrò intimorito a causa dell'ambiente cupo e inospitale, ma persino a causa un sesto senso animale. John, intanto, rimase dentro la carrozza e, sempre immobile quanto un comune pezzo d'arredamento – un vero e proprio letto –, non si pose alcun problema nell'ignorare i tanti suoni selvatici di un'immensa landa di pece. Gwendolyn continua a mantenere la testa china, nonostante gli impacciati «Miss?» o i pavidi «Riposerete tra poco, Miss?». L'espressione sulla faccia bianca le era divenuta angelica, quasi a testimonianza di sogni gradevoli, mentre l'arco di cupido si era disteso in un sorriso appena sbozzato, sintomi di ottima placidità.

"Che cosa diavolo sto facendo?", il medico si diede mentalmente dello sciocco, per via di quell'impresa. Sherlock era rimasto solo al 221 B di Baker Street, come un cane ingannato dal fido collega, con la sola compagnia dell'inserviente e di Mrs. Hudson, donna troppo impegnata in inutili chiacchiere. L'angoscia delle circostanze riaffiorò, trasportando l'ex soldato a ragionamenti molto più concreti. Stava sposando una disgraziata senza un permesso, né una benedizione da parte del suocero, stava tradendo il migliore amico che potesse mai avere, e per cosa?

"Io cosa... Cosa...", un solo istantaneo botto servì a uccidergli le parole in testa, e non solo. L'uomo venne scosso dal riverbero di un suono violento, tale e quale a quello che lo aveva stravolto assieme a quel fatidico proiettile – lo stesso che, in Asia, gli ebbe lacerato la spalla, rendendolo inerme quando un larva, un verme sottomesso alla terra granulosa e al calpestio di suole spesse e piedi comandati dal terrore.

«Dottor Watson», una vocina ridestata dalla crudeltà di quella cacofonia, diede un segnale di vita. La fanciulla, notevolmente allibita dal fragore che l'aveva strappata al mondo onirico, sollevò il mento e, solo dopo un attenta codifica delle circostanze, si rese conto di essersi addormentata sull'uomo, abbattendo ogni senso del pudor proprio. Non si era nemmeno resa conto dell'accadimento, aveva ceduto al richiamo del sonno e, come un corpo senz'anima, si era accasciata come se fosse stata calamitata da una spinta elementare e irrefrenabile.

«Io...», Gwendolyn si sentì così impudica e temette che quell'increscioso fatto potesse averlo offeso, in un qualche modo. In vero, John sembrò stranito, molto a disagio, ma non a causa di una bazzecola così superficiale. C'era dell'altro, molto altro a giudicare dall'ultima sua azione, ovvero lo spostamento dell'intero braccio verso le bocca della donna, subito zittita da un palmo celere e tremolante.

"Che cosa sta succedendo?" pensò la giovane, inconsapevole di chissà quale fenomeno così strampalato. Il vento continuò a gemere, ma la carrozza si era fermata di scatto, assieme al nitrito impazzito del cavallo che, da animale sensibile, aveva reagito allo sparo con una lieve impennata, tutta rivolta alla luna, unica testimone in loco.

John fece segno di silenzio, lasciando che il proprio indice venisse sfiorato dalle labbra fini, e dopo intrufolò la mano nella giacca, proprio in una tasca interna posizionata nell'angolo più inferiore, dove teneva una piccola W. W. Greener, un'arma esile e molto tascabile, quasi invisibile dentro un indumento così coprente e spesso.

La fanciulla spalancò gli occhi e, dopo aver di nuovo la bocca libera, si lasciò scappare un viso intriso di sgomento. Non riusciva a comprende, tanto era il terrore che il suo cervello generava, soggiogandola a uno stato di confusione e impotenza. Il pericolo stava strisciando fuori dagli arbusti odorosi, eppure John Watson sembrava concentrato, come se abituato a un certo genere di stimoli e, tenendo stretto il proprio esiguo gioiellino, si fece paziente, in attesa di qualcuno, di colui che si celava dietro a quella inattesa intimidazione. Trascorsero solo una manciata di secondi e la pistola scattò, contro un'ombra sinistra molto vicina al piccolo finestrino incastrato nel legno. Il medico scattò in avanti, costringendo il braccio destro a uno scatto fulmineo e la mano sinistra alla tutela della giovane, costretta a soffocare un rantolo di paura. Purtroppo, altre tre figure, nate dal tenebre, circondarono il veicolo, ostentando la cannula di due fucili e di due Kongsberg scure, luccicanti per via del fioco bagliore lunare. Si trattava di quattro uomini, forzuti e dalle intenzioni tutt'altro che amichevoli e benigne.

«Fermi, o sparo!», disse uno degli sconosciuti.

Si chiamavano The Hampshire's Owls, i gufi dell'Hampshire, poiché operavano grazie alle tante facilitazioni delle ore notturne, così da riuscire a compiere le peggior categoria di misfatti. La fame e la scarsa devozione verso il logorante lavoro nelle fabbriche, o nei tanti campi del Regno Unito, li costringeva a sottomettersi al codice della malavita e a operare dietro le gang di celeberrime cittadine. Proprio come i Cheapside Sloggers – molto conosciuti nella zone del Birmingham –, quei dannati "gufi" si dilettavano in rapine violente, disturbi dell'ordine pubblico, omicidi e tanto altro ancora. Di sicuro avevano scelto i vicoli della foresta come nascondiglio, così da non incappare nella vista di un poliziotto occasionale, ma erano riusciti a scovare una più affascinante sorpresa, la grande occasione dopo continue lotte con armi improvvisate, furti poco profittevoli e fughe guidate dalla cieca disperazione.

Incrociare una carrozza londinese nell'unico sentiero in mezzo alla boscaglia, si era rivelato un miracolo; sparare al cocchiere era stato fattibile, così come sedare con le forti braccia il cavallo imbizzarrito; le vittime non furono difficile da fronteggiare, tanto erano inermi dinnanzi al forza di bruta di quattro individui, con le mani callose a causa degli interminabili combattimenti. Il valido privilegio della maggioranza permise alla banda, con solo poche mosse mal articolate, di riuscire a stroncare ogni movimento delle vittime con funi spesse e ispide, sempre esibendo la mira delle insensibili canne metalliche contro le teste.

Gwendolyn, sentì il freddo morso dell'arma sul collo, e subito dopo somatizzò quel gelo, espandendolo sin dentro le ossa. Ben presto si rese conto solo di star fronteggiando il più totale panico, sottomettendosi a all'inettitudine. Erano stati catturati come due lepri in una sessione di caccia, e solo Iddio conosceva la sorte dell'essere così vulnerabili dinnanzi agli affilati coltelli dei malfattori, loschi e predisposti a ogni crimine, con il fine di conquistare qualche scellino.

Erano in quattro, e molto differenti l'uno dall'altro per modi e costituzione corporea. Il capo banda, "Stabber" era alto, e forse sfiorava l'eccellente altezza di due metri, pur non potendo vantare un fisico statuario, tanto era scheletrico e ricurvo; "Baby Grin" era il più basso e, sicuramente, anche il più giovane a giudicare da due guance paffute e marchiate dalla falsa ingenuità di un viso ancora troppo acerbo per conoscere le tante scelte della malavita inglese. In ultimis, Freddie e Rundle erano due gemelli dalla folta chioma ondulata e fulva – le onde apparivano terribilmente smorte se al di sotto di un firmamento, così tendente a sfumature più cupe dell'appena consumato misfatto. Non era null'altro che un branco di pusillanime, guidato dall'amato tintinnio del denaro e dalla facilità delle tante scorciatoie dell'esistenza.

"Siamo in trappola", John non riuscì a far pulsare nemmeno un muscolo, tanto si era lasciato ingabbiare da un recente malanimo. L'impensabile era giunto così, come la pioggia dopo un tramonto rosso quanto il sangue fresco, e aveva disintegrato ogni migliore prospettiva, senza nemmeno lasciare l'ultimo barlume di speranza. Lasciare Baker Street mai era stato un errore così abnorme, dacché non solo si era lasciato attrarre da peccaminosi sotterfugi, ma non era nemmeno stato in grado di tutelare la salvezza di Miss Gwendolyn, inorridita quanto stravolta dallo scorrere implacabile delle sventure.

La donna era nelle stesse condizioni del secondo prigioniero, ritta ma frenata da un intreccio di corde spesse, utili a renderla ferma e a segarle i delicati polsi sottili di neve. L'aveva imbavagliata, così da non farle squarciare l'ugola con strilli, ma vana fu l'azione, poiché Gwendolyn non gridava, né mai lo aveva fatto durante la cattura. Il panico l'aveva come narcotizzata, resa la sciagurata martire di un destino inesorabile e anche troppo irruento.

Il medico si ritrovò a ricoprire il ruolo di Holmes – "se solo ci fosse anche lui!" –, a dedurre nuovamente, a riflettere sul quanto fosse inutile stroncare le grida di una giovane silenziosa, all'interno di una foresta deserta, dove nessuno sarebbe stato turbato dalla pietà di una disperata fanciulla in difficoltà. Il cervello però scattò, fece quel balzo in avanti e sradicò solo la cruda realtà. Le urla femminili non avrebbero aggradato i rapinatori, non durante l'esecuzione di quel preciso orrido reato.

«Cosa abbiamo qui?», Stabber passeggiò, dilettandosi nello scavare lo sporco via dalle unghie con la punta del proprio amato pugnale. Squadrò la piccola disgraziata, premendo le pupille vogliose sopra il fisico ancora asciutto, sul viso spaurito e contratto in una maschera di finta intrepidezza; chissà sino a quando l'avrebbe mantenuta? Sino alla violenza o solo sino alla morte? Il tempo gli avrebbe mai risposto?

«Una bella bambolina, un sacchetto di perle e una carrozza.»

Rundle, smanettando nella borsa della miss, fece scivolare via dal rame un bel filo di perle tonde e lisce. Dopodiché contrasse le gote lentigginose in una smorfia di pura estasi: erano riusciti a conquistare del denaro, un buon veicolo con cui scappare e, infine, anche un po' di divertimento; il tutto in una sola notte e con un sforzo alquanto minimo.

«Oh sì, lo vedo», Baby Grin sistemò il berretto sul testa, e parlò con la consueta voce squillante di un moccioso troppo cresciuto. Gli indumenti lerci e di taglia larga lo rendevano, in tutto e per tutto, un il tipico infante con ancora in bocca i denti da latte e il nauseabondo retrogusto dello scotch di ultima qualità, proprio quello dei pub fatiscenti, delle baracche ai margini delle squallide strade di periferia.

«E infine?», Stabber fece scivolare gli stivali sozzi sul terreno, così da raggiungere l'unico ostaggio maschile. Il volto un poco avvizzito di Watson si fece increspato a causa di microscopia mimica facciale, sfoderata per mezzo della collera che gli stava corrodendo cuore e membra. «Chi sei tu?»

L'ex soldato si ritrovò alquanto invalidato, dacché le mani serrate e la bocca occlusa da un fazzoletto maleodorante – e pregno di saliva – non gli davano alcuna possibilità di sfogo. Poté solo rispondere all'interrogativo, una volta libero dallo straccio tra i denti.

«Dottor John Watson» rivelò dopo un paio di respiri, senza colorare la voce di troppo entusiasmo o ira. La neutralità avrebbe illuso i nemici, convinti di una migliore superiorità sia nell'ambito numerico che in quello prettamente fisico.

«Oh, un medico», fece Freddy, schernendolo.

Se solo avesse avuto l'occasione, John lo avrebbe fatto rimpiangere di ogni vocabolo sprezzante. Sarebbe solo bastato un pugno ben assestato, o un colpo dritto alla punta delle scarpe, per intimorirlo efficientemente.

«Non solo un medico.»

Scabber si tramutò nel gatto prima dell'attacco, così da poter trastullarsi con la vittima, comunicare e conoscere meglio l'uomo a cui stava per togliere la vita, cogliere l'umanità in ciò che avrebbe trasformato in un cadavere, al di sotto del vento vegliante e della nubi irrequiete.

«E cos'altro?»

Il medico si dedicò alla millantatura.

«Sono uno scrittore.»

Il capo soffocò il risolino, inducendo nei compagni un effetto a specchio. Ogni componente della pericolosa gang emulò il riso di Stabber, producendo un eco e rafforzando quell'ego che tanto a loro apparteneva.

«Uno scrittore», Rundle fu sornione. «E di cosa scrivete, dottore?»

John avrebbe molto voluto confessare la verità, sbrigliare il cane rabbioso e incutere in quei miserabili vergogna e spavento, a suon di scazzottate e insulti. D'altronde aveva avuto a che vedere con ogni genere di criminale.

«Delle mie giornate, principalmente», tuttavia continuò a giocare.

«Non so cosa un medico possa passare, ma dubito tu che vivrai così a lungo da poter narrare questa... Inconsueta esperienza», così parlò lo spilungone, forzando la dentatura a un ghigno carico di appagamento. Il compiacimento dell'atto malavitoso lo fece sentire come un piccolo sovrano, il cui principale compito era imporre l'ultima sentenza sulla sorte dei malcapitati, insetti da schiacciare senza alcun indugio.

«Dobbiamo sbrigarci, è inutile perdere del tempo» disse Baby Grin e l'intero gruppo subito lanciò l'attenzione su di Gwendolyn, imbavagliata, con gli occhi spenti e con il seno che danzava al ritmo degli ansimi. La disperazione le aveva prosciugato ogni determinazione, condannandole gambe, braccia e spalle a una odiosa gracilità.

John sentì il fuoco corrodergli le vene, pulsare dentro la testa, scatola di null'altro che cieca ferocia. Quei dileguanti la stavano già violando con lo sguardo, privandola dell'innocenza e derubandola del più prezioso bene scontabile in una nubile fanciulla. Eppure lui non poté fare molto per rimediare all'offesa e ridarle ogni onore.

«Ora tu e il dottore venite con noi», Freddie prese Gwendolyn per un braccio, e la trascinò lontano dal sentiero, nelle strette budella di quella selva buia, senza lasciarle nemmeno il tempo di dimenare il collo rigido. Ella, in quel frangente, senti solo i piedi strusciare prima al di sopra del terreno e successivamente sul tappeto di erba e licheni. Non parve comandata dalla scattosa dinamicità di un istinto di sopravvivenza e, lanciato uno sguardo languido al proprio medico, un delicato "mi dispiace", si fece condurre come una bestiola da macello verso il patibolo. Stabber, difatti, non desiderava altro che sfogare ogni propria sconsiderata frustrazione sull'anima della giovane, e lasciare il resto agli altri avvoltoi. L'avrebbero presto mangiata senza lacuna misericordia, fino a renderla carne senza più vita, un guscio vuoto.

John, di nuovo impastoiato dal bavaglio, non riuscì a trattenere il mugolo e così ridestò i volti dei carnefici, ricoprendosi di altra attenzione. Loro, ignorandolo spudoratamente, lo condussero assieme alla donna accanto a un angolo di sole conifere, giacché non trovavano in lui, minuto e visibilmente non aitante, una minaccia tangibile. Tuttavia, caddero in un incorreggibile errore: gli occhi serrati dell'ex soldato racchiudevano non solo l'ira, ma anche una scintilla viva e balenante, intenta a precedere l'azione, lesta e decisiva.

«Oh, è preoccupato per la fanciulla» Freddie, si avvicinò alla vittima, a cui poca era l'importanza data e, serrando la bocca secca e disidratata, spifferò frasi spicciole, quasi degne di un comune copione teatrale. «Non c'è molto che uno come te possa fare, non hai alcuna fottuta possibilità contro tutti noi. Lo sai questo, no?»

Gli occhi di John si resero due fessure ricolme di puro odio, mentre la lingua sussurrò un ringhio crescente, ovattato dal tessuto madido.

«È un vero peccato, non è così», Freddy tirò fuori la pistola e la puntò a pochi centimetri dalla fronte del medico, senza mai incontrare un fremito. Doveva sbarazzarsi di quell'uomo, ma senza lasciare il corpo in un sentiero, doveva ucciderlo assieme a lei, lontano, in mezzo ai prati invasi dall'erica. «L'attimo prima sei tranquillo nella tua bella carrozza, e quello dopo ti ritrovi a terra, o a marcire tra le radici di questa merda di foresta. È la vita, purtroppo... Ed è sempre imprevedibile.»

John deglutì, ma non si oppose. Lasciò le cose scorrere, sino al giusto momento, che non tardò affatto. Bastò solo il riflesso luccicante dell'arma a far crollare completamente Miss Gwendolyn, condotta al di sotto di una abete con spintoni. Stabber sembrò impaziente e – dopo aver lasciato Baby Grin e Rundle a sorvegliare la carrozza – si rivelò bramoso di carne fresca e pelle vellutata. Volle a tutti i costi aggrapparsi ai fianchi della donna, schiodando le dita da un punto all'altro della complessa veste, in cerca di un orlo da allargare o di un laccetto da recidere.

La giovane, ciononostante, si fece all'improvviso più combattiva e s'agitò come libellula, cercando di evitare ogni singolo viscido tocco da parte del carnefice. Fu un mugugno particolarmente vigoroso – dovuto alla vista del dottor Watson in pericolo – a distrarre Freddie, il quale sorreggeva in mano sia il fucile del capo che il proprio. L'istante fu rapido, ma John lo sfruttò senza alcuna procrastinazione. Velocemente, unì gli avambracci, con i gomiti colpì sul viso il malfattore e, in seguito, conoscendo le nuove mode criminali, riuscì a mozzare le funi sbattendole contro la visiera di Freddy, così da prendere possesso delle due armi. Ogni gesto fu celere e non diede nemmeno i secondi a Stabber di riuscire a controbattere. Quest'ultimo, difatti, si ritrovò al di sotto della minaccia dell'ex militare, che lo puntò con il fucile con la stessa foga di un cacciatore affamato. Il delinquente, oramai inerme e completamente disarmato, dimenticò la povera fanciulla e alzò le mani in segno di resa.

«Hey...»

John continuò a tenere salda la mira.

«Un consiglio, sempre legare i polsi dietro alla schiena» scherzò in modo arcigno, rivelando le conoscenze elementari del campo militare. «Portalo con te, o mi toccherà provvedere» comandò, riferendosi al brutto ceffo dalla chioma rossa, privo di sensi e con un mascella tumefatta dalla doppia gomitata. Non voleva ucciderli, voleva solo allontanati dalla donna e lasciare le preziose taglie sulle loro teste alla polizia locale.

Il capo annuì e, tramutatosi nella propri ombra più becera, trascinò il proprio collega tra le vie della foresta, con la stessa poca dignità di una iena intenta a trasportare una orrida carcassa, un pasto immeritato.

«Lascia il cappello», John si fece di nuovo minaccioso.

E Stabber tolse il copricapo a Freddie, così da poter finalmente raggiungere l'allegra combriccola e filare via, lontano dalla furia assassina dell'ex militare, divenuto una vera e propria macchina da guerra. Il vento, nel mentre, continuò a soffiare contro i rami, provocando un fruscio continuo, snervante. Gwendolyn era ancora legata e con le labbra serrate attraverso un nodo di stoffa, in attesa della liberazione.

«Miss Gwendolyn», John buttò il fucile a terra e, conquistato il berretto del criminale, si avvicinò alla fanciulla, con fare apprensivo. Lei era emaciata, ancora più pallida e con le guance rigate dalle meste carezze del sale. «Li chiamano Peaky Blinders [1], vivono a Birmingham e nascondo lame sopra la visiera dei capelli, così da poter tagliare le fronti dei nemici e accecarli col sangue. È molto usuale questa nuova forma di violenza nelle nuove bande, purtroppo».

Il medico cercò di raccontare la storiella a mo' di fattarello, così da sedare l'animo della donna, incorsa in una situazione di vera agonia. Nel frattempo squarciò con le mani il tessuto del cappello, liberando la lama prima nascosta al di sopra del visiera. Liberò la disgraziata che, dopo essersi vista alla mercé di stupratori e, soprattutto, dopo aver osservato la fronte del proprio promesso sposo accanto dalla buco di un'arma, si sentì a pezzi, come un utensile rotto e mai più utilizzabile.

John non riuscì a non connettere il proprio umore a quello della triste Gwendolyn, un fantasma nel buio di una notte sventurata, e avvertì il dovere di rimediare, in modo da ricostruire fiducia nella donna. Bastò solo un accorgimento, un cipiglio comprensivo e l'accenno di un sorriso al di sotto dei baffi a scaldare il cuore della pulzella che, in un impeto di affetto, si gettò contro le braccia del protettore, affondando il nasino candido contro il petto e placando i singhiozzi contro le altrui vesti.

«Miss...», il galateo non aveva alcuna validità, non più almeno.

L'ex soldato, fronte imperlata dal sudore fresco, si ritrovò con addosso il peso della giovane e riuscì ad abbandonare tutta la precedente vergogna. Lisciò la criniera bionda – non più raccolta in una crocchia dopo l'infausto evento –, sorprendendosi del come fosse così folta lunga e robusta [2]. L'oro liquefatto scendeva giù, appoggiandosi a tutta la schiena e creando un Niagara di boccoli ribelli, ancora intrisi dei tipici oli profumati che le donne usavano usualmente.

«È finita», John con le dita le portò le ciocche dietro alla spalla e le stroncò ogni goccia intenta a penzolare dalle ciglia. Il cuori gli s'intenerì d'un tratto, nel vederla aggrappata al proprio busto come un cucciolo bisognoso, in cerca di protezione nel bel mezzo di epoca troppo crudele e maligna. Toccava proprio a lui, ancora indeciso su da farsi, mantenere la promessa e dedicare tutte le cure, ogni singolo atto d'amore e tutto il resto alla piccola donna, tutelandola nelle avversità del nuovo secolo.

«Dottor Watson?» farfugliò lei, con il viso arrossato.

«Sì, Miss Gwendolyn.»

Solo una pausa giunse, una leggera pausa carica di tensione.

«Hanno preso la carrozza.»


Precisazioni.

[1] I Peaky Blinders furono una gang  attiva a Birmingham nel XIX  e XX secolo. La prima apparizione del nome Peaky Blinders in quanto gruppo criminale data del 23 marzo 1890, quando a seguito di un alterco con la banda di ragazzi in un pub, il gruppo capeggiato da Thomas Mucklow assalta violentemente George Eastood, un abitante di Small Heath. Eastood viene gravemente ferito alla testa e dovrà subire un'operazione di trapanazione; nella stampa locale viene pubblicata il 9 aprile la lettera di un lettore che parla di un "assalto omicida" perpetrato dai membri dei "Peaky Blinders di Small Heath". Nascondevano le lame nelle visiera dei cappelli, così da poter accecare i nemici. Da allora le attività criminose della gang dei Peaky Blinders si sono moltiplicate. Vengono segnalati per ogni sorta di attività illecita, dai disturbi dell'ordine pubblico al furto violento. La banda era nota per l'eccessiva aggressività e per l'uso ricorrente di armi improvvisate come forchette, coltelli o attizzatoi.

[2] Noi abbiamo visto come il capello femminile, durante il periodo vittoriano, si allunghi a dismisura. Spesso le donne non li tagliavano mai, se non in caso di malattia, e lasciavano che crescessero liberamente.

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