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PALERMO, alcuni anni fa.

Anna aveva la pelle ambrata come la resina cotta al sole e un manto di fili corvini e lucenti a picco su una schiena esile. Ma quando ti guardava era un colpo duro e assestato per incenerire: gli occhi erano chiari come l'acqua di fonte e non c'entravano niente col resto, con la pelle cotta, coi capelli pece. Erano occhi rubati all'azzurro puro mescolato da Michelangelo per i cieli divini; occhi rubati apposta per trasformare in polvere chiunque si attardasse a fissarli. E infatti a Palermo, e pure al ginnasio, nessuno le rivolgeva la parola e né l'occhiata. Perché Anna, in verità, era la figlia di qualcuno che in città era conosciuto e temuto e che non si poteva nominare.

Al liceo ginnasio Meli, ci andava pure Lorenzo. Da qualche tempo gli amici avevano smesso di chiamarlo il romano, perché aveva imparato il dialetto e si era deciso a pronunciare qualche parola, di tanto in tanto, per non sentirsi più lo straniero in terra straniera. Ora era il Santo, quello che aiutava i deboli a difendersi dai prepotenti. Ma da certi tipi stava lontano pure lui, perché non erano solo prepotenti, erano pure pericolosi.

Anna l'aveva vista la prima volta a dodici anni. Lei abitava con una zia nel palazzone giallo di nuova costruzione davanti a quello sverniciato e più vecchio in cui vivevano i nonni materni di Lorenzo. Ogni giorno le camminava dietro lungo via Salvatore Aldisio. A una distanza di sicurezza, diceva, per evitare di sembrare uno che pedina, che lì - quelli che pedinano - non avevano mai buone intenzioni.

Le strade di Palermo erano righe d'inchiostro in movimento che scrivono di colpe e di peccati che si doveva far finta di non vedere camminando con gli occhi al pavimento. E un giorno, all'uscita di scuola, aveva affrettato il passo perché Anna andava più veloce di tutte le altre volte.

Il suo amico Salvatore gli stava accanto pure nella corsa ma con poca voglia.

«Salvo, secondo te lo sa che la inseguo?», gli aveva chiesto tirando falcate lunghe e col fiato nella frase.

Salvatore aveva scrollato le spalle, «E chi ni so iu».

Poi s'era sentita una lunga frenata giù per la via.

Gli pneumatici di un'auto scura e di grossa cilindrata avevano graffiato l'asfalto e rallentato a pochi passi dal portone di Anna e lei ci stava davanti ferma e pallida.

S'erano fermati tutti a guardare una scena che era durata un attimo, nemmeno il tempo di metterla a fuoco: l'auto aveva scaricato un corpo per terra, e quello aveva rotolato e si era fermato ai piedi di Anna. Poi con uno stridio terribile la berlina aveva accelerato ed era corsa via.

Lorenzo aveva avuto l'istinto di correre da lei, ma Salvatore con una mossa fulminea l'aveva trattenuto tirandolo per lo zaino appeso in spalla. Toccarla, avvicinarla, non era una cosa che si potesse fare.

La strada era diventata una linea di confine non scritto. Da un lato gli studenti increduli e quelli che facevano finta di niente; in mezzo il corpo supino e immobile; dall'altro lato davanti al portone, lei, Anna. Sola. Rigida, impaurita. Con un corpo morto ai piedi. Un fantoccio imbottito di paglia e con i vestiti da impiegato. Un avvertimento, forse. Rivolto al padre di lei, forse.

Lorenzo lo sentiva il suo spavento, lo provava pure lui. Avrebbe voluto abbracciarla.

E per la prima volta, mentre la gente vociava e le sirene arrivavano in lontananza e si facevano sempre più acute, Anna aveva alzato lo sguardo di cristallo e lo aveva indirizzato verso di lui.

Lo aveva osservato come si fa con le cose che non puoi prendere, perché non sono tue e mai lo saranno.


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