15 luglio 1676 pt. 5

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Ferraris abbassò cautamente la maniglia e sbirciò dentro: l'accordo era che allo scoccare delle due ci si preparasse a lasciare il paese approfittando della baraonda della festa, ma il marchese non era tornato né aveva dato notizie. Sul momento, la prima osservazione non gli suscitò sospetti: tutto, eccetto alcuni panni abbandonati su una seggiola, era in ordine; non c'era traccia di piatti, tovaglie, niente, insomma, che lo autorizzasse a credere che Ottavio e Galatea si fossero trattenuti a lungo nella stanza.

Entrando a passi felpati, rimuginò sulla possibilità che, colti dalla fame, avessero deciso di pranzare tra le bancarelle della piazza; o che, terminato un rapido pranzo, avessero preferito parlare a quattr'occhi fuori di casa, in un luogo più confortevole. Tuttavia, un sopralluogo più accurato non avrebbe guastato. Giovannino si affacciò sull'uscio con Ludovica per mano: la curiosità brillava negli occhi di tutt'e due, perciò non attesero nessun permesso per farsi avanti nella cucina, dove, oltretutto, speravano di trovare qualche altro boccone. In una rapida corsa, infatti, si precipitarono alla credenza e il ragazzino, alto e svelto, afferrò sicuro un'anta e la spalancò, ravanando con la mano libera alla ricerca di un dolcetto. Trasse un piccolo involto di stoffa che conteneva i biscotti avanzati dal giorno prima. Ludovica batté le mani, pregando di averne subito uno. Ma, in quel preciso istante, Ferraris troncò il loro entusiasmo rivolgendosi a Giovannino con voce secca e agitata: «Fuori, bambini! Uscite immediatamente!»

Obbedirono in un batter d'occhio, senza lasciare indietro il prezioso involto di leccornie. Ferraris, dal pianerottolo, raccomandò di essere prudenti e di non allontanarsi troppo e ribadì che, fino a suo diverso parere, non sarebbero dovuti tornare in casa. Serrata bene la porta, tornò alla seggiola per assicurarsi di aver visto bene: sollevò dalla seduta quel che sembrava essere una lunga gonna, quindi, chinatosi, notò sotto il tavolo una sottoveste di lino così fine da lasciare intravedere la mano oltre la stoffa. Si guardò intorno smanioso di trovare qualche sorta di indumento maschile, ma desistette in fretta, disposto ad accertarsi della reale situazione con una buona dose di sana impertinenza. Si diresse alla cameretta attento a non far rumore, poi, una volta giunto alla porta chiusa, vi appoggiò l'orecchio sinistro trattenendo il respiro. Nulla, non un suono, non un'eco di bisbigli. Si staccò con una lieve sbuffata, poi si abbassò per sbirciare dalla serratura: anche da quel punto di vista, in verità molto limitato, non poté scorgere nulla di anomalo. Cominciò a dubitare che i due fossero rintanati lì e, benché i vestiti di Galatea abbandonati in cucina gli sembrassero un indizio fin troppo chiaro di ciò che era accaduto, prese a considerare ipotesi meno scontate e, via via, sempre più cupe: se fosse intervenuto qualche incidente, qualche intromissione sgradita o peggio pericolosa?

Istintivamente, brandì la maniglia e la abbassò, ma non spinse l'uscio; non subito, per lo meno. Prima di farlo, inspirò un paio di volte, tese l'udito, si preparò a qualsiasi evenienza. Solo allora scostò un poco la porta, quel tanto che gli avrebbe permesso la piena visuale sul letto.

Dormivano placidamente, coperti solo dal lenzuolo che, quasi di fretta, si erano gettati addosso; e si stringevano l'uno all'altra, tenendosi così vicini da rendere impossibile distinguere i due corpi sotto il velo bianco.

Ferraris, da parte sua, avrebbe dovuto accontentarsi di saperli al sicuro e, soprattutto, rappacificati, e con che bel trattato di pace! Eppure sentì l'irrefrenabile impulso di avvicinarsi e, semplicemente, lo fece, portandosi al capezzale di Ottavio che, ignaro di tutto, si riposava della recente fatica. I loro visi – poiché ripose grande attenzione nell'osservarli – erano trasfigurati da una profonda gioia fino a dare l'impressione di brillare. Galatea era accoccolata come una gattina in seno a suo marito, cinta dal suo braccio la cui mano stringeva ancora il lembo del lenzuolo; Ottavio, invece, indugiava con il viso sulla spalla di lei, come se fosse sul punto di scoccare un bacio sulla sua guancia. I loro respiri erano regolari e così lievi da essere a malapena udibili.

Ferraris, scrutando in silenzio la giovane coppia ritrovata, non poté esimersi dal provare una punta di invidia. Si diede del vecchio, sbuffando ancora di stizza, del vecchio scorbutico e bilioso che, giunto alla terza età dell'essere umano, si rode le viscere all'idea di essersi lasciato indietro un tesoro irrecuperabile. Era passato per lui – così si diceva – il tempo del matrimonio; era passato in sordina, mentre gli sembrava di aggirare furbamente un impiccio che a stento avrebbe rimpianto. E ora, davanti al quadretto amoroso, rimpiangeva l'intimità che matura più facilmente con la frequentazione assidua. Erano parole sue, e nemmeno tanto antiche, quelle per cui non si sarebbe sposato mai, non essendo fatto della pasta conveniente al marito fedele. Già allora, però, era scettico di ciò che diceva; sedurre, possedere numerose donne, tutte o quasi già avvezze alla sensualità e non per merito suo, non gli dava lo stesso appagamento degli anni della giovinezza scapigliata. Forse non aveva più bisogno di scappare da un legame. Forse, invece, quel legame gli avrebbe oltremodo giovato. Tardi, ormai, per scoprirlo: la sua condanna era scritta nella sua reputazione di donnaiolo e difficilmente, arrivato a trentacinque anni, se la sarebbe scrollata di dosso. Sarebbe stato seccante cedere alle condizioni dei bigotti dopo una vita passata a rompere le convenzioni e a riderne di gusto; sarebbe stata una sconfitta amara e gli avrebbe provocato sicuri bruciori di stomaco.

«Mi duole disturbarvi in un così piacevole frangente», esordì, scuotendo la spalla di Ottavio. Questi, corrugando la fronte e lamentandosi ad occhi ancora chiusi, si rannicchiò attorno a Galatea; lei, che aveva risentito dello scossone, batté più volte le palpebre e guardò in su, soffocando subito un'esclamazione di trasalimento. Il marchese si ostinava a dormire, stringendo a sé la moglie con gelosia, mentre Galatea, rossa di pudore, arraffò il lenzuolo per coprirsi tutta; Ferraris, come indifferente, scosse nuovamente Ottavio e gli sentì dire, benché solo borbottata, un'imprecazione.

«Vostra Altezza, devo rammentarvi che siamo attesi a corte da vostro fratello e, qualora non partissimo entro un quarto d'ora, non riusciremo a raggiungere la capitale prima che faccia buio...» replicò con un tono assolutamente apatico.

Ottavio, questa volta, si distese sulla schiena a petto scoperto, le braccia larghe e l'espressione ancora piuttosto intontita. Gli ci volle qualche secondo a realizzare in che situazione si trovasse e chi fosse il disturbatore, ma passati questi balzò seduto sul materasso e rimase senza parole.

«Sono passate le due di pomeriggio, Altezza... Avrete le migliori occasioni, una volta fatto ritorno a palazzo.»

«Sempre sperando che non sia frequentato da molestatori pari vostri, signore», ribatté brontolando. Si alzò in piedi senza nessun timore di mostrarsi nudo e raccattò dal pavimento i propri vestiti, sbrigandosi ad indossarli da solo. Quando ebbe addosso camicia e pantaloni, prese Ferraris per il braccio e lo condusse con sé in cucina, quindi, dopo aver riportato gli indumenti a Galatea, volle conoscere i dettagli dell'arresto di Antonio Pertica.

«Negri mi ha notificato il buon esito della spedizione. Ora si trovano nel quartiere abbandonato e aspettano la vostra autorizzazione per scortare il prigioniero fino a San Giulio.»

«Lo facciano. Raccomando la massima cura nella custodia: siamo vicini al confine e non voglio che quei tre farabutti riescano a evadere e trovare rifugio all'estero.»

«Sarà fatto. Non appena usciremo mi recherò personalmente a riferire il messaggio.»

Ottavio, dopo un'occhiata spietata all'uomo che gli stava davanti, piegò un sopracciglio e insinuò: «Da quando avete assunto questo atteggiamento? Lasciatevi dire che siete indisponente, e non poco!»

Ferraris, in tutta risposta, gli volse la schiena e parlò piano, con voce sommessa e asciutta: «La farsa è finita e non intendo cercare in voi la confidenza che avete tutto il diritto di negarmi. Sono sinceramente dispiaciuto di aver sedotto vostra moglie, perciò vi sarò grato se accetterete le mie scuse e, in seguito, pregherete vostro fratello di sollevarmi dai miei incarichi, cosicché io possa partire».

«Partire?! E dove vorreste andare?»

«Altrove, non ho ancora pensato a dove.»

«Questo mi fa sospettare che la vostra non sia una decisione sufficientemente meditata. Quanto all'adulterio...» e Ottavio dovette prendere un respiro, prima di continuare. «Quanto all'adulterio, io vi perdono, che è più dell'accettare delle scuse. Vi perdono perché, per quanto il vostro agire mi abbia ferito, mi sono reso conto di non essermi comportato meglio di voi in numerose circostanze. Ho detto le stesse cose a mia moglie; e come avete visto, la vostra strategia ha funzionato.»

«Il prezzo che avete dovuto pagare è troppo alto, signore. E per quanto la vostra anima sia ben disposta nei miei confronti, temo che in futuro i vostri comprensibili rancori possano risvegliarsi. Oppure, e questo sarebbe peggio, potrebbero risvegliarsi sentimenti peccaminosi in me o in vostra moglie. Siamo esseri umani, siamo fatti di carne e, come sapete, la carne è debole.»

«La carne è debole se la volontà è debole; non dimenticate che l'uomo è tutt'uno e ogni sua componente deve collaborare. Come dicevate voi? Un meccanismo complesso, che ha bisogno di tutti i propri ingranaggi per funzionare. State pur certo che, finché la vostra volontà vorrà cedere, la carne cederà.»

Ferraris, vedendosi braccato dagli argomenti dell'altro, e trovando la cosa immensamente molesta, controbatté con un'arma tagliente nella speranza di chiudere un discorso tanto spinoso: «Credete davvero a ciò che dite? In tutta sincerità, non mi rivolgerei in questi termini all'uomo che ha violato l'onore di mia moglie.»

Il colpo affondò dritto nella sensibilità di Ottavio, che accusò la fitta del tradimento cruda come la prima volta; il suo viso avvampò come una fiamma, si irrigidì d'un tratto. E Galatea, affacciandosi non vista dalla soglia della camera, temette di dover intervenire a sedare una nuova rissa. Il marchese, invece, si passò una mano sul volto e deglutì. «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra», disse in tono sentenzioso.

«Un giorno mi avete chiesto se foste bigotto e ingenuo; ora vi rispondo di sì, lo siete fino al midollo! D'un bigottismo paradossale, che vi riempie la bocca di citazioni sacre e intanto vi benda gli occhi!»

Ottavio, in evidente disagio, riuscì a mantenere la calma e, con ironia, sdrammatizzò: «Mi fate un complimento, perché si dà il caso che anche la Giustizia sia rappresentata bendata».

Ferraris, esasperato, gli rinfacciò ancora: «Ammettete l'accaduto: non ostinatevi a fare il santo in ogni situazione, smettete di recitare la parte della vittima di buon cuore. Ho posseduto vostra moglie e, se volessi, lo rifarei!»

«Ne siete sicuro?»

Sentendosi alla stregua di una volpe sul far dell'autunno, Ferraris strinse i denti ed espirò corrugando la fronte, senza rispondere. Ottavio, vedendolo in difficoltà, lo incalzò: «Se foste davvero l'uomo meschino che volete sembrare e se davvero desiderate mia moglie, perché me l'avete confessato?»

«Per dimostrarvi che agisco per il vostro bene allontanandomi da voi.»

«Io non vi permetterò di allontanarvi: di che cosa avete paura? Perché è evidente che avete paura...»

«Non assecondarla, Alessandro.»

I due uomini ristettero, colti alla sprovvista dalla voce femminile che si era intromessa nel loro discorso. Volsero i loro sguardi a lei che, con i capelli sciolti sulle spalle e i vestiti allentati attorno al bel corpo, si appoggiava languida allo stipite della porta e li fissava con i suoi grandi occhi grigi.

«Di chi parli, Tea?» domandò Ottavio, ora interdetto.

«Melancolia», spiegò. «È Melancolia che gli ispira questi ragionamenti. Ti sembra impazzito, ma è solo triste...»

Ferraris si sfiorò la benda sull'occhio e sospirò forte, quindi si avviò deciso alla porta dicendo: «Vi precederò al quartiere abbandonato, ma fate in fretta».

Attoniti, uniti da un senso di amaro stupore, Ottavio e Galatea si cercarono, si abbracciarono stretti e si baciarono, come per scacciare dai loro pensieri la cupezza che li aveva contagiati. Poi, sommessamente, lui domandò: «C'è qualcosa, qui, che vuoi portare a palazzo?»

Galatea girò un'occhiata attorno, rifletté un momento e rispose: «Nulla. Daremo meno nell'occhio se usciremo di casa a mani vuote».

«Molto bene,» concluse, «non ci resta che chiamare Ludovica.»

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