9 luglio 1676 pt. 2

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Ignaro di quanto stava per accadere in casa durante la sua assenza, eppure impensierito da una preoccupazione che non gli era ben chiara, Ottavio accompagnò i bambini lungo i vicoli di Vallebruna finché le loro strade non si separarono: mentre Giovannino e Ludovica proseguirono verso i campi a maggese che si estendevano a perdita d'occhio verso nord est, lui ripiegò verso il mare e raggiunse l'entrata di servizio della stamperia. Era in leggero ritardo rispetto al solito, ma nessuno glielo fece notare: la festa patronale si avvicinava e con essa il termine di consegna di diversi volumi da spedire via mare.

Prima di intavolare il discorso della revisione, Ottavio sondò cautamente il terreno: cercò di risalire a quali navi avrebbero trasportato i libri, dove fossero diretti e quando sarebbero partiti. Non impiegò molto sforzo a ottenere informazioni interessanti da Robertone, che evidentemente non aveva nulla da tenere segreto. Un nome che non sfuggì al suo orecchio attento fu quello di un certo vascello, chiamato Fiorente, il vascello su cui navigava Toni Pertica. Questo non significava niente, ma gli forniva in ogni caso un motivo per sospettare.

E poi c'era il seno; quel seno che aveva intravisto scoperto mentre Galatea ancora dormiva. Se il primo pensiero era stato che Ferraris, svegliandosi, avesse potuto vederlo, il secondo, sorto immediatamente dopo, era di tutt'altro colore. Non aveva nulla a che fare con la libidine, come sarebbe potuto essere in una situazione ordinaria; quella visione gli aveva rievocato alla memoria ricordi sgradevoli, se non proprio terribili. E gliel'aveva coperto non tanto, o non solo, per celarlo a quel farfallone di Ferraris, quanto per non vederlo più, non in quell'atmosfera di penombra così simile a qualcosa che aveva già vissuto con angoscia in un passato non lontano.

«Siete distratto, dottore», lo punzecchiò Bastiano a un certo punto. «Forse la vostra donna vi ha promesso che aprirà le gambe, finalmente.»

Da quando si erano azzuffati giorni prima, Bastiano si divertiva a fare quel tipo di insinuazioni; Ottavio, ormai, non lo ascoltava nemmeno più, prestandogli attenzione solo quando si fosse parlato di lavoro. Ogni confidenza amichevole tra loro era svanita e nessuno dei due cercava di riparare al danno; c'era anzi della perversione nel modo in cui Bastiano si rivolgeva a Ottavio, mentre nel verso opposto c'era solo tanta ostinata indifferenza e superiorità. Il marchese si comportava con fare altezzoso, quando gli si presentava l'occasione, e, benché non potesse evitare di svolgere l'umile mansione di tiratore e, più raramente, di battitore, metteva nei propri gesti un po' di sana spocchia aristocratica, come a marcare il confine che lo preservava dalla contaminazione con uno zotico come Bastiano. Con il giovane Nicolò i rapporti erano molto più distesi e lo stesso con Robertone, a manifestare che non c'era alcuna questione di differenza sociale tra loro: era la nobiltà d'animo quella che interessava a Ottavio. L'avrebbe custodita fino alla fine.

Per questo non rispose alla provocazione, limitandosi a dare due secchi tiri alla barra. Gli sfuggì un gemito di fatica al secondo tiro e con una mano si asciugò la fronte già imperlata di gocce di sudore. Bastiano, a cui non importava niente dell'indifferenza e della superiorità, ghignò e riprese: «Siete così discreto anche con vostra moglie? Oppure con lei non vi fate scrupoli ad ansimare forte?»

«Piantala con questi discorsi, Bastiano!» lo interruppe il padrone, che stava annotando le quantità di materiale stampato pronto per la vendita. «Trovati anche tu una donna e fatti gli affari tuoi.»

Ottavio fu grato per quell'intervento; di solito, infatti, bastava un rimprovero simile per zittire definitivamente la lingua lunga di Bastiano. Anche questa volta funzionò: l'operaio chinò il testone sulla vasca dell'inchiostro e vi intinse le mazze, per poi stendere uniformemente il liquido viscoso su tutta la forma di caratteri.

Sembrava il momento giusto per avanzare la proposta; Ottavio, perciò, lasciò andare la barra e, afferrando un foglio inumidito da stendere nel timpano del torchio, cominciò a dire: «Robertone, pensavo che potresti affidarmi un'altra revisione in questi giorni».

«Come dite?! Ho bisogno di voi al torchio! E ne avete già una in sospeso da consegnarmi!» esclamò Robertone, colto alla sprovvista.

«Non tarderò; domani ve la presenterò e scommetto che vi piacerà. Quanto al torchio, non credo sia fruttuoso ammazzarsi a stampare così tante pagine al giorno, quando la tua vera preoccupazione sono i fascicoli da spedire.»

Robertone scosse forte la testa: «Il torchio non si ferma mai! Per i fascicoli da spedire bastiamo io e Diodato; molte casse sono già piene. E poi non ho qui nulla da farvi correggere, per il momento...»

«Ci sarebbe...» proferì piano Nicolò, pentendosi subito di aver fiatato. Lo zio lo fece ammutolire con uno sguardo severo e minaccioso che Ottavio decise di usare a proprio vantaggio. «Se posso essere utile in qualcosa, sono disponibile a tutto. Detto tra noi, non sarebbe il primo volume scomodo che leggo.»

«Di cosa parlate?!» ribatté Robertone, stavolta veramente spaventato. «Cosa intendete con volumi scomodi

«Ma lo sapete... Questioni di religione, soprattutto...» bisbigliò, come se non volesse farsi sentire. Il padrone lo guardò con gli occhi sbarrati, poi si volse al nipote al compositoio; Bastiano fischiettava al proprio posto, senza dare l'impressione di essere interessato ai loro discorsi.

«Ci sarebbe un libriccino di preghiere, veramente un affarino minuto; ma è in francese, non so se...»

«Mastico un po' di francese», rispose prontamente, quindi aggiunse: «Robertone, fidati di me. Non guadagnerei nulla a denunciarti né a ricattarti. Quanti, come te, stampano opere proibite? Non mi importa che cosa io stia correggendo, pur di correggere qualche cosa. Il lavoro al torchio mi sfianca, chiedo solo di fare il mestiere per cui mi hai assunto...»

Fu convincente; Robertone capitolò e gli promise di fargli avere il manoscritto nel giro di qualche giorno, sicuramente prima della festa patronale. Ottavio, da parte sua, rimase soddisfatto dell'accordo e tornò alla barra quasi dimentico del fatto che vi avrebbe ritrovato l'irritante Bastiano con il suo arco armato di frecciatine velenose.

Non distante dalla stamperia, Giovannino e Ludovica stavano tornando a casa, portando ciascuno un otre pieno di latte fresco. La bambina aveva ancora il labbro incorniciato di bianco e il compagno la prendeva in giro di tanto in tanto, dicendole che le erano spuntati i baffi; lei, indispettita da quell'osservazione, tuttavia non mollava il prezioso carico per ripulirsi, considerando quello un compito ben più onorevole. La mamma sarebbe stata fiera di lei e le avrebbe dato una focaccetta in più, con tanto miele. L'otre, però, era piuttosto pesante e, se all'inizio le era parso possibile portarlo, ora, giunti al paese, cominciava a dubitare delle proprie forze.

«Giovannino...» pigolò, arrancando con le mani sull'otre. «Non ce la faccio più, possiamo fermarci un momento?»

Giovannino, che la precedeva di un passo senza mostrare grandi difficoltà, si volse continuando a camminare all'indietro. «Siamo quasi arrivati, tieni duro!» le disse soltanto, per poi voltarsi di nuovo verso la strada. Ludovica sbuffò e rallentò; poco più avanti dovette fermarsi, posare l'otre e risollevarlo. In quel breve lasso di tempo, Giovannino sparì dalla sua vista: quando rialzò gli occhi, lui non c'era più e per quanto spingesse in là lo sguardo non riusciva a individuarlo. Sentì fermarsi il respiro, cominciò a boccheggiare in un principio di pianto ansioso. Ruotò su se stessa, per controllare che Giovannino non si fosse nascosto per farle uno scherzo, ma quando fu certa che così non fosse si spaventò ancora di più.

«Giovannino! Giovannino!» chiamò squillante. Nessuno rispose. Si fece coraggio e avanzò di qualche passo, tentando di riconoscere il vicolo che stava percorrendo; non riuscendoci, pensò che avrebbe fatto meglio a chiedere indicazioni a uno dei numerosi passanti che le stavano attorno, ma alla fine decise di affidarsi al proprio senso dell'orientamento. Sapeva che la piazza del mercato era in mezzo al paese: avrebbe percorso qualsiasi via le sembrasse abbastanza grande da portare alla piazza, avrebbe seguito i carri.

Ben presto si pentì di aver preso quella decisione: dopo aver imboccato vicoli stretti e bui, procedendo del tutto a caso, Ludovica si ritrovò esattamente nella strada da cui era partita; le gambe le facevano male, così come le braccia. Poggiò a terra l'otre e si sgranchì la schiena, facendo del proprio meglio per non cedere al pianto. Pensava alla sua mamma, a come sarebbe stata in pena per lei non vedendola tornare, pensava al suo papà che si sarebbe arrabbiato con Giovannino; e pensò anche a se stessa, sperduta in un luogo sconosciuto e pericoloso. Affranta, si sedette sullo scalino d'ingresso di un'abitazione e rimase a capo chino per qualche minuto. Poi, all'improvviso, si sentì afferrare per una delle due trecce in cui erano spartiti i suoi capelli neri; qualcuno la strattonava per costringerla ad alzarsi e lei non riusciva a capire chi fosse. Quello usò talmente tanta forza da trascinarla a terra nella sporcizia; altre mani cattive si aggiunsero alla prima e con esse le risate sguaiate di almeno tre ragazzini poco più grandi di lei.

«Guardatela,» gridò uno di loro, «guardate la figlia della sgualdrina!»

I passanti si defilarono con indifferenza, scansando i tre ragazzini e la bambina che si dimenava per sfuggire. Ludovica implorava aiuto con gli occhi grandi di spavento, poiché la paura le aveva fatto perdere la lingua. La voce che la prendeva in giro, però, le era nota, anche se non ricordava a chi appartenesse. Uno la prese per i polsi e la tirò in piedi, un altro, da dietro, la spinse contro il muro della casa presso cui si era fermata a riposare. Si volse per guardarli in faccia, ma immediatamente uno di loro le mise una mano sulla testa e le si aggrappò ai capelli, sballottandola da una parte all'altra. La figlia della sgualdrina, ripetevano in coro seguendo una nenia canzonatoria. La figlia della sgualdrina, dicevano mentre le mettevano le mani addosso, prendendosi gioco di lei e della sua debolezza. L'umiliazione superò la paura; la frustrazione le bruciò dentro con una fiamma inarrestabile; fu la rabbia a farla gridare: «Andate via! Lasciatemi stare!» così forte che, sorpresi, tutti e tre fecero un balzo indietro.

Ludovica, furente, si sistemò le ciocche arruffate dietro le orecchie, chiuse i pugni e strinse i denti, digrignandoli. I tre scambiarono un'occhiata e un sorrisetto divertito si dipinse sui loro volti da monelli un po' tonti.

«Che cosa vuoi fare, pidocchietta? Non ci fai mica paura!» disse il primo, muovendo un passo avanti. Ludovica ringhiò contro di lui con tutta la grinta che aveva, ma quelli risero; un secondo si avvicinò e ripeté: «Non ci fai paura, piccola sgualdrina! Sei una sgualdrina come la tua mamma!»

«Io non sono una sgualdrina; e neanche la mia mamma lo è!» strillò; in realtà, non aveva la minima idea di cosa significasse quella parola, ma capiva per intuito che si trattava di un insulto molto grave. Alle risate tornarono ad aggiungersi le botte, le tirate di capelli e le manciate di fango. Ludovica, ormai, piangeva e picchiava insieme, con il timore, sempre più grande, che non sarebbe riuscita a trarsi in salvo.

A un certo punto, dal nulla comparve Giovannino. Lei non lo vide subito, vessata com'era dai tre assalitori, ma questi dovettero accorgersi di lui a proprie spese: il primo che capitò sotto il suo tiro venne afferrato per il colletto della maglia, strattonato all'indietro e fatto cadere a terra con un tonfo, per poi beccarsi uno scappellotto da maestro. Il secondo, che aveva visto l'amico soccombere all'attacco a sorpresa, si preparò a resistere, ma Giovannino prendeva lezioni di lotta dal padre e non gli fu difficile atterrare anche lui. Il terzo, invece, essendo il più grande e il più robusto di tutti, gli avrebbe dato del filo da torcere. Ludovica, rannicchiatasi contro il muro, si dileguò in fretta verso l'ingresso di un'abitazione poco lontana e rimase a guardare.

«Ti avevo detto di lasciarla in pace, Enrico», minacciò Giovannino, osservando attentamente l'avversario. L'altro, in risposta, lo sbeffeggiò: «Che cosa vuoi, nanerottolo? Difendi la tua sposina?»

Ludovica trattenne il respiro a quelle parole, da un lato perché il suo attaccamento per Giovannino significava per lei qualcosa di simile a un fidanzamento, dall'altro perché aveva finalmente capito di chi si trattasse: Enrico era un ragazzo cattivo e sempre nei guai; aveva tredici anni, ma, lavorando al porto con il padre, aveva braccia molto forti; per sua sfortuna, aveva anche un cervello piuttosto limitato in quanto a furbizia, il che lo rendeva violento e sbruffone anche con chi non avrebbe dovuto esserlo. Si era già confrontato con Giovannino, qualche volta, ma non erano mai venuti alle mani. Era accaduto che litigassero, ma Ludovica era sempre lasciata in disparte affinché non sentisse. Ora aveva scoperto che i litigi tra i due scoppiavano a causa sua, perché Giovannino la proteggeva di fronte ai propri coetanei.

Giovannino, intanto, era passato all'azione: con il pugno destro aveva colpito il fianco di Enrico e ora, con il sinistro, mirava alla guancia; Enrico aveva incassato il primo colpo e schivato il secondo, replicando con una gomitata all'altezza del diaframma. Giovannino rantolò, fece un passo indietro e inalò tutta l'aria che poté, quindi tornò alla carica, cambiando strategia: finse un destro alla pancia e, quando Enrico si abbassò per difendersi, centrò il suo mento con il pugno sinistro. Enrico indietreggiò, muggendo come un toro ferito; Giovannino, ancora debilitato dal colpo allo stomaco, non fu abbastanza agile da schivare la testata che lo investì in pieno volto. Nell'impatto si morse il labbro e cominciò a sanguinare copiosamente; Ludovica urlò, vedendolo a terra con la guancia imbrattata di sangue misto a fango. Giovannino provò a rimettersi in piedi nel più breve tempo possibile, ma Enrico prese a incalzarlo con una serie di calci che lo colpirono al costato e alle cosce. La bambina, dal suo riparo, cominciò allora a guardarsi attorno alla ricerca di un viso rassicurante cui chiedere aiuto, ma pressoché tutti gli adulti li evitavano girando al largo senza degnarli di un solo sguardo. Poi le vide: le due donne al mercato del giorno prima erano lì, da una parte, a braccetto, e avevano l'aria di godersi un bello spettacolo di cui avrebbero parlato volentieri molto a lungo. Si distrasse a fissarle con odio, meditando vendette assurde e impossibili, finché non udì uno schianto e un ansito; prima di distogliere gli occhi vide una delle due donne impallidire e coprirsi la bocca con la mano, fatto che la inquietò e la incuriosì contemporaneamente.

Quando si volse verso i due litiganti trovò Giovannino in piedi, fiero e sprezzante, con il labbro nero di sangue e la camicia macchiata, i capelli biondi insozzati e diversi ematomi rossi sulle braccia; di fronte a lui, disteso a terra, c'era Enrico, che si muoveva a malapena dopo essere stato scaraventato contro una porta chiusa.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro