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La notte era per i sognatori, il giorno era per coloro che desideravano realizzare i propri sogni. L’orario che invece andava dalle sei alle sette e quarantacinque, gli serviva per prepararsi e fare colazione.
Lo considerava il momento migliore della giornata: "Nuovo giorno, nuovi problemi" diceva; e, se la giornata era appena iniziata, non potevano esserci problemi.
Si alzò, e il suo sguardo cadde sul volto ancora assonnato riflesso nello specchio posto dall'altra parte della stanza.
«Chi sono io?» disse, ma poi gli venne in mente che erano solo le sei, e che aveva tutta la giornata per occuparsi di quel genere di questioni.
Fuori dalla finestra, i deboli raggi di sole si riflettevano sulle acque del fiume, sulle altre finestre, sulle piante del suo balcone. Era un orario delizioso per alzarsi: le strade erano deserte, non c'erano auto o persone; l'aria sapeva ancora di pulito e si aveva la sensazione di possedere tutto il tempo del mondo.
Dopo aver ripiegato le lenzuola, si recò in bagno, dove si sistemò per bene. Raccolse i vestiti della sera prima da terra, e ne indossò di nuovi, più puliti e stirati.
Quando giunse in cucina, trovò il gatto seduto come al suo solito fuori dalla finestra, attendendo che lo facesse entrare.
L'uomo ridacchiò, lasciando che il felino mettesse le sue zampe sporche di terra sul lavandino.
Lui non aveva un gatto, anzi, riteneva che gli animali fossero troppo impegnativi. Quello era solo un randagio che una volta era riuscito a entrargli in casa e mangiare i suoi biscotti, e che da allora tornava da lui tutte le mattine.
Non aveva un nome, così lo chiamava gatto.
"Gatto" era un appellativo perfetto, perché la definizione di gatto corrispondeva a un animale piccolo, peloso e con i baffi che qualche volta graffiava la mobilia, proprio come il suo gatto.
«La colazione è servita!» disse l'uomo, poggiando una tazza piena di latte a terra. «Prego, fa come se fossi a casa tua.»
Guardò l'orologio: erano le sei e mezza, perfettamente in orario.
«È ora di andare.» Prese il cappotto e l'ombrello, salutando il randagio. «Ed esci quando vuoi. Fuori è davvero bello!» E chiuse la porta.

Per giungere al "Café di Tony" impiegava esattamente venti minuti. Avrebbe potuto fare colazione in un bar più vicino al suo appartamento, ma quello era il Café più buono e più tranquillo di tutta la città, perciò ne valeva la pena.
In più, era piacevole camminare lungo il fiume calmo del mattino, senza nessuno intorno.
«Buongiorno!» lo salutò Tony, allegro come sempre. Faceva quel lavoro da una vita, e l'uomo si stupiva di come riuscisse a esserne ancora così soddisfatto dopo tutto quel tempo.
«Buongiorno. Splendida giornata, non trova?»
«Ed è appena iniziata. Il solito, vero?»
L'uomo annuì. Si andò a sedere al suo solito tavolo, paziente. La stanza era ancora vuota, esclusi Tony e due suoi amici che chiacchieravano al bancone.
«Ho sentito di tuo nipote. Congratulazioni!» stava dicendo uno. «Deve essere una bella soddisfazione avere un medico in famiglia.»
«Puoi ben dirlo, Ted. Quasi quasi gli faccio una foto e la appendo in officina.»
"Che bello" pensò l'uomo. "Sarà sicuramente un bravo medico. È un lavoro difficile, il medico. Devi studiare tante cose."
Tony gli portò un caffè e un cornetto. «E il gattino è tornato pure oggi?» gli chiese prima di allontanarsi.
«Sì. Puntuale come sempre.» Sorseggiò la bevanda in tutta fretta.
«Che bella bestia. Perché non te lo tieni? Può darsi che ti ci affezioni e ti trovi qualcosa da fare.»
L'uomo fece spallucce. Certo, trovare un passatempo sarebbe stato bello, ma curare un gatto non gli piaceva come idea.
Sbocconcellò il cornetto in pochi secondi e guardò l'orologio: sette e quarantacinque. Fine della colazione. L'uomo sospirò: il tempo della tranquillità era finito.
Pagò Tony, e decise che prima di tornare a casa avrebbe fatto una passeggiata al parco.
"Sarebbe bello essere un medico" diceva tra sé e sé. "Puoi aiutare tante persone e renderle felici."
Si sedette su una panchina in riva al fiume. "Però a me non piace il sangue. Probabilmente sverrei ancora prima di entrare in una sala operatoria."
L'uomo non aveva più un lavoro. Aveva ereditato da uno sconosciuto parente quel che gli bastava per vivere, abbandonando il suo impiego da scrivania per "cercare se stesso". Così si era detto, eppure non era ancora riuscito a trovarlo, questo se stesso. A volte aveva la sensazione che lo avesse perso in qualche cassetto.
Sulla panchina c'era una donna anziana, intenta a gettare briciole ai piccioni.
«Buongiorno, giovanotto.»
L'uomo sospirò. Le vecchiette facevano sempre troppe domande.
«Buongiorno.»
«Non è piacevole venire al parco di prima mattina?»
«Molto.»
«Io ci vengo perché a casa mi sento sola. Mio marito è morto, i miei figli lontani... Mi chiamo Laura, molto lieta.»
Lui le rispose con un cenno.
«Lei ha famiglia?» continuò la donna.
«No.»
«Oh, poverino! E non c'è nessuno che l'aspetta?»
L'uomo ci pensò su e ridacchiò, ironico. «A dir la verità, c'è un gatto randagio che mi aspetta tutte le mattine fuori dalla finestra.»
«Oh, che bellezza! I gatti sono così intelligenti!»
All'uomo quella frase dette fastidio, perché riteneva che non si potesse definire qualcuno "intelligente" senza nemmeno averlo conosciuto di persona. Men che meno un animale.
«Dovrebbe dargli un nome, così si affeziona e può tenerselo.»
L'uomo storse la bocca. «Ma io non voglio tenerlo. E poi che se ne fa un gatto, di un nome?»
«Oh, i nomi servono a molto. Io assegno un nome a tutti i miei piccioni.» E proseguì nel fare un lunghissimo elenco dei suoi piccioni.

Quando tornò a casa, si era fatta quasi l'ora di pranzo.
Il gatto era ancora lì, a giocherellare con le frange del tappeto.
«Sai che al parco ho incontrato una signora?» disse l'uomo. «Parlava un po' troppo, ma mi ha suggerito una cosa buffissima: mi ha detto di darti un nome.»
Sghignazzò ancora, mentre il gatto lo seguiva con occhio vigile.
«"Che se ne fa un gatto di un nome?" le ho chiesto. Non ti serve a nulla, vero? Non parli neanche...»
Mangiò, dando il cibo anche al randagio, e il pomeriggio lo passò a sistemare l'appartamento. Era piccolo, ma era un accatastarsi di mobili e soprammobili, di cui la maggior parte graffiati.
La sera, invece, iniziò a piovere. Questo lo innervosì molto, perché non si aspettava che piovesse.
Uscì per andare al Café e mangiare qualcosa, sotto l'acqua, perché non aveva un'auto.
Quando giunse al bar, rimase deluso dal vedere qualcuno seduto al suo tavolo.
«Era già occupato?» chiese la donna, notando lo sguardo infastidito di lui, e si spostò a quello accanto. «Mi scusi, non sapevo fossero prenotati.»
Lui la ignorò e si sedette.
«Sono Sara. Piacere di conoscerla.»
«Salve.»
«Viene qui spesso?»
«Tutti i giorni.» Volse lo sguardo all'orologio di fronte a sé, irrequieto.
«Io sono qui solo di passaggio. Sa com'è: il lavoro...»
"No, non lo so" pensò di risponderle.
Sara sembrava interessata a conversare, e continuò: «Io sono un'insegnante. Insegno ai bambini. Lei che lavoro fa?»
«Io ho lasciato il mio lavoro.»
«Oh... Come mai?»
«Perché volevo trovare qualcosa di meglio.»
«E l'ha trovato?»
L'uomo esitò. Era strano parlare con qualcuno che non fosse il gatto. «No.»
La donna sembrò delusa. «Beh, a volte quello che cerchiamo è nelle piccole cose. Lei ha qualche hobby?»
«No» iniziò, ma non seppe continuare. Nel brevissimo lasso di tempo in cui apriva nuovamente la bocca per parlare, pensò a quale delle quotidiane azioni che svolgeva potesse essere considerata un hobby.
«Io ho un gatto» borbottò, e fu sorpreso quando la donna, dopo un primo momento di perplessità, si illuminò in volto.
«Che cosa dolce! Anche io ho un gatto.»
L'uomo alzò gli occhi al cielo. «Bello.»
«La mia è un birmano, e il suo?»
«Non lo so» disse, ma lei non lo aveva ascoltato.
«È adorabile. È una femmina, si chiama Rosie. È un amore. E il suo come si chiama?»
L'uomo inspirò profondamente. «Lui - credo sia un lui - non ha un nome. In realtà non è neanche mio. Entra nel mio appartamento dalla finestra e gli do da mangiare.»
La donna rise, e questo lo innervosì ancora di più.
«Secondo me, dovrebbe tenerselo. I gatti sono creature così affettuose e intelligenti.»
L'uomo si alzò di scattò, afferrando l'ombrello. «Mi scusi, devo andare.»
«Ma non ha ancora mangiato... Ci vediamo!» sentì dire alla donna mentre usciva velocemente.

Il gatto si stava affilando gli artigli sulla sua poltrona preferita, e non sembrò minimamente turbato quando lui entrò nell'appartamento sbattendo la porta.
«Sei ancora qui?» gli disse con uno sguardo di odio. Il gatto lo ignorò. «Prego, fa come se fossi a casa tua!»
Gettò il cappotto e l'ombrello sull'attaccapanni. «Ingrato di un gatto: ti faccio entrare tutti i giorni, ti do da mangiare e tu nemmeno mi saluti quando torno. È così che mi ringrazi?»
Quando andò in bagno per darsi una sistemata, anche il gatto iniziò a pulirsi il pelo.
«Che poi, che gatto sei? Non ho mai visto un gatto felice di restare in casa a poltrire. Sei l'essere più inutile che abbia mai visto. Non riesci nemmeno a comportarti come i tuoi simili. Passi le tue giornate rintanato qui perché sai che se non ci fossi io a darti da mangiare non sopravvivresti un giorno!»
Il motivo della sua rabbia, in realtà, non era il gatto: era la sensazione perenne di non aver risolto ancora quel dilemma che lo assillava da tempo, e che gli rendeva la vita così insulsa.
«È strano, però: tu non esci mai di casa, eppure quando dico che ho un gatto la gente mi chiede sempre e solo di te. Perché mi chiedono di te? Non ti conoscono nemmeno! Che cosa hai in più di me?»
A quanto pare, la definizione di "gatto" corrispondeva a un animale piccolo, peloso, con i baffi che qualche volta graffiava la mobilia, più apprezzato e completo di lui.
Si tolse i vestiti, gettandoli a terra con rabbia, e si sedette sul letto.
Il miagolio del gatto lo costrinse ad alzare gli occhi.
«Che cosa vuoi, ancora? Perché vieni sempre qui? Io non ti conosco nemmeno!»
Il felino si sedette davanti a lui, come se aspettasse qualcosa.
Si fissarono negli occhi per qualche secondo. Il gatto sembrava incurante del suo stato d'animo. Se fosse stato un cane, ad entrargli dalla finestra, probabilmente avrebbe tentato di alleviare la sua rabbia, ma il gatto no.
«Fuffi» disse, blaterando la prima cosa che gli venne in mente. «Ti chiami Fuffi.»
Fuffi gli volse le spalle e se ne andò.
L'orologio batté le undici, e gli parve quasi uno scherzo del destino: se fosse stato un attore, solo, al centro del palco, davanti a centinaia di persone, quello sarebbe stato il momento del suo più importante monologo. Sarebbe stato il momento in cui il suo personaggio avrebbe colto il senso delle sue sventure, delle sue azioni, e sarebbe stato finalmente pronto a vivere.
Per un attimo si chiese se lui non fosse davvero un attore, che stesse interpretando una parte, ma che se fosse dimenticato. E ora era costretto a vivere l'esistenza di un personaggio inutile di un'opera non finita.
Volse lo sguardo allo specchio: un uomo era seduto sul suo letto, i capelli grigi a ciocche scure, il volto sgualcito, le rughe agli occhi e sulla fronte, le occhiaie bluastre.
Vide l'uomo sporgersi oltre la testiera, confuso.
«Chi sono io?»

𝙵𝙸𝙽𝙴

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