23. Cicatrici

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Avevo gli occhi chiusi, ma già sentivo il fresco respiro della stanza mentre i raggi caldi dell'estate battevano invano alla finestra. Erano passati giorni e ogni volta che iniziavo a svegliarmi, mi chiedevo se mi trovavo nel letto spartano della mia stanza, o ancora in uno del hotel a Isla del Sol o a Roma. Poi, mi rendevo conto che, come la sera precedente e quella prima ancora, ormai forse da un mese, ero nel perfetto letto di Marcello. Ogni sera, quando ci sprofondavo, mi sembrava dovesse essere più grande delle solite due piazze. Potevo rotolarci senza trovare un confine, anche perché Marcello dormiva appena un paio d'ore a notte. Andava sempre a letto molto tardi e si svegliava prima dell'alba. Le riviste patinate lo avrebbero definito un "early", ma io sapevo che era semplicemente un "cyborg".

Il tempo aveva sciolto le medicazioni sulla mia pelle, aveva guarito le ferite superficiali. Immobile, mi ero lasciata cullare dalle onde del tempo per far rimarginare i dodici punti sul braccio, ma i segni erano ancora evidenti. I tagli più profondi, quelli che potevo vedere solo io nel buio della notte, li sentivo ancora. Soprattutto, sentivo le sue mani ruvide segnare le mie braccia, sentivo una stretta al torace che appesantiva ogni respiro. Ogni frammento era impresso con cura nei miei occhi. Ricordavo tutti i momenti, i pugni, le grida. Tra i miei pensieri, rileggevo le ultime parole di Valerio, cancellate un attimo dopo dalla memoria del cellulare per paura che Marcello le scoprisse. Non sapevo esattamente cosa volessi e come ottenerlo. Ogni giorno continuavo a essere travolta da un'onda di sensazioni discordanti. Avrei voluto fuggire da Marcello, ma allo stesso tempo mi faceva sentire a modo suo protetta.

Per ore, prima di posare i piedi sul parquet, restavo immobile nel letto stringendo con le mani le lenzuola chiare. Nascondere tutto a tutti era l'unica certezza che avevo.

Nessuno sapeva che stavo con Marcello. Per un mese mi ero nascosta da Paolo, inventando scuse su scuse, talvolta anche stupide. Con Marta e Alberto era stato più facile, bastava dire che ero fuori Roma per lavoro. A Gloria avevo detto la verità, che Marcello continuava a volerla per la promozione al Madama, ma io non facevo più parte della sua agenzia come PR. Da quando eravamo tornati da Olbia, Marcello non aveva più menzionato né il Piotta né Valerio, come se nulla fosse mai accaduto. La sua unica preoccupazione era propormi un trattamento estetico per eliminare definitivamente le cicatrici sul mio braccio. Ricordo che quando l'autista venne a prenderci all'aeroporto, sembrò quasi scontato che stessimo andando dritti all'appartamento all'Eur. Ero diventata una sua proprietà. Non frequentavo più l'università, non avevo più un lavoro, non vedevo più i miei amici né la mia famiglia.

Accettai senza obiettare alle sue indicazioni, in fondo preferivo restare nella comoda sistemazione che aveva preparato per me. Seguivo puntualmente l'agenda stabilita ogni giorno senza nemmeno consultarmi. Era diventata una routine, ero sua e come tale dovevo essere costantemente soggetta ai suoi capricci. Erano riprese le mie inutili presenze a cene, feste o veloci aperitivi. A volte, tutto in una sola serata. Al mattino, una doccia fredda e poi via verso il Madama. Ero l'ombra di Marcello, la sua marionetta da adornare con trattamenti e sedute sempre più frequenti. Piano piano, Rafael mi stava trasformando in una delle sue bambole di porcellana che si muovevano tra i corridoi dell'agenzia. Nuovi vestiti, estensioni delle ciglia per far risaltare lo sguardo, trattamenti laser integrali che arrivavano anche in luoghi impensabili, scrub ed esfolianti per ridare luce, ossigeno e luminosità alla pelle, senza dimenticare le indispensabili elettrostimolazioni per il tono muscolare. Ogni giorno avevo un ricco programma stilato da Rafael che dovevo seguire scrupolosamente: trattamenti per il viso, per il corpo, per i capelli, almeno due ore di trattamenti intensivi a cui proprio non riuscivo ad abituarmi e infine un rigoroso allenamento comportamentale. Esisteva un intero prontuario sul modo di salutare, dare la mano, sedersi, entrare ed uscire da una macchina, chinarsi per raccogliere qualcosa, svolgere un tovagliolo a tavola, scegliere una posata e portarla alla bocca e mille altri gesti. Rafael era un vero guru in materia e probabilmente, su richiesta di Marcello, aveva deciso di essere il mio Pigmalione.

Oziare a letto non rientrava certamente tra le mille regole imposte, anzi, avrei dovuto iniziare da un po' uno dei tanti rituali di bellezza a base di acido ialuronico per contrastare rughe e inestetismi vari. Eppure ero sola in quella enorme stanza e i rumori provenienti dalla casa in piena attività mi facevano sprofondare ancora di più nel cuscino. Nenita, la domestica invisibile di cui sentivo costantemente la presenza senza mai incontrarla, aveva sicuramente già preparato per me una sontuosa colazione.

Decisi di mettere i piedi a terra solo quando la vibrazione del cellulare iniziò a rompere il silenzio della stanza. Sul display comparve il volto sorridente di Alberto. Trattenni il cellulare tra le mani, fissandolo, incerta se rispondere o meno alla chiamata di papà.

«Pronto» dissi aprendo la bocca e trascinando tra i denti una voce impastata.

«Ciao tesoro mio, ti ho svegliato?» la voce premurosa di Alberto mi accarezzò la guancia.

«No» sillabai cercando di ancorarmi alla realtà.

«Sai che giorno è?» Chiese retorico mentre io cercavo davvero di capirlo. «Ti aspetto per pranzo?» domandò, ricordandomi che era domenica.

«Oh...» Mi lasciai sfuggire senza riuscire a costruire rapidamente una qualsiasi scusa.

«Va bene, ho capito, devi lavorare». Sentii il suo sorriso nel tono leggero della voce. «Ma prima o poi dovrai presentarmi questo... Lavoro».

Immaginai la stretta di mano tra Marcello e Alberto per presentarsi. Mi gelai. Come mi ripetevo sempre, il modo migliore per sopravvivere era non mischiare mai i settori della mia vita. Di solito, l'unico escluso da questa equazione era Paolo, solo a lui era concesso conoscere tutti i miei segreti, ma in quella situazione non riuscivo neanche a parlare con lui.

«Il progetto di questo locale è arrivato al capolinea e ho ancora una montagna di cose da sistemare. Abbiamo l'inaugurazione la prossima settimana». Provai a formulare qualche frase di circostanza, sedendomi sul letto.

«Allora ti aspetto per la prossima domenica, non preoccuparti del tuo vecchietto! Ricordati che dobbiamo andare a prendere lo smoking, non posso andarci con Ginevra, lei è la sposa. Ho bisogno di un consiglio femminile, ho bisogno della mia damigella d'onore!».

«Certo» finsi di accettare il compromesso di Alberto.

«Un abbraccio». Sentii una fitta, non potendo davvero sentire le forti braccia di mio padre.

«Ti voglio bene». Risposi, trattenendo le lacrime che erano pronte a scorrere sulle mie guance. Quanta sofferenza gli avrei inflitto mostrandomi sconvolta, con il braccio deturpato da segni rossi e lividi ancora bluastri. Cosa avrei dovuto dirgli per placare la sua preoccupazione? Chissà se avrebbe creduto alla verità. La sua bambina non poteva essere coinvolta in una storia così oscura di aguzzini, malviventi e loschi individui. Non doveva sapere nulla. Nemmeno Paolo, che conosceva ogni mio peccato, che era venuto a prendermi nelle situazioni più impensate, che si era preso cura di me quando ero ridotta a bere solo vodka e avanzi di frigorifero, che era stato al mio fianco in ogni disputa con mia madre. La sua assenza era il peso più grande che portavo dentro di me. Mi mancava essere accoccolata sul suo petto, mi mancava il suo sorriso storto e il suo sguardo astuto mentre cercava di decifrare le mie enigmatiche emozioni. Paolo riusciva a leggermi dentro in modo che nemmeno io sapevo fare, capiva i miei mal di pancia e aveva sempre l'antidoto giusto da consigliarmi. Mi ero eclissata completamente da tutti nell'ultimo mese, nascondendomi dietro la scusa del lavoro di giorno e della camera da letto di Marcello la sera. Anche se, da quando eravamo tornati da Olbia, avevamo condiviso solo pochi momenti di vera intimità.

Uscendo dalla stanza, potevo sentire chiaramente i rumori della casa: il rumore della lucidatrice nel salone principale, i tasti della tastiera battuti da Marcello nel suo studio, i miei passi nudi sul pavimento liscio e fresco. Bussai alla porta del suo studio e dall'altra parte sentii il permesso di entrare.

Aprii la porta scorrevole e il sorriso di Marcello si allungò mentre si allontana di un passo dalla scrivania. I miei occhi sono stretti, incerta se la mia presenza gli facesse piacere o meno.

«Ehi piccola» mi incitò alzandosi dalla sua poltrona e avvicinandosi a me.

In quel momento, lo studio sembrò una distesa infinita che ci teneva lontani, ma quando le sue grandi mani cercarono la mia pelle sotto la morbida camicia di seta, non riuscii ad aggiungere nessuna parola. Mi lasciai andare, appoggiando la testa sul suo petto e facendomi guidare un passo dopo l'altro verso la scrivania.

«Vieni» sussurrò quasi Marcello, allungando un dolcissimo sorriso per invitarmi a sedermi sulle sue ginocchia. Mi rannicchiai sul suo petto sentendomi come una bambina, la sicurezza della sua salda presa copriva la fame di affetto che mi attanagliava lo stomaco.

«Pensavo fossi andata in letargo» scherzò Marcello mentre continuava a lisciarmi i capelli tenuti in una treccia morbida.

«Stanotte, dove hai dormito?» chiesi distratta, mentre con il dito seguivo la linea del suo collo. I silenzi di Marcello erano diventati risposte abituali e avevo imparato a crearmene una sostitutiva nella mia mente.

Chi ti dice che non abbia dormito altrove?

La costante aria dittatoriale di Marcello emergeva in ogni piccolo dettaglio. Ogni volta che taceva di fronte a una mia domanda, anche se stupida o banale, mi ricordava che ero lì solo per soddisfare la sua vendetta.

«Vorrei tornare a casa mia,» provai a dire piano, preoccupata dalla sua reazione. «Dovrei prendere il computer, controllare la posta...».

«Se ti manca qualcosa, posso chiedere a Renato di andare a prenderlo. Non sarà un problema» mi interruppe mentre elencavo ad alta voce le scuse fasulle che nascondevano la mia voglia di ritornare al mio piccolo appartamento.

«Non è solo questo, ho bisogno di cose mie. Non sopporto l'idea che Renato frughi nel mio armadio» ribattei, risentita.

«Allora ti farò accompagnare da Renato» sentenziò Marcello seriamente.

«Non ci metto molto, posso andarci anche da sola».

«No. Se vuoi, ci vai in compagnia di Renato».

«Mi manca l'aria, mi farai impazzire se continui a farmi pedinare ovunque con il tuo guardaspalle» mi lamentai.

«Andiamo. Ti accompagno io» disse Marcello stringendo la mascella, già infastidito dalle mie richieste. «Fai colazione. Faccio preparare un caffè da Nenita».

«Lo faccio da me, non preoccuparti!» protestai, quasi risentita dal fatto di dover essere sempre accompagnata. «Almeno il caffè posso farlo da sola».

Entrando in cucina, apprezzai la penisola allestita come ogni mattina in un piccolo buffet, con croissant, yogurt mantenuti freschi in ciotole riempite di ghiaccio e frutta già pronta per essere consumata. In meno di un giorno, Nenita aveva capito perfettamente i miei gusti, anche senza che avessimo parlato per un istante, come se avesse il dono della telepatia. Durante l'estate, sostituivo le tisane con freschi smoothies di yogurt e frutta. Quel giorno era il turno di melone e pesca. Nella cucina di Marcello, c'erano mille sofisticati strumenti per sbucciare, tagliare, frullare, anche se entrambi non avevamo molta familiarità con quegli strani attrezzi. Io mi limitavo a mettere tutto nel frullatore in acciaio brillante con lame in titanio: ghiaccio, yogurt, frutta a pezzi. Attesi solo cinque secondi e la mia sontuosa colazione fu pronta. Il caffè, invece, sarebbe stato l'intermezzo tra la doccia e l'inizio della giornata lavorativa.

Stavo diventando il chihuahua addestrato di Marcello, con una toilettatura perfetta e agli abiti firmati per ogni occasione. I capelli mi scendevano sulle spalle con morbide curve, come mi aveva insegnato Rafael. Indossavo abiti chiari durante il giorno, con fasciature, decolleté e spacchi che lasciavano poco all'immaginazione. Mentre la sera optavo per velature, paillettes o ricami dai toni freddi. Avevo persino cambiato taglia, passando dalla quarantadue alla quaranta e riuscendo a infilarmi in una trentotto se necessario. Avrei potuto riprendere a indossare il tubino nero che avevo ai miei diciotto anni, abbinato a delle Converse comode ma ormai malconce. Avevo iniziato a indossare i tacchi già nelle prime ore del mattino, dato che la comoda Mercedes con autista di Marcello ci accompagnava ovunque durante il giorno. Avevo abbandonato i viaggi in treno o in metropolitana, con i loro cattivi odori, schiacciamenti e corse per non perdere le coincidenze. Le uniche corse che facevo erano quelle sul tapis roulant, almeno due volte a settimana, nella mini palestra allestita a casa Murgia.

Bussai nuovamente alla porta dello studio di Marcello. Un istante di silenzio. Aspettai immobile, sapendo quanto si infastidisse se venisse richiamato una seconda volta. Dall'esterno, dovevo sembrare una lampada appoggiata al muro, con la mia gonna bianca a pieghe, la camicetta tutta volant verde menta e una cascata di accessori di perle dorate. Allargai un sorriso spento quando Marcello, concentrato sul display del tablet, fece capolino dalla stanza.

«Andiamo?» chiese retorico, prendendomi per mano.

Avevo la bocca asciutta e i pensieri arroventati, quindi restai in silenzio. Del resto, era facile convivere con Marcello, bastava lasciare che fosse lui a decidere tutto. In quel mese, quella situazione di totale sottomissione mi aveva giovato, permettendomi di abbandonarmi all'apatia.

Entrati in auto, Marcello continuò a manipolare freneticamente il display, leggendo, spostando appuntamenti e duplicando app per incrociare dati, senza mai fermarsi. Decisi quindi di perdermi nella giostra di luci e colori che si sfilacciavano fuori dal finestrino per deliziarmi. Accesi una sigaretta svogliatamente. All'inizio, quando avevo appena conosciuto Marcello, odiavo quel mutismo mascherato dagli impegni lavorativi. Col tempo, però, mi stavo abituando a saziarmi con le briciole di attenzione che mi concedeva. A poco più di un palmo di distanza da Marcello, mi chiedevo cosa sarebbe stato se avessi fatto una scelta diversa. Chiusi gli occhi e per la seconda volta quella mattina pensai a Valerio, anche se durante quei giorni avevo cercato di non farlo. Avevo rispettato il patto fatto con Marcello per liberare Valerio dai debiti e non avevo mai cercato di contattarlo, ma continuavo a chiedermi se avevo fatto la scelta giusta. Nel frattempo, mi accontentavo di quella relazione tossica. Era difficile dare un nome alla nostra situazione, non eravamo una coppia. Piuttosto, c'era Marcello, pretenzioso nella sua richiesta di totale devozione, in cambio di sofisticate attenzioni che non mi interessavano.

La strada si apriva finalmente su scorci familiari e, da lì a un minuto, sarebbe spuntato dietro l'angolo il portoncino più sgangherato e arrugginito di tutta Roma. Istintivamente cercavo un contatto con Marcello, che si trovava a poco meno di un palmo di distanza da me. Il mio cuore batteva come un tamburo rullante mentre l'auto si parcheggiava sul ciglio della strada.

«Prendi quello che devi e andiamo via» disse seccamente.

Il mio primo passo sul marciapiede infiammò il mio ventre. Sentivo i respiri pesanti intrisi di tabacco del Piotta sussurrati all'apice del mio orecchio. Decisi quindi di stringere saldamente la mano di Marcello, che proseguiva senza esitazione lungo il corridoio per raggiungere l'ascensore. Mi sentivo seguita, come se ci fosse qualcuno dietro di me, pronto a saltare fuori dal sotto-scala. Osservavo ogni angolo, cercando le ombre. Le mie pupille erano ormai due mosche impazzite.

«Grazie per avermi accompagnata» dissi. Ancora una volta, Marcello aveva avuto ragione.

Trovai pace solo nell'ascensore, approfittando del breve volo verticale nella stretta cabina. Mi rannicchiai sotto il suo braccio, sottecchi sbirciavo i suoi occhi morbidi nascosti dietro le lenti scure, mentre la sua mano mi stringeva al petto.

«Mi raccomando, mantieni fuori dai guai la tua amica. Parla poco e andiamo via in fretta». Quando l'ascensore si aprì, il mio viso spuntò dalla sua spalla.

Cercando di trovare un po' di coraggio nelle mie gambe deboli, frugai nella borsa per trovare le chiavi dell'appartamento, mentre mi chiedevo se la mia amica fosse a casa. Avrei dovuto presentarle Marcello e costruire un'altra bugia per nasconderle tutta la verità.

L'idea di un incontro tra Marta e Marcello mi spaventava tanto quanto le voci dei sicari del Piotta che si annidavano nella mia mente. Il salotto era illuminato e la casa era piena di attività. Dalla stanza da letto, una canzone pop riempiva l'intero appartamento. Feci spazio a Marcello per entrare, e una volta dentro, istintivamente girai le chiavi nella serratura, almeno un paio di volte. Sul divano in disordine, solo tra i miei pensieri, rividi i capelli arruffati di Valerio, i suoi occhi cristallini che ancora una volta mi chiedevano scusa. La testa disordinata della mia amica, sorpresa dai nostri passi o dal rumore delle chiavi nella porta, fece capolino dalla sua stanza. Sembrava una marionetta mossa da dietro le quinte, che si presentava a noi con un sorriso leggermente imbarazzato.

«Ciao tesoro» mi gridò quasi.

«Ehi» ribattei debolmente, cercando di decifrare cosa stesse succedendo e come dovevo comportarmi. Volevo andarle incontro, abbracciarla, ma mi sentivo trattenuta da Marcello, anche se lui era rimasto qualche passo indietro.

«Non pensavo saresti tornata oggi...» Marta sembrò recuperare un pensiero ad alta voce e poi concluse: «Dove sei stata tutto questo tempo?».

«Siamo venuti per prendere alcune cose».

«Siamo?» Marta sgusciò fuori dalla sua stanza, chiudendo la porta dietro di sé. Aveva i capelli arruffati e i jeans ancora sbottonati. Provava a rimettersi in ordine ad ogni passo per raggiungerci.

«Ciao» sorride a Marcello, allungando la mano per stringerla.

«Salve» replicò freddamente Marcello, facendo lo stesso gesto e sottolineando il suo interesse a mantenere certe distanze.

«Lia mi ha parlato tanto di te, è un piacere incontrarti di persona». disse Marta.

«Resteremo poco,» sibilò Marcello in modo poco socievole. «Lia, prendi quello che devi». Restò immobile al centro della stanza come una statua. La fretta di voler sbrigare la nostra permanenza mi spiazzò. Di solito, anche se vestito di falsa gentilezza, Marcello si comportava in modo estroso, con un magnetico savoir-faire durante gli incontri sociali. In quel momento, invece, sembrava non aspettare altro che prendere la porta e andare via. C'era qualcosa in quella situazione che lo infastidiva. Decisi di non volerlo stuzzicare, troppo concentrata nel cercare di nascondere a Marta i segni e i lividi sulla mia pelle. Il disagio di Marcello mi contagiò e in un attimo non mi importava più recuperare le mie cose, ma solo di uscire dall'appartamento il prima possibile.

«Eri in compagnia?» cercavo di confondere Marta.

«Be', ieri sera ero con Giorgio, stavamo lavorando su un caso, poi sai come vanno queste cose. Si è fatto tardi e gli ho chiesto di restare» rispose Marta.

«Avrei dovuto avvisarti che stavo rientrando a casa» cercai di mediare mentre entravo nella stanza. Un altro flashback: Valerio disteso sul letto, con il torace scoperto e le cicatrici sul fianco.

«Figurati...» Marta sorrise imbarazzata. «Mi dispiace solo di non aver riordinato un po' la casa».

«Sai che non bado a queste cose» risposi con un sorriso triste, mentre ammucchiavo i vestiti e li spingevo nell'armadio.

«Non pensavo che stessi di nuovo frequentando Marcello» riprese quasi sussurrando la mia amica, guardandosi preoccupata le spalle per timore di essere raggiunta dall'insolito ospite.

«Sì, beh...» lanciai un'occhiata furtiva nell'armadio, cercando di costruire una bugia che reggesse.

«Eravamo tutti preoccupati... Sei sparita per giorni!» esplose Marta senza darmi la possibilità di continuare. «Paolo sta impazzendo! Ma quel tizio...» Fece una smorfia per concentrarsi e ricordare il nome bloccato tra i denti. «Valerio! L'ultima volta ti ho vista uscire con Valerio, adesso ti vedo con Marcello, non capisco».

«Certo, non devo mica spiegarti ogni mia decisione» risposi in tono più caustico di quanto avrei voluto, avvicinandomi a un centimetro di distanza al suo volto, mentre riprendevo a riordinare le cose sulla scrivania, anche se in realtà non facevo altro che spostarle da un lato all'altro.

«Ci siamo già passati... È solo che non voglio vederti ferita».

«Non sta a te decidere» continuai a scagliare veleno. Non volevo ferirla, ma volevo zittirla, spaventata dall'idea che Marcello, nell'altra stanza, stesse sentendo la nostra discussione.

«Lascio l'appartamento, vado da Giorgio. Mi ha chiesto di convivere,» mi gelò. «Volevo dirtelo prima, ma tu non c'eri» aggiunse.

«Non vivremo più insieme».

«Già...» Marta interruppe le sue parole e il volto le divenne una maschera di cera. Non sapeva se continuare. «Tanto ormai tu non sembri più la Lia che conoscevo... Sei davvero bella, ma hai qualcosa di diverso. Sei cambiata».

«Vado a fare un caffè» sentenziò come un rimprovero, prima di riprendere il corridoio e sparire.

Ancora una volta mi sentii sola in quella stanza che a stento riconoscevo. Continuavo a guardarmi intorno senza sapere cosa cercare. Sapevo che Renato era stato lì a riordinare il caos creato dagli scagnozzi del Piotta. Eppure, piccoli graffi sui cassetti e oggetti riposti in maniera diversa da come li avevo sempre tenuti mi facevano salire l'agitazione nello stomaco. Il vestito grigio della prima cena a casa di Marcello era ancora lì, pronto a prendermi in giro. Fu il primo che riposi nella busta trovata per caso sulla scrivania ingolfata di fogli e altro. Continuai a pensare a cosa mi sarebbe stato utile. I jeans nell'armadio ormai mi sembravano logori, come tutto il resto del mio guardaroba. Le t-shirt e le camicette da supermercato mi apparivano ancora più dozzinali se le confrontavo con gli abiti sartoriali che Marcello continuava a comprarmi. L'intero armadio era il risultato di anni di acquisti fatti solo con l'etichetta al settanta percento di sconto. Le ore di shopping con Paolo erano quasi sempre giri tra le bancarelle dei mercatini rionali, dove i capi dismessi venivano venduti come occasioni vintage. Accantonai l'idea dei vestiti e passai alla scrivania. Cercai il computer nascosto nel disordine. Spostando alcuni libri e fascicoli, riuscii a recuperarlo. Tirandolo fuori dalla pila di fogli, cadde un anello. Lo riconobbi come uno di quelli indossati da Valerio. Era un anello in argento, un'unica placchetta martellata, senza alcun valore. Lo raccolsi e lo indossai al pollice, l'unico dito che riusciva a riempire quel diametro. Immediatamente, sentii le mani di Valerio sulle mie.

«Andiamo?» sopraggiunse Marcello alle mie spalle, visibilmente innervosito, mentre riponeva lo smartphone nel taschino della giacca.

«Sì,» risposi spaventata all'idea di essere stata scoperta. «Voglio solo salutare Marta».

«Buongiorno» si annunciò Giorgio sbucando dalla porta che si specchiava nella mia.

«Va bene, ti aspetto in macchina» concluse Marcello, volgendo un rapido sguardo al ragazzo spettinato, ma già dirigendosi verso l'uscita.

«Ciao» feci con una mezza smorfia a Giorgio, entrambi incapaci di guardarci in faccia per il disagio.

Mi girai nella stanza, cercando altro da portare via come una sfollata con soli pochi minuti per raccogliere in una borsa di plastica tutta la propria vita. Guardai intorno, vedendo i trucchi messi alla rinfusa in una scatola di plexiglas, erano sporchi, secchi, già sostituiti da quelli nell'ordinata console dell'antibagno in casa Murgia. Raphael aveva provveduto a rifornirmi di creme e oli Nuxe, un kit di pennelli con setole naturali per applicazioni, alcuni con forme a me sconosciute, palette di colori per ombretti, rossetti, blush, terre e fondotinta Chanel con tonalità differenti a seconda della luce del giorno, per ricreare un effetto seconda pelle. Continuavo a girare intorno alla stanza, guardando nell'armadio e sulle mensole, ma i trucchi, i vestiti, tutte le cose che un tempo mi furono care, ormai non ne sentivo più la necessità. Marcello aveva provveduto bene a sopperire ad ogni aspetto della mia quotidianità, mettendomi a disposizione molte più cose di cui avevo realmente bisogno. In un attimo, sembrò che quella stanza, quella casa, quella vita non mi appartenesse più. Forse ero io a non appartenere più a me stessa. D'altronde, da troppo tempo non ero più io a scegliere cosa indossare, come vestirmi, come truccarmi. C'era Rafael per questo, per sapere invece cosa fare durante la giornata, chi incontrare, quali impegni portare a termine, e per tutto il resto c'era Marcello.

Avevo il vestito grigio in una borsa, il PC nell'altra e tra le dita l'anello di Valerio. Non mi interessava prendere altro, sentivo che non desideravo avere bisogno di altro. Entrando nella cucina, trovai gli occhi ruggine di Marta, rotti dall'emozione, come se avesse intuito che il nostro non fosse solo un saluto, ma un addio. O almeno così sembrava stesse accadendo.

«Giorgio mi ha chiesto di andare a vivere da lui» sputò d'un fiato Marta, come per discolparsi.

«Sono contenta che le cose stiano andando bene tra voi,» feci una pausa per raccogliere le idee, poi chiesi, conoscendo già la risposta, «dobbiamo chiamare il proprietario per disdire il contratto di casa?». Marta era ad un metro di distanza, entrambe con gli occhi quasi pronti a piangere, stavamo dicendo addio alla nostra casa, entrambe non potevamo permetterci di pagare un affitto extra, entrambe stavamo rivivendo nella mente la prima volta che ci eravamo conosciute. Erano trascorsi cinque anni, non avevo ancora compiuto vent'anni, mentre Marta frequentava l'università già da qualche anno. Ero una matricola e Marta era stata la sorella maggiore che, da figlia unica, avevo desiderato da sempre. A lei avevo confidato i miei amori, le mie sconfitte e le mie vittorie. Marta sapeva consigliarmi senza aspettarsi che io sapessi mettere in pratica le sue parole.

«Come sta andando con Marcello?» provò a chiedere pacata, celando male un velo di preoccupazione.

«È sempre lo stesso, ma vuole che gli stia vicino. Per Marcello, le relazioni sentimentali, l'amore, non esistono. Trascorrere del tempo insieme è il massimo che può darmi» risposi.

«È questo che ti basta?» rincarò Marta.

«Sto cercando di capirlo» ridussi tutte le altre ansie che avrei voluto condividere con lei.

«Dovresti chiamare Paolo, l'ho sentito un paio di sere fa. È in pensiero per te» suggerì.

«È venuto a cercarmi qualcuno in questi giorni».

«Parli di Valerio?» provò a farsi strada tra i miei pensieri.

«Anche...».

«Nessuno» mi sorrise gentile, accarezzando i capelli bene in piega.

«Devo andare» le diedi un bacio pieno di affetto, poi presi la porta e mi imposi di non guardarmi indietro.

Arrivata alla macchina, Marcello aveva ancora quel suo sguardo tagliente come due wakizashi, e con aria impaziente leggeva ogni mio passo da sopra agli occhiali scuri. Sgambettavo sui miei tacchi vertiginosi, cercando di abbreviare quanto prima la distanza tra il portoncino e il nervosismo di Marcello che leggevo nella sua mascella contratta come un pitbull prima di mordere.

«Quando stamattina ti sei proposto di accompagnarmi, sembrava che ti facesse piacere» entrai in macchina cercando di rompere il suo ostile mutismo. Nulla.

«Speravo ti saresti comportato in maniera più cortese con i miei amici!».

L'auto ruggì ed iniziò a consumare velocemente l'asfalto. Pensai che Renato avesse già ricevuto indicazioni su dove andare mentre aspettavamo il mio arrivo. Per quanto correva e si inseriva deciso tra le macchine in coda, avevo il terrore di schiantarci ad ogni curva. Marcello restava composto, sicuro nei suoi gesti sul tablet, ma c'era qualcosa che lo innervosiva e cercavo uno stratagemma per scoprirlo.

«Quanto hai perso per dedicarmi un paio di ore questa mattina?» lo istigai cercando di inchiodare i suoi occhi.

«Di cosa stai parlando?» mi controinterrogò Marcello.

«Voglio sapere perché sei così arrabbiato con me!».

«Pensi che sia arrabbiato con te?» mi guardò, poi prese la mia mano e la baciò. «È successo qualcosa al Madama. Ecco perché stamattina preferivo che andasse Renato a prendere le tue cose».

«Vuoi che chiamo Gloria?» entrai in modalità operativa.

«Ci siamo sentiti stamattina. Mi ha chiamato dicendomi che c'erano dei problemi, ma non ha voluto aggiungere altro. Mi ha chiesto di raggiungerla lì. Sinceramente, non sono nemmeno sicuro che sia il caso che venga anche tu, ma dovrei tagliare in due Roma per riportarti a casa ed andare poi al cantiere» concluse. Era forse la prima volta, da quando lo conoscevo, che condivideva con me un suo pensiero, una sua preoccupazione. Mi resi conto di essere stata stupida a credere che fosse stato scortese, quando invece stava accontentando una mia richiesta, anche se aveva fretta di raggiungere il Madama per sistemare chissà quale emergenza.

Restai ferma e zitta, al mio posto, come una bambina sgridata per una marachella. Avevo un patto con il mio carceriere: per saldare i debiti di Valerio, dovevo diventare una cosa sua. Ed ero stata io a deciderlo, a concedermi. Diventare qualsiasi cosa lui avrebbe voluto era l'unica cosa che mi restava e volevo, ad ogni costo, riuscirci. Anche se dovevo rinunciare ai miei amici, alla mia famiglia. Anche se stargli vicino mi spaventava, mi metteva disagio e soggezione. Ma avevo capito, ritornando in quell'appartamento piccolo e disordinato, di avere bisogno di rintanarmi nella sicura comodità che Marcello mi metteva a disposizione.

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