Prologo

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"Delle volte nella vita basta un gioco di sguardi, il posto, il momento giusto e un tacco rotto per cambiare il corso delle cose"

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Tutte prima o poi nella vita speriamo di vivere la storia d'amore che vediamo solo nei film.

Tutte.

Anche la più bugiarda, la più scettica, quella con il cuore più spezzato, nel profondo del proprio io, sta ancora sperando di trovare quella fantomatica anima gemella di cui tutti parlano.
Così, come fosse un'oasi nel deserto, o un'apparizione divina.

Non si sa dove sia, come si chiama o come si paleserà nella nostra vita, ma sappiamo che dietro un qualsiasi angolo, c'è chi è pronto a stravolgerci la vita.

Stravolgere è anche abbastanza un eufemismo.
E non sempre in positivo.

A trent'anni io anni vivevo un'esistenza effimera, una vita di plastica.
Finta.

Si, come quelle delle bambole.
Una architettonica creazione fittizia della felicità.

Una casa perfetta, un marito perfetto, un cane amorevole, un figlio splendido, vicini che ti salutano quando esci con l'auto nel vialetto per andare al lavoro. Tutto ciò che chiunque invidierebbe.

Sui vicini ci sarebbe molto da dire, ma cercherò di non dilungarmi.

Un impiego soddisfacente, ma non valorizzato per i molti anni passati sui libri.
Ore e ore di occhi gonfi e occhiaie per laurearmi, per poi finire a dirigere una piccola squadra di scansafatiche in un ristorante nel mio piccolo centro cittadino, certo prestigioso e di lusso, ma pur sempre un ristorante.

Per una laurea in marketing, forse era un ambizione un po' riduttiva, ma che permise di vivere egregiamente la mia perfetta vita di plastica.

Il mio capo, una razza bastarda senza eguali, è un cicciotto di mezza età con pochi capelli e con anche con meno ambizioni di me.

O almeno così pensavo...

Mi assunse che ancora mi dovevo laureare, inizialmente come cameriera.
Poco dopo essersi scontrato con il mio carattere testardo e imperativo, ha deciso che non potevo essere solo una cameriera. Non mi si addiceva.

E poi, il signor Fausti era una frana a tenere la contabilità del locale, così ha potuto sfruttare al meglio i miei studi per tenere sotto controllo le entrate e le spese del posto.

Tendo a precisare, una razza bastarda di uomo.

Ma non nei miei confronti, o per lo meno non sempre. Quando gli dissi che ero incinta, pensai trovasse una banalissima scusa per liquidarmi come aveva fatto con la precedente cameriera e assumere una più bella, senza impegni e soprattutto non impossibilitata dalla gravidanza.

Invece no.
Non solo decise di responsabilizzare il mio ruolo all'interno del locale, ma mi permise di non indossare quella divisa orrenda e scomoda da cameriera che, nel mio stato, mi faceva sembrare una mongolfiera.

La sostituì poi con un tailleur nero molto sobrio che, per mia grande fortuna, fino al sesto mese di gravidanza, mi garantì di passare inosservata davanti a occhi indiscreti e boccacce sporche di clienti e turisti.

Il nostro locale tuttavia, più che un semplice ristorante situato in una modesta cittadina del nord, sembrava un circolo chic per tesserati. Come i golf club, per intenderci.

Ed erano sempre le stesse facce grosso modo che entravano e uscivano dal F&F (nome non scontato, scelto accuratamente dal signor Fausti in onore del padre, fondatore del locale).

Il ristorantino, situato in una posizione di pregio della città era spesso sede di cene d'affari, matrimoni sontuosi e banchetti importanti. Il nome del locale divenne famoso perché il signor Fausti scelse ad hoc pure il capo cuoco, Massimiliano. Uno chef stellato, un uomo stupendo, un artista dei fornelli sulla cinquantina con esperienze all'estero in locali pluripremiati. Ogni giorno proponeva sempre qualcosa di nuovo ed invitante, pertanto non era possibile non apprezzare il suo lavoro.

Massimiliano fu come un padre per me sin dal primo giorno e quando iniziai a lavorare da F & F fu l'unico che seppe darmi i consigli giusti.

Lavorai a stretto contatto con lui, entrando e uscendo dalla cucina, tenendo tra le mani i piatti che lo avevano reso tanto famoso.

Ci lega da sempre un profondo rispetto e una grande amicizia.

Fu il primo a sapere che a quattro esami dalla laurea ero rimasta incinta, mi fece promettere che un giorno avrei ambito ad essere qualcosa di più di una semplice cameriera e che la gravidanza non mi avrebbe mai fermata.

Ogni giorno cerco di non deluderlo.

Dopo quattro anni dalla nascita di Filippo, lavoravo ancora nello stesso posto, ma l'arrivo del bambino fu la cosa più bella che mi potesse regalare la vita. Avevo solo venticinque anni e un sacco di sogni nel cassetto, ma pochi soldi, quando scoprii di essere rimasta incinta. La mia famiglia rimase profondamente interdetta quando durante la cena del mio venticinquesimo compleanno, stringendo la mano di Marco, con cui ero insieme da poco più di sei mesi, comunicai la notizia.

Mia madre si mise le mani tra i capelli.
Pensava già alle spese, a con chi far stare il bambino e soprattutto, dove avremmo vissuto io e Marco.

Si, perché dopo solo sei mesi che lo conoscevo e lo frequentavo, con un università da finire, due neo genitori non messi benissimo dal punto di vista economico, l'arrivo di un neonato era un bel problema.

Marco si prese tutte le responsabilità. Decidemmo di far nascere questo bambino e di dargli tutto quello che avevamo, per renderlo un bambino felice.
Affittammo un piccolo appartamento vicino al locale, troppo piccolo per una futura mamma con gli ormoni impazziti e un neolaureato in lingue sempre pronto a progettare nuovi viaggi e alla ricerca di un lavoro all'estero.

Lavoro andato in fumo a causa dell'arrivo di Filippo.

Ridotto all'osso dal punto di vista tanto economico, quanto morale, Marco era dunque rimasto a lavorare per una ditta del posto come traduttore. Un posto che diceva soddisfarlo, ma che io sapevo non essere così.
Glielo leggevo in faccia ogni giorno che non aver inseguito i suoi sogni lo faceva sentire incompleto. Forse anche frustrato.

Dopo aver comunicato alla mia famiglia l'imminente "lieto evento", Marco che proveniva da una famiglia tanto legata alle usanze quanto profondamente cristiana, decise di sposarmi. Dal primo momento non ne fui entusiasta, ma anche la mia famiglia pensò fosse l'idea migliore, anche per non attirare le maldicenze cittadine.

A me, personalmente, non interessava per niente sposarmi, ma furono tutti molto caparbi nel convincermi che era la cosa migliore per Filippo, per il bambino che portavo in grembo.

Si organizzò tutto di corsa, il signor Fausti ci permise di fare il banchetto al F&F pagando una cifra esigua, Massimiliano cucinò per noi un pranzo favoloso e la giornata terminò con del vomito sul vestito che avevo comprato per l'occasione.
Un orrendo abitino color pesca fino al ginocchio con una generosa scollatura, pagato poco perché l'ultima taglia. Una quarantotto. Ero ormai abbastanza avanti con la gravidanza il giorno del matrimonio.
Senza mezzi termini, ero grassa.

Quella notte, la prima da neo sposi, io e Marco non facemmo l'amore. Io ero distrutta dalle nausee che mi accompagnarono per tutta la gravidanza, lui troppo sbronzo per tentare di avvicinarsi a me senza svenirmi addosso. Prima di dormire però, decidemmo che il nostro bambino si sarebbe chiamato Filippo. Un bel nome mi disse, collassando sul letto ancora da disfare.

L'inizio di qualcosa che in pochi anni avrebbe davvero stravolto le nostre vite.

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