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Dieci ore prima.


Era venerdì e nell'aria aleggiava il tipico sollievo dell'ultimo giorno di scuola nella settimana, con in vista due lunghe giornate di meritato riposo. Il sole splendeva carezzevole quel mezzodì di ottobre e sulla pelle si sentiva il giusto tepore di quando non faceva né caldo né freddo. Un venticello soffiava leggero per le strade della periferia di Roma, portando con sé il profumo di salsedine proveniente dal mare.

Fuori dalla mia scuola, respirai a pieni polmoni la libertà che quel giorno portava con sé, sentendomi già più leggera. Era stata una giornata faticosa: avevo svolto un test di scienze per niente facile e seguito due interminabili ore di storia dell'arte che mi avevano reso gli occhi pesanti, rischiando continuamente di farmi addormentare. Non ero ciò che i miei compagni avrebbero definito "secchiona", ma a scuola non me la cavavo affatto male, quindi per me era stata una dura prova quella di non cedere alla tentazione del sonno. Dovevo mantenere la media dell'otto che mi ero faticosamente guadagnata. Subito dopo, però, c'era stata l'ora di inglese, materia in cui potevo permettermi di oziare perché conoscevo la lingua come le mie tasche. I miei genitori non erano anglofoni, eppure avevo iniziato a parlare questa lingua in modo sempre più fluido dopo molteplici sogni in cui la utilizzavo in modo innato. Mia madre diceva che ero poliglotta per spiegare l'inspiegabile, ma era comunque strano che nessuno me l'avesse mai insegnata.

«Ehi, Luki! C'è Darrell» mi avvertì Valeria con una risatina. Sentirmi chiamare Luki ormai era diventata un'abitudine. Da quando frequentavo le superiori, il mio nome era diventato quello e non più "Lucrezia". Persino mia madre aveva iniziato a chiamarmi così, dopo averlo sentito da Valeria. La ragazza aveva sempre affermato che il mio intero nome era troppo lungo e, nonostante all'inizio fosse stato strano sentirmi chiamare con quel diminutivo, alla fine mi ci ero piacevolmente abituata.

Valeria era la mia migliore amica, nonché fissa compagna di banco da tre anni. Fin da subito avevo potuto notare quanto fosse brillante, un po' egocentrica ma simpatica, e molto attaccata alle persone a cui voleva bene. Ovviamente io rientravo in queste ultime e lei nelle mie. Era davvero una persona fantastica, sia fuori che dentro, nonostante si lamentasse continuamente della sua limitata altezza. Le avevo detto più volte che i ragazzi preferivano focalizzare la loro attenzione sui suoi pregi più evidenti: i capelli setosi che le arrivavano fino al fondoschiena in una cascata dorata e dei grandi occhi di un brillante marrone verdognolo, spesso abbondantemente truccati, ma ciò contribuiva solo a renderla ancora più ammirata.

La sua espressione ammiccante era, come al solito, rimarcata da due sopracciglia ad ala di gabbiano, e lasciava intendere molto più di quanto le sue parole non facessero. Le volevo davvero bene, ma quando faceva così non la sopportavo, e ultimamente accadeva sempre più spesso.

Le diedi una spinta giocosa e scossi la testa, rassegnata. Non avevamo proprio gli stessi interessi, ma, per qualche motivo, eravamo inseparabili.

Mi voltai verso Darrell, osservandolo in lontananza. Vederlo mi lasciava sempre senza fiato: era davvero il ragazzo di più bell'aspetto che avessi mai incontrato, e su questo non avevo dubbi. Ogni volta che lo guardavo, quella sicurezza si faceva strada in me, lasciandomi affascinata e rapita da lui. Nonostante ormai avessi imparato a conoscerlo, conservava sempre quell'aria sensuale e misteriosa che mi aveva conquistata già dalla prima volta. Aveva un fisico slanciato ed era poco più alto di me che, essendo una ragazza, ero un po' sopra la media. I suoi corti capelli castani erano pettinati ordinatamente all'insù quel giorno, conferendogli un'aria seria ed elegante, accentuata dalla camicia che portava con spontaneità. I suoi profondi occhi marroni gli donavano uno sguardo duro e penetrante, ammorbidito dal sorriso gentile che mi stava rivolgendo.

Senza nemmeno accorgermene, mi ero diretta verso di lui, dimenticandomi di Valeria. Mi sarei fatta perdonare quella sera, chiamandola. Sicuramente sarebbe stata entusiasta in ogni caso del fatto che Darrell mi era venuto a prendere a scuola, e avrebbe voluto sapere ogni dettaglio del niente che, secondo me, sarebbe successo di lì a poco.

La brezza fresca di quell'autunno mi scompigliò i capelli proprio nel momento sbagliato, facendomi imbarazzare davanti a quel ragazzo magnifico. Darrell però non sembrava badare ai miei capelli, continuando a guardarmi negli occhi e, non appena mi raggiunse, mi porse un oggetto sottile, sorridendomi come sempre. Troppo intenta a osservarlo, non mi ero accorta che mi aveva donato una rosa, che in quel momento tenevo tra le mani con sguardo rapito. Era tutto nuovo per me: qualcuno che mi rivolgeva attenzioni, i fiori, i regali... un ragazzo che mi veniva a prendere a scuola! Sembrava tutto così irreale, eppure non lo era.

«Grazie» sussurrai, anche se quella parola non bastava a esprimere per intero la mia gratitudine. Non era la prima volta che mi donava un fiore, ma ciò non la rendeva per me una cosa da poco. Avevo sempre tenuto molto ai regali che mi venivano fatti, di qualsiasi natura essi fossero. Per questa ragione, e anche perché non sapevo spiegarmi la motivazione di tanto interesse verso di me, ero a dir poco entusiasta del piccolo dono che avevo appena ricevuto.

Pur sapendo di non essere una ragazza bruttina, non mi consideravo nemmeno alla sua altezza. I miei piatti e lunghi capelli biondi risultavano costantemente spettinati dal vento di ottobre, mentre gli occhi tra l'azzurro e il verde erano, forse, l'unica parte del mio corpo che poteva attirare attenzione. Il colore delle iridi, tuttavia, era comunque un dettaglio molto insignificante rispetto al resto. Non ero niente più delle mie coetanee, tranne che per l'unica cosa particolare che avevo, ovvero l'altezza, che però non aiutava affatto nel sentirmi carina: i ragazzi cercavano ragazze piccole e dolci come Valeria, non alte e slanciate come me. Darrell, invece, sembrava trovare nella sottoscritta qualcosa che gli altri non vedevano, qualcosa che, secondo me, proveniva dalla sua immaginazione.

Lo avevo conosciuto circa un mese prima, scontrandomi con lui all'entrata della scuola e facendo la classica figura dell'incapace. Invece di ridere di me mi aveva aiutata a raccogliere le mie cose, e in quel momento avevo capito di trovarmi davanti un ragazzo fuori dal comune. Non potevo crederci quando sembrava essersi interessato a me, ma poco più di tre settimane dopo mi ero ritrovata a baciarlo nella sua auto, con il dubbio di aver corso troppo respinto dalla sua dolcezza e premura.

Negli ultimi giorni aveva preso l'abitudine di venirmi a prendere a scuola dopo il lavoro, facendo diventare verdi d'invidia tutte le mie compagne. Non mi interessava ciò che dicevano alle mie spalle, se poi al mio fianco c'era una persona che non mi sarei nemmeno mai sognata di avere.

Mi incamminai verso casa, accompagnata da quel ragazzo a cui tenevo tanto. Nella mano destra portavo la rosa, nella sinistra stringevo le sue dita fredde.

Nonostante l'aria risultasse ancora calda, avevo molto freddo rispetto ai miei compagni di classe, che venivano a scuola con le maniche corte. Persino Valeria soffriva per il calore e mi riteneva strana per il mio eccessivo rabbrividire alla prima folata di vento. Darrell, invece, mi faceva sentire un po' più normale: sembrava risentirne e coprirsi quanto me, e le sue mani gelate ne erano la dimostrazione.

«Oggi devo scappare subito, ma nel pomeriggio ho una sorpresa per te» mi disse con il suo strano accento, appena fummo arrivati sotto casa mia. Una volta gli avevo chiesto come mai avesse quella parlata particolare, e lui aveva risposto che i suoi genitori erano canadesi, anche se lui era nato in Italia. Questo spiegava anche il suo nome davvero poco diffuso.

La curiosità prese il sopravvento e dimenticai qualsiasi cosa stessi pensando in quel momento. «Di che si tratta?» chiesi con un gran sorriso. Avevo sempre amato le sorprese. Mia madre era solita preparare per me biscotti, torte e dolci di tutti i tipi, e amava tirarli fuori all'improvviso e vedere la mia reazione.

«Se te lo dicessi che sorpresa sarebbe? Ci vediamo più tardi» esclamò ridacchiando, dandomi un bacio sulla fronte per poi allontanarsi verso casa sua.

Ripensandoci, non ero mai stata a casa di Darrell, non sapevo bene nemmeno dove fosse. Sapevo solo che non era lontana dalla mia. Forse voleva portarmici. Magari voleva farmi conoscere i suoi genitori. Era la prima volta che mi capitava una cosa del genere e io ero del tutto inesperta nei rapporti con l'altro sesso.

Con quel pensiero che mi teneva in agitazione, riuscii a malapena a pranzare e passai il primo pomeriggio davanti al mio armadio, senza sapere cosa indossare. I miei vestiti erano tantissimi, ma per qualche strana ragione parevano non essere mai abbastanza. Non sembrava starmi bene niente, nonostante avessi preso in considerazione almeno una ventina di abbinamenti. Non avevo idea di cosa avrebbe fatto Darrell quel pomeriggio, se mi avrebbe portata da qualche parte o se mi avrebbe donato un'altra rosa. Non avevo alcun indizio, quindi la scelta era ancora più complicata.

Alla fine mi misi il cuore in pace e scelsi un paio di jeans scuri che riuscii a farmi entrare per miracolo e una canottiera bianca coperta da una camicia a quadri rossa e nera. Non ero soddisfatta per niente, ma perlomeno avevo qualcosa di decente addosso.

Nel tempo che mi rimaneva, armeggiai con i miei capelli per pettinarli e renderli mossi. Non mi dispiacevano lisci come al solito, purché non si annodassero subito, ma se quella era un'occasione speciale, allora avrei dovuto essere carina. Non ero molto esperta in queste cose, ma alla fine riuscii a farmi qualche boccolo soddisfacente in mezzo a quella massa insignificante. Non erano niente messi a confronto con quelli che mi faceva Valeria, ma potevano andar bene lo stesso. Forse. Mi pentii di non aver pensato a chiamarla, ma ormai era troppo tardi.

Quando suonò il campanello, per poco non mi venne un infarto. Mi diressi verso l'ingresso correndo come una matta e lasciai a mia madre un bigliettino sul mobile vicino alla porta, avvertendola che avrei fatto un po' tardi. Non sapevo se si sarebbe rivelato vero, ma per sicurezza glielo scrissi ugualmente.

Aprii la porta sistemandomi un'ultima volta i capelli e mi diressi fuori, inspirando a pieni polmoni l'aria fresca che sapeva di terra e foglie secche.

Darrell mi stava aspettando con il suo fantastico sorriso dolce stampato sul viso e un piccolo oggetto tra le mani. Mi venne incontro, salutandomi con un bacio che mi fece mancare il fiato, e poi mi chiese se fossi pronta.

Annuii, notando cosa teneva in mano. Era un piccolo pezzo di stoffa nero, del quale non riuscii subito a capire l'utilità. Lo osservai per un po' e poi rivolsi a Darrell uno sguardo interrogativo.

«Non vorrai mica rovinarti la sorpresa!» sorrise, portando il pezzo di stoffa all'altezza dei miei occhi. Capii che voleva tenermi all'oscuro fino alla fine.

«È da prima che mi chiedo cosa sia. Se devi bendarmi, sbrigati.»

Chiusi gli occhi e lui li coprì. Non volevo rovinare la sorpresa, perciò mi promisi di non sbirciare, nonostante la forte tentazione.

Mi diede un bacio inaspettatamente improvvisato e poi mi disse: «Ci vorrà un po', ma tu rimani con gli occhi chiusi, ok?»

Annuii, sempre più curiosa, e poi salii sull'Alfa Romeo di Darrell con il suo aiuto. Mi sistemai sul sedile del passeggero e allacciai la cintura, assaporando la sensazione di calore dell'aria condizionata che sfiorava la mia pelle. Non era la prima volta che salivo sulla sua auto, ma ancora mi stupivo per il comfort e la velocità che poteva raggiungere. Per essere la macchina di un ragazzo era di gran lunga fuori dagli standard.

Darrell era stranamente silenzioso, quindi non insistetti per iniziare una conversazione e rimasi persa nei miei pensieri. Dopo quelle che sembravano ore eravamo ancora in viaggio e iniziai a preoccuparmi di non poter tornare a casa in tempo. Lui dovette accorgersene perché mi strinse la mano dolcemente e sussurrò: «Tranquilla, non faremo tardi. Manca poco.»

«Ok...»

Girai il volto verso il finestrino aperto e, sebbene non ci vedessi, tentai di immaginare dove fossimo diretti. Le opzioni erano così tante e al contempo così poche che non riuscii a formulare nemmeno un'ipotesi plausibile. Non lo conoscevo da tanto, quindi, se non stavamo andando dai suoi genitori, non avrei proprio saputo cosa pensare.

Esaurii le idee e mi arresi cadendo nel sonno, cullata dal tepore del sole fuori dal finestrino.

«Ehi, dormigliona, sveglia! Siamo arrivati.»

Eravamo arrivati? Finalmente! Il fatto che avrei potuto vedere la mia sorpresa fu il mio primo pensiero.

«Quanto ho dormito?»

«Circa un quarto d'ora.»

Un quarto d'ora. Allora perché sembrava che al di là della benda che avevo sugli occhi fosse buio? Dovevo per forza sbagliarmi, Darrell mi aveva assicurato che avremmo fatto in tempo a tornare. Forse era un effetto del sonno, o eravamo in una zona d'ombra. Feci per togliermela, ma lui mi bloccò.

«Resisti ancora qualche minuto. Fatti guidare da me» sussurrò con voce suadente, carezzandomi il collo con le labbra. Un brivido mi percorse la schiena andando a riscaldare il mio stomaco, improvvisamente sottosopra. Mi dimenticai delle preoccupazioni e mi abbandonai completamente a lui, che mi aiutò a scendere dall'auto. Non ero mai tornata in ritardo a casa in vita mia, solo per questa volta mia madre mi avrebbe aspettata.

Cominciammo a camminare su quello che sembrava essere un prato: il terreno era soffice e irregolare, come se ci trovassimo in campagna. Dopo circa cinque minuti poggiai i piedi su un inaspettato pavimento solido e rettilineo. Supposi che eravamo entrati da qualche parte perché notai un cambiamento nell'aria: c'era odore di pulito e il calore era intenso. Adoravo il caldo, quindi non mi lamentai. Dal rumore che ne seguì, dedussi che stavamo entrando in un ascensore e che stavamo salendo. Non sentivo nessuno intorno a noi, ma sembrava di stare in un palazzo o qualcosa del genere. Più passava il tempo e più la curiosità mi tormentava. Mi ordinai di resistere ancora per poco. Presto avrei visto la sorpresa.

Fuori dall'ascensore feci ancora qualche decina di passi ed entrai in una stanza. Sentii la porta chiudersi e poi le mani fresche di Darrell che mi scioglievano la benda. Mi ci volle qualche secondo per rimettere a fuoco la vista, poi inquadrai quella che sembrava a tutti gli effetti una camera da letto. Era parecchio disordinata, con scarpe e vestiti in giro e il letto sfatto. Una maglietta dei Nirvana se ne stava sbatacchiata sopra un paio di Vans blu a terra. Un pallone da basket era poggiato sul comodino vicino al letto, rischiando di cadere da un momento all'altro e portare con sé tutti i piccoli oggetti vicini. I mobili, così come le coperte e le tende, erano di un azzurro chiaro, e le pareti del medesimo colore ma ancora più tenue, quasi bianco.

«Dove siamo?»

Questa era la mia sorpresa? Una camera in disordine? Non che mi interessasse qualcosa di più, l'importante era che fossi lì con lui, però volevo capire.

«Benvenuta a casa mia, Lucrezia. La tua nuova casa»sussurrò lui con voce gelida.    

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