Capitolo 6

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Aprii gli occhi di scatto, mentre il cuore galoppava senza freni verso un abisso infinito. Ancora il buio impenetrabile a permeare la mia vista, ancora il silenzio ininterrotto di prima che mi lambiva le orecchie. Cosa mi era successo? Dovevo essere svenuto. Mi ricordai improvvisamente del sangue che colava lento ma costante dai miei polsi e mi obbligai a rimanere fermo, nonostante il senso di oppressione che provavo fosse a livelli molto alti.

Le tenebre rischiavano di farmi impazzire, ma mi imposi di rimanere calmo. Ora conoscevo la situazione, sapevo già in che stato mi trovavo, restava solo il dover ricordare. Ciò che temevo tanto, ora si rivelava una necessità, perciò strinsi i denti e sforzai la mia mente offuscata dall'incoscienza che mi aveva avvolto fino a poco prima.

Le immagini mi aggredirono con violenza una dopo l'altra, senza nemmeno darmi il tempo di respirare. Gemetti, schiacciato dal peso delle rivelazioni che senza sosta mi stava fornendo la mia mente. Spari rimbombanti, grida e lacrime riempirono le mie orecchie mentre immagini di sangue e sofferenza scorsero rapide davanti ai miei occhi come una sequenza terrificante. Tentai di piegarmi per affrontare meglio il dolore, ma una fitta tornò a tormentare i miei polsi e mi ricordai che non potevo muovermi. Il peggio fu quando le immagini arrivarono a raccontarmi la fine, stabilizzandosi su un volto preoccupato che il mio cervello catalogava come angelico.

Lucrezia.

Era quella la parola che si espanse nella mia mente al ricordo del viso contornato da una cascata di capelli biondi. Il suo corpo slanciato che si allontanava e si metteva in salvo tra le braccia di Darrell mi fece sospirare, straziato ma felice. Il sollievo permeò il mio corpo ferito, facendo quasi sparire il dolore che si estendeva ovunque. Lucrezia stava bene. Era quello l'importante.

Subito dopo però, le sensazioni di gioia e felicità si attenuarono per lasciare spazio a qualcosa di più incombente. Cosa ci facevo lì? Ero palesemente ancora vivo, ma perché? Come poteva essere possibile? "Chi viene preso dagli Orion non fa più ritorno" mi avevano sempre detto. Ma allora perché non ero ancora morto? Per quale motivo mi tenevano in vita?

La paura dell'ignoto mi pervase, strisciando dentro di me mentre mi convinceva pian piano che qualsiasi cosa mi stesse aspettando sarebbe stata peggiore della morte stessa.

Strinsi i denti fino a sentirli scricchiolare e attesi, la pressione all'interno delle mie labbra che cresceva sempre più. Se qualche sorpresa fosse stata mantenuta in serbo per me, allora sarebbe arrivata molto presto. In caso contrario invece, avrei esalato il mio ultimo respiro di lì a breve e avrei accolto la morte come un'amica.

Non mi sbagliai.

Un rumore attirò subito la mia attenzione e mi irrigidii nel momento in cui udii uno spostamento metallico. Qualche istante dopo, uno spiraglio di luce illuminò la stanza, dandomi la possibilità di intuire le fattezze del luogo in cui mi trovavo. Un muro dall'intonaco stinto che cadeva a pezzi fu la prima cosa che riuscii a scorgere nella penombra. Il pavimento sembrava fatto di cemento e in certi punti era coperto di un piccolo strato verde. Non riuscii a distinguere nient'altro: quella che doveva essere la porta d'ingresso era posizionata alle mie spalle.

All'improvviso sentii delle voci parlottare tra loro. Ci misi un po' ad abituarmi alla loro lingua che raramente sentivo, quindi non capii fin da subito cosa stessero dicendo.

«...perché non è come gli altri. Il ghiaccio non ha avuto effetto su di lui.» Riuscii a cogliere un ultimo sprazzo di una conversazione che mi ero perso, ma tentai di recuperare la mancanza. Tesi l'orecchio, vigile, e rimasi in attesa di sentire ancora quella voce femminile e formale, come fosse di una segretaria o qualcosa del genere.

«Questo è da vedere» rispose una seconda voce, maschile, questa volta. Al contrario della prima, sembrava appartenere a un individuo più vecchio.

Orion, mi comunicò il mio cervello, mettendo in allarme tutto il corpo. Mi irrigidii, teso, contraendo i muscoli dorsali e ricevendo una stilettata dalla ferita che mi avevano inferto.

«Questi sono i risultati delle analisi delle provette che ci avete fornito ieri, dottore» espose la voce della donna, facendomi rabbrividire. Avevano analizzato il mio sangue?

Un fruscio di fogli riempì l'aria stantia. L'uomo ci mise qualche istante a rispondere, forse contemplando i dati che gli erano stati appena forniti.

«Uhm, sì... I valori sono altissimi, ma per essere quelli di un changer sembrano nella norma.» Il modo in cui pronunciò "changer" fu raccapricciante. Come se io fossi una cavia e lui volesse scoprire più su di me.

Come faceva a sapere la media dei valori sanguigni di uno di noi? Ne aveva esaminati altri prima? Un conato mi investì pensando alla brutta fine che avevano fatto tutti gli altri come noi. Se noi pensavamo che ci uccidevano, sbagliavamo di grosso.

«Quindi sta bene? Perché il suo corpo non reagisce?»

«Lo scopriremo adesso» disse il dottore, spalancando la porta con un cigolio.

Una luce accecante mi investì, ferendo i miei occhi abituati al buio dopo tanti giorni. Gemetti, rivelando loro di non essere più incosciente, ma tanto non avrei avuto scampo in ogni caso.

«Guarda, è sveglio. Finalmente! Ci hai fatto attendere, eh, capelli bianchi?» Il tono dell'uomo era falsamente amichevole, ma una freddezza distaccata si poteva sentire chiaramente nella sua voce.

Digrignai i denti. Il fatto di non poter guardare in faccia i miei nemici mi faceva sentire più vulnerabile, anche se in ogni caso non avrei potuto fare nulla per difendermi. Ero stato privato anche della possibilità di osservare ciò che mi sarebbe stato fatto.

«Brutte ferite... È un miracolo che tu sia vivo!» osservò lui con finta aria sorpresa. «Però, sembra che le nostre tecnologie a basse temperature non facciano effetto su di te. Tutti i changers ne soffrono, e sicuramente non sei umano. Cosa sei?» Questa volta le parole mi arrivarono lontane, quasi ovattate. Stavo perdendo di nuovo i sensi.

Scossi la testa per darmi una svegliata. Ero in pericolo, non era quello il momento di farmi trascinare via dalla debilitazione. Dovevo vedere in faccia le persone che mi stavano tenendo lì dentro, ma non riuscivo a girarmi. Grugnii per la frustrazione e provai a tirare via il metallo che mi teneva appese le mani al soffitto, ma non feci altro che procurarmi altre ferite. Ero troppo debole.

«Nella situazione in cui sei, come ho già detto, è un miracolo che tu sia vivo. Non potresti mai liberarti da lì, nonostante la tua forza. Ti consiglio di collaborare, renderà tutto più facile per entrambi» disse con una voce quasi smielata che mi diede il voltastomaco.

«Cosa volete da me? Perché non mi avete ucciso?» chiesi finalmente. Il mio tono uscì profondo e minaccioso, celando, con mia soddisfazione, la paura che si espandeva sempre più in me fino a diventare quasi incontrollabile.

«Saresti dovuto morire, come tutti gli altri, oppure avresti dovuto rivelarci qualche informazione. Nessuno di voi lo fa mai, che noia che siete. Ma tu no, tu sei riuscito a sopravvivere al ghiaccio, anzi, non ti sei neanche svegliato!» Una nuova voce, quasi infastidita, subentrò nella stanza. Sembrava appartenere a un giovane ragazzo, che probabilmente non aveva nemmeno raggiunto i diciotto anni.

La porta venne chiusa e la luce sparì, ma un istante dopo ne apparì una un po' più tenue direttamente dentro la stanza. Udii dei passi avvicinarsi a me e mi irrigidii ancora di più, sentendo lacerarsi i tessuti della spalla. I passi si fermarono proprio dietro di me e in quel momento percepii un dito sfiorarmi tra le scapole, freddo quasi quanto la mia pelle. Rabbrividii al contatto e mi ritrassi, consapevole improvvisamente di essere con la schiena nuda e i logori pantaloni di ciò che era rimasto della mia divisa.

«Non toccarmi!» urlai minaccioso.

«Oh, non dovresti agitarti tanto o peggiorerai le tue ferite alla schiena» suggerì amorevolmente il ragazzino, carezzandomi su un fianco e provocandomi una fitta all'altezza di quello che, a giudicare dal dolore, doveva essere un livido.

Gemetti maledicendolo mentalmente, ma mi zittii subito, trattenendo il fiato quando lo sentii muoversi ancora. Il dottore e la sua infermiera non avevano più detto una parola, ma potevo sentire che erano ancora alle mie spalle dai loro respiri controllati.

Il ragazzo camminò lentamente fino a raggiungere la mia visuale, in modo che io potessi vederlo. Lo osservai attentamente, rimanendo spiazzato da una sensazione di dejà vu che mi fece sussultare. Non avevo mai visto quell'individuo, eppure mi sembrava allo stesso tempo familiare.

Non mi ero sbagliato: era abbastanza alto, ma aveva sì e no sedici anni, anche se i suoi lineamenti lo facevano sembrare più infantile. I capelli castani chiari gli ricadevano lisci e in ordine sulla fronte, raggiungendo quasi le orecchie. Sulla sommità del suo capo, un ciuffo ribelle era l'unico segno di disordine in quel ragazzo. Il completo gessato che indossava non si addiceva a un ragazzino, tantomeno se accompagnato dal papillon argentato che fasciava il suo collo. Gli occhi che brillavano tra il verde e l'azzurro avevano assunto un'espressione infastidita, che ora modificava i lineamenti del suo volto fino a farlo sembrare capriccioso. Fu il primo termine che mi venne in mente per descriverlo e, a pensarci bene, gli calzava proprio a pennello.

«Adesso dimmi. Perché su di te il ghiaccio non ha effetto?» La sua domanda conteneva una malcelata curiosità morbosa. Sembravano quasi brillargli gli occhi mentre me lo chiedeva, come se gli stessi per rivelare il segreto dell'eterna giovinezza.

Rimasi in silenzio a osservarlo con fare intimidatorio. Non lo sottovalutai solo per il fatto che fosse un bambino, ma al contrario mi preparai a uno scontro come avrei fatto con chiunque altro. Nonostante non potessi muovermi, il mio corpo, abituato ad anni e anni di addestramento, agiva da solo in situazioni di pericolo come questa.

«Non vuoi dirmelo?» chiese offeso. «D'accordo» aggiunse, un attimo prima di sfoggiare un sorrisetto sghembo che distorse nuovamente i suoi lineamenti, questa volta in una maschera di malvagità.

Un pugno colpì il mio addome prima che potessi rendermene conto, danneggiandomi in pieno. Fu un colpo controllato ma fortissimo, dettato da una potenza che una persona normale non poteva avere.

Mentre il respiro mi mancava e la vista si faceva nera, elaborai un unico pensiero, che mi sconvolse più di tutto ciò che era accaduto fino a quel momento: il ragazzino non era umano.


Koaluch

Perdonatemi per aver saltato l'aggiornamento settimanale di Neve Scarlatta e ritardato quello di Evanescente, ma ho avuto alcuni impegni/contrattempi.

In primis volevo i capelli blu e la parrucchiera me li ha fatti verdi o.o quindi penso possiate immaginare le mie varie disperazioni D: 

Inoltre, la cosa che mi ha tenuta più impegnata di tutte, è l'uscita di Mistral - Tra la vita e la morte, romanzo breve del quale metterò presto l'anteprima qui su Watt ^_^ nel frattempo vi lascio la copertina e il link di Amazon (lo metto anche come link esterno al capitolo) nel caso vogliate curiosare *^* https://www.amazon.it/dp/B072FFDCFF

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