Capitolo 1

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I fiammanti capelli rossi di Fannie furono la prima cosa che vidi quando aprii gli occhi, infastidito dalla luce diurna che entrava impertinente dalla finestra. Una scia scarlatta su un corpo d'avorio dalle forme sinuose.

Rimasi per un attimo a indugiare sulle sue curve celate solamente da un lenzuolo leggero, poi mi imposi di alzarmi e non rimanere ancora. La giornata era iniziata da un pezzo e il sole splendeva già alto nel cielo. Era tempo di dedicarmi al lavoro che avevo da fare.

Camminai per i corridoi dell'Istituto, lasciandomi trasportare dalla solita sensazione di familiarità della mia casa. Quello era l'unico posto dove potevo essere a mio agio, l'unico luogo che, sebbene i miei elevati poteri, mi faceva sentire protetto. Dopo la lunga guerra che la nostra razza aveva combattuto contro gli umani, rintanarci dentro una struttura era l'unica scelta che a quel tempo ci era rimasta, mentre i nostri Mentalisti avevano girato il mondo per cancellare dalle menti umane i nostri ricordi. Era un modo come un altro di auto-tutelarci, ma alcuni nostri nemici se ne erano resi conto troppo presto ed erano sfuggiti a ciò che chiamavamo "l'Oblivio". Erano pericolosi, ci davano la caccia, ma non ci avrebbero mai rintracciati negli Istituti, che erano protetti da Difensori e Occultatori.

Raggiunsi i bagni avanzando con gesti automatici tra i corridoi azzurrini che caratterizzavano il mio Istituto. Nell'ampia sala d'ingresso un getto d'aria calda colpì la mia pelle mentre mi dirigevo a sinistra verso lo spogliatoio maschile. Gli occhi mi caddero per un momento sul profilo muscoloso del mio corpo, riflesso dal grande specchio centrale. I lunghi allenamenti seguiti con diligenza mi avevano reso quello che ero ora. Non ero cieco, sapevo che alcune ragazze dell'Istituto mi trovavano attraente, tuttavia non poteva importarmene di meno. Cosa me ne facevo di un corpo da ammirare se non volevo che qualcuno lo facesse? Dei penetranti occhi grigi mi fissarono seri dall'alto del mio riflesso mentre quei pensieri divenivano padroni della mia mente, ma ben presto distolsi lo sguardo da essi e voltai le spalle alla mia stessa figura.

Scossi la testa con un sorriso amaro, deciso a non distrarmi più. Avevo innanzitutto bisogno di una doccia e poi mi sarei vestito. Lasciai scorrere l'acqua fredda sulla mia pelle, incurante della temperatura. Mi rilassai pensando ai compiti di quel giorno. Avrei incontrato Ace a colazione e subito dopo avrei passato un'ora abbondante ad aiutare Fannie con il suo nuovo compito con l'acqua. Circa due settimane prima, quando avevamo avuto dei problemi con la società che ci riforniva acqua, si era scatenato un putiferio. Per porre un momentaneo rimedio, il capo aveva richiesto espressamente l'aiuto di un Elementalista che producesse acqua per l'Istituto. E di Elementalisti ne avevamo due: io e la ragazza dai capelli di fuoco. Inutile dire che Fannie non ne era stata entusiasta, ma come darle torto? Aveva affermato che un Elementalista non poteva sprecare i propri poteri in questo modo, ma alla fine aveva acconsentito per forza: anche lei teneva al bene dell'Istituto, come tutti quanti noi. Io ero stato risparmiato solo perché avevo compiti più importanti. Il numero alto dei miei Darem aveva determinato in passato il fatto che fossi vice capo, quindi ora avevo molte altre mansioni che non potevo permettermi di sacrificare per stare tutto il giorno a distillare acqua dall'umidità. Aiutare l'Istituto, però, era il mio obiettivo principale, pertanto avevo comunque deciso di mia iniziativa di aiutare Fannie per maggiore produttività, così stavo con lei un'ora al giorno usando tutte le mie forze per produrre più acqua possibile. Era così che ci eravamo riavvicinati: qualche mese prima eravamo stati insieme una notte, per poi non guardarci quasi più in faccia nei periodi successivi. Forse avevo fatto qualcosa che l'aveva ferita, ma non ero riuscito a capire cosa, e sinceramente non me ne ero interessato. Poi, quando avevamo iniziato a lavorare insieme, sembrava che qualunque terribile torto le avessi fatto in passato fosse sfumato via dalla sua mente come un ricordo privo di alcun valore. E così me l'ero ritrovata di nuovo nel letto...

Anziché continuare inutilmente a pensare alla ragazza, cercai di portare i miei pensieri su qualcosa di più producente. Routine: il mio fondamento di vita. Dopo aver aiutato Fannie mi sarei riposato nel mio ufficio studiando i rapporti che mi aveva mandato il vice capo dei Mentalisti il giorno precedente. Il nostro migliore Mentalista, Darrell, era fuori in missione per recuperare rifornimenti d'acqua, quindi dovevo fare affidamento sul suo secondo. Non che non mi fidassi di quest'ultimo, ma Darrell disponeva di un modo di organizzare le cose del tutto inusuale e fuori dal comune. Era informale e poco professionale, ma quando si trattava di ordine era eccessivamente puntiglioso e quasi maniaco della perfezione. In ogni caso, mi sarei dovuto accontentare, non potevo chiedere tutto. Avrei fatto io quello che mancava.

Dopo, finito di riordinare i documenti sui nostri rapporti con l'esterno, li avrei portati ad Ace, mi sarei allenato fino a sera e avrei cenato tardi, per poi andare a dormire subito dopo. Magari avrei trovato Fannie a farmi una sorpresa in camera come il giorno precedente. Un sorriso provò a farsi strada sulle mie labbra, ma lo feci sparire alla svelta, dato che stavo indugiando troppo.

Adottando di nuovo un'espressione neutra, mi sbrigai a uscire e iniziare la mia giornata, che era programmata nei minimi dettagli fino a sera, come piaceva a me.

E così andò. Seguii il mio programma fino all'ora di cena quando, sedendomi al tavolo del ristorante con Ace dopo la doccia post allenamento, mi sentii soddisfatto e appagato del lavoro svolto. I colori aranciati del locale erano rilassanti, così come il profumo di carne che proveniva dal piatto che avevo davanti. Quel luogo era sempre colmo di una piacevole aria rasserenante che si rispecchiava sul viso sorridente di chiunque fosse dietro uno di quei tavolini decorati.

«Ci stai dando dentro, eh, ragazzo? Non ti ho mai visto così genuinamente attivo!» mi fece notare Ace, sottolineando la parola "genuinamente". C'era stato un periodo, dopo la morte dei miei genitori, in cui ero stato ben più attivo di così, ma avevo portato il mio corpo al limite: vivevo in condizioni estreme, senza mangiare e bevendo a malapena, mentre mi allenavo tutto il giorno per sfinirmi pur di non avere la forza di pensare. Strinsi i pugni al solo ricordo. Quelli erano stati giorni bui, dai quali ormai mi ero ripreso, ma ciò non significava che avessi smesso di soffrire per la perdita. Consisteva ancora in una ferita aperta, quella ferita che mi aveva portato a diffidare di chiunque. Nessuno avrebbe più sfiorato il mio cuore, in questo modo nessuno avrebbe più potuto spezzarlo con la sua scomparsa. L'unica eccezione era Ace, che vi si era intrufolato a forza di premure nei miei confronti. Non avrei voluto, ma ormai c'era ed era come un padre per me. Non quel genere di persona che volesse sostituire un genitore, non l'avrei mai permesso, ma un uomo dal cuore d'oro che mi era stato accanto nei momenti più difficili della mia vita nonostante io cercassi di allontanarlo a tutti i costi.

Digrignai i denti ricordando i tempi in cui non avevo avuto più nessuno al mio fianco. Gli umani mi avevano portato via tutto, facendo del mio corpo un guscio vuoto senza sentimenti. Avevano distrutto anche quelli, così come io avrei distrutto loro...

«Voglio tenermi attivo» dissi semplicemente. Il mio tono risuonò più teso di quanto non volessi, così mi schiarii la voce nel tentativo di apparire meno sfrontato la prossima volta, visto che non ce n'era motivo.

«Sei il migliore, Dante!» mi incitò Gabriel, il ragazzino che Ace si portava sempre dietro da tredici anni. Era stato un padre per lui ancor più di quanto lo era stato per me. Quel ragazzino aveva perso i genitori alla nascita, cosa davvero insolita per un changer, quindi Ace si era preso cura di lui. La verità era che lo avrebbe fatto con chiunque, poiché Ace, essendo il capo di questo Istituto, si sentiva un po' come un padre per tutti quanti noi e ci proteggeva, accudendoci al meglio.

«Pensa a mangiare, marmocchio.» Tirai gli angoli della bocca in un sorriso, vedendolo imbronciato. Non amava essere chiamato in quel modo, non amava in generale i nomignoli che lo facevano apparire piccolo. Nonostante ciò, non se lo fece ripetere due volte e si fiondò sul suo piatto con la stessa foga che avrebbe avuto un leone davanti a una gazzella.

Tagliai il primo morso di bistecca al limone, ma mi bloccai con la forchetta a mezz'aria, infastidito. Improvvisamente, si sentì echeggiare un trambusto fuori dalla porta del ristorante, una composizione di suoni e voci che superava persino il chiacchiericcio che aleggiava all'interno della sala. Qualche urlo più forte degli altri sovrastava quello che sembrava un andirivieni di persone agitate che calcavano i corridoi in fretta. Io e Ace ci scambiammo uno sguardo interrogativo, alzandoci dal tavolo nello stesso istante.

«Stai con Gabriel, io vado a vedere che succede e torno subito da voi» mi ordinò, facendomi cenno di risedermi.

«Vengo con te» affermai deciso, cercando di non far trasparire troppo la mia curiosità. Il fastidio si stava mischiando a una sorta di preoccupazione che non mi avrebbe permesso di finire la cena come se niente fosse, lo sapevo.

«No. Rimani qui, ragazzo. Sarò di ritorno presto» impose, senza darmi la possibilità di replicare. Erano ordini del capo e come tali andavano sempre eseguiti, senza eccezioni. Era anche questo ciò che ci distingueva da quella comunità incivile di umani: noi avevamo l'ordine mentre loro il caos. Noi avevamo un senso radicato della giustizia e seguivamo il regolamento, mentre loro non facevano altro che calpestarsi a vicenda per avere sempre più potere. Per il potere e per i soldi avrebbero fatto soffrire il sangue del loro sangue.

Disgustato da ciò che i miei stessi pensieri avevano generato, mi sedetti al mio posto controvoglia, sbattendo piano i pugni sul legno scuro. Mi guardai intorno scocciato, sorvegliando le persone agli altri tavoli. Molti fissavano la porta dalla quale era appena uscito Ace, altri tenevano il loro sguardo fisso su di me, forse aspettando direttive. Presi il coltello per dare buon esempio, ma ero troppo distratto per poter tagliare la bistecca.

Il disordine fuori non si placò nemmeno dopo cinque minuti buoni. Tutti i presenti iniziarono a muoversi a disagio sulle proprie sedie, smettendo completamente di mangiare per fissare all'unisono la porta. Poi, a un certo punto, uno di loro si alzò e spalancò un battente, rivelando ciò che c'era fuori.

Molte persone, per la maggior parte giovani, correvano in tutte le direzioni. Alcuni changers erano vestiti con la divisa che portavano solo durante gli allenamenti, in missione o quando si prospettava qualche pericolo. E noi non eravamo né in allenamento né in missione. Immediatamente mi allarmai, alzandomi per raggiungere in poche falcate l'entrata. Fermai un changer dei tanti che passavano e lo intimidii con uno sguardo fin troppo serio. Percy, mi suggerì la mente, ma in quel momento non mi misi a chiamarlo per nome, né a fare convenevoli.

«Cosa sta succedendo?» gli chiesi con tono autoritario, stringendogli piano la spalla dalla quale lo avevo bloccato per parlargli. La mia voce uscì molto più profonda e adirata di quanto non avessi voluto, ma non era quello che mi importava ora.

Il ragazzo davanti a me ci mise qualche istante a rispondermi, e mi fece sbuffare spazientito. «Darrell. Darrell è tornato senza preavviso. C'è un umano con lui, Dante! Un umano!» Ripeté quel termine due volte con un certo timore che gli fece abbassare la voce. Le sue parole mi gelarono il sangue nelle vene, lasciandomi incredulo e stupefatto.

Umano. Nel mio Istituto. No, non poteva essere. Le difese che avevamo eretto non permettevano a chiunque non fosse changer di vedere l'Istituto, figuriamoci varcarne le porte. Si stava per forza sbagliando. E Darrell, comunque, non doveva essere già di ritorno. Era così assurdo!

«Ti rendi conto di quello che stai dicendo? Non può essere la verità!» ringhiai, pronto a fargliela pagare nel caso in cui mi fossi reso conto che mi stava prendendo giro. Doveva per forza essere uno scherzo.

«Questo è solo ciò che mi hanno detto, ma pensaci un attimo. Se fosse vero saremmo tutti in pericolo!» mi fece notare Percy, urlando più forte che potesse per sovrastare il rumore della gente che stava uscendo in massa dal ristorante.

Con un grugnito lo lasciai andare e percorsi a grandi passi la distanza che mi separava dall'ascensore, tremante dalla rabbia. Corsi in camera e indossai la mia divisa protettiva. Nonostante non soffrissi il freddo, la tuta era utile anche per me in quanto poteva proteggermi da proiettili più piccoli in caso non fossi riuscito a schivarli, inoltre permetteva movimenti che i vestiti normali impedivano. Se era vero che un umano aveva messo piede nell'Istituto, andava ucciso immediatamente. E la missione avrebbe potuto essere pericolosa.

Il ribrezzo mi investì, pensando che per farlo fuori avrei dovuto toccarlo con le mie stesse mani. Ma non m'importava, era un sacrificio che avrei compiuto volentieri, per mia madre e mio padre. Per vendicarli. Avrei sparso il sangue di quell'individuo proveniente dalla peggiore delle razze, colui che, con il suo sporco DNA umano, aveva contribuito all'assassinio dei miei genitori.

Corsi fino al corridoio che mi interessava, tremando più forte di prima. A stento riuscivo a trattenere gli elementi che minacciavano di uscire fuori da un momento all'altro, distruggendo tutto. Ma no, lui non avrebbe meritato di morire tramite la mia magia. Avrei versato il suo sangue, gliel'avrei fatto sputare dalla sua stessa bocca mentre implorava pietà, una pietà che non avrei avuto. Loro non ne avevano avuta per i miei genitori.

Arrivai davanti alla stanza di Darrell, ma la trovai vuota, la porta spalancata. Il solito disordine regnava al suo interno, in netto contrasto con l'organizzazione mentale che il ragazzo possedeva.

Che l'umano avesse già mietuto delle vittime? Inorridii, pensando che Darrell avrebbe potuto essere in pericolo seriamente. Colui che consideravo quasi come un fratello era disperso... Il timore di perderlo giunse insieme alla realizzazione di un unico pensiero: per quanto mi fossi sforzato di tenere le persone lontane da me, alcune di loro si erano fatte strada a forza dentro il mio cuore, e Darrell era una di queste. Era come parte della famiglia quando c'erano ancora i miei genitori e a quanto pareva non ero riuscito nell'intento di allontanarlo dopo averli persi. Gli umani non si sarebbero presi anche lui!

Urlai per sfogarmi, tirando un pugno alla porta con tutte le mie forze. Il legno andò in mille pezzi e la mia mano iniziò a sanguinare, sporcandosi di rosso sulle nocche bianche. Mi concessi un momento per sedermi sul letto disordinato ed esaminarla, cercando di togliere le schegge che erano rimaste incastrate. Fu allora che la vidi: adagiata sulle coperte azzurrine e quasi nascosta tra le pieghe, una siringa vuota era ancora mezza congelata sui bordi di plastica. Liquido ghiacciato per il test. Alzai lo sguardo, d'un tratto confuso.

Che cos'aveva fatto Darrell?

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