1 - Sheera

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Silenzio. Un qualcosa che non si riesce a tollerare a lungo. Può provocare una solitudine insopportabile, sorda, inquietante, portare ad un malessere improvviso. Spesso lo si copre con ogni tipo di rumore pur di non percepire quel fastidio, quel vuoto che si insinua in ogni persona. Eppure, non a tutti può dar fastidio, attraverso esso si può anche ritrovare la propria indole repressa. La solitudine è come un freddo abbraccio, così appagante per una mente complessa e apparentemente così giovane. Momenti che, però, possono finire in un attimo e distogliere da quel benessere assoluto, riportando al mondo reale in cui si vive, ma che si cerca di dimenticare.

– Alzati! Non abbiamo tutto il giorno!–

Le prime parole della giornata di Madame Dyiara giungevano all'alba, sempre al momento perfetto per interrompere quella sua pace. Ormai erano diventate una routine, come la maggior parte della giornata di quella ragazza. Sheera odiava la sua vita. Odiava le persone con cui viveva. Tra l'altro, non aveva nemmeno una goccia di sangue in comune con loro.

Dyiara e suo marito Marcus l'avevano adottata e cresciuta fin dalla nascita, come dicevano sempre, ma sapeva di essere un peso per loro, per la loro vita, così come loro lo erano per la sua. Erano stati costretti a tenerla in quanto abitavano lontano dal centro del paese: le persone non volevano vederla tra loro.

– Ti vuoi alzare, disgraziata?!–

Le parole riecheggiarono nella mente della ragazza, che, sbuffando, si alzò dal suo letto di malavoglia, abbandonando il suo silenzio quotidiano. Le piaceva farla arrabbiare, per un po', la faceva sentire bene, in forze, come se riuscisse a nutrirsi attraverso le emozioni negative. Ma sapeva bene che non doveva esagerare troppo o sarebbe potuta anche stare male.

Guardò la sua stanza, che non era granché ed era già tanto che fosse sua; ovviamente era solo uno stanzino buio e nascosto della casa, la quale non era molto grande, ma neanche troppo piccola. Contava esattamente sette stanze: la camera dei due coniugi, quella dei suoi cosiddetti fratellastri, nonostante non lo fossero propriamente, la cucina, il salotto e due bagni.

Il tutto su due piani di una struttura nella periferia di Agraq, uno dei numerosissimi piccoli villaggi situati in uno dei quattro distretti del Regno Assoluto. Un luogo che le sembrava così strano e noioso, con quelle case in pietra e tetti in legno sempre uguali. Non sapeva nemmeno perché trovasse quel luogo allo stesso tempo familiare e opprimente. Ormai non si stupiva più di nulla, si era abituata a tutti i misteri legati a sé nel corso degli anni

Le imprecazioni di Dyiara si fecero sempre più numerose e Sheera si sbrigò, andando verso lo specchio dell'armadio. Si vestì velocemente, mettendo una maglia nera, un paio di pantaloni neri e scarpe, ovviamente nere; si pettinò velocemente e raccolse i suoi lunghi capelli scuri come la pece in uno chignon. Lasciò che due ciocche le incorniciassero il volto, mettendo in risalto i suoi occhi anch'essi neri e inquietanti e le sue labbra rosate, che si inumidì con la lingua. Uscì dalla sua camera con calma e andò in cucina, dove sapeva che ci sarebbe stata la signora ad aspettarla con l'ordine della mattinata, come ogni singolo giorno da ormai otto anni.

– Era ora!– le disse la donna quando la vide sulla soglia. Era alta, magra, la pelle rosea come le labbra sempre dritte, lo sguardo gelido, occhi azzurri incastonati nel suo viso magro, circondato da riccioli bruni che le cadevano sulle spalle. Eppure, appariva più giovane rispetto alla sua vera età.

– Sbrigati e non andare in giro a fare casini, ne abbiamo già fin troppi con te.– le ringhiò contro. Sheera prese la lista, ruotando gli occhi infastidita nel sentire quella frase per l'ennesima volta, e si mise in tasca un sacchettino con il denaro; subito dopo uscì, andando verso il centro del villaggio, più precisamente al mercato. Non era molto distante e ci poteva andare tranquillamente a piedi, ma sapeva che Marcus l'avrebbe mandata a piedi fino all'altra parte del Regno, se fosse stato necessario. D'altronde, era un intralcio per loro, un'attira-casini.

Sì, era vero. Molte cose erano successe per causa sua, come incidenti e cose varie quando era bambina; eppure, questo non significava che la colpevole fosse sempre stata lei. Anche se ogni singola volta aveva provato un brivido lungo la schiena, un'adrenalina incredibilmente ammaliante: produrre caos sembrava piacerle, e anche tanto. Non l'aveva mai svelato, però; era già nei casini quasi ogni giorno, molto spesso controllata, e non voleva rischiare troppo. Le era stato addirittura vietato di usare la sua magia in qualsiasi circostanza da quando aveva mandato a fuoco per sbaglio la pasticceria mentre aiutava il proprietario con le sue consegne, anche se la utilizzava costantemente e di nascosto.

Tutti gli abitanti del Regno Assoluto, i Salir, possedevano il dono della magia, seppur non fosse molto potente. La usavano principalmente per teletrasportare, muovere e dar vita agli oggetti per pochi minuti, far crescere il raccolto più in fretta, alimentare il fuoco nel camino, far appassire le erbacce. La loro magia permetteva solo questo e avevano sempre vissuto tranquilli, almeno fino al suo arrivo.

Lei sapeva di essere diversa da tutti loro, la sua magia lo era: più forte e, soprattutto, distruttiva. Lo sentiva. Anche il suo aspetto era diverso: la sua pelle bianchissima come quella di un cadavere, e poi i suoi occhi neri che diventavano viola quando era nervosa, infuriata o usava la magia. Il suo strano amore per il silenzio e non per la vitalità, come tutti gli altri, non aiutava.

I Salir erano semplici invece, i loro occhi andavano dal blu al verde, dal marrone al grigio. In essi poteva leggere loro i più oscuri desideri, se si concentrava. Ovviamente non era un potere noto. Non capiva perché fosse così differente dagli altri, né perché dovessero evitarla per una natura che non poteva cambiare, come stava accadendo in quel momento.

Era arrivata al centro e stava attraversando la strada principale a testa bassa, sentendo i sussurri della gente intorno a sé, gli sguardi che le rivolgevano e che le procuravano fastidio. Preferiva quando nessuno la notava, quando riusciva a rimanere nell'ombra. Per fortuna, entrò nel panificio e il peso degli sguardi e delle parole calò, facendole tirare un sospiro di sollievo.

– Buongiorno, Sheera.–

– 'Giorno, signor Hill.– gli rispose. Il suo tono di voce era annoiato e senza emozioni, non diversamente dal solito.

– Chiamami pure Peter, quante volte ancora devo dirtelo?–

– Una per ogni giorno.–

Peter sorrise e andò nel retro a preparare il suo ordine. Quell'uomo era sempre gentile con tutti, anche con lei, fin dall'inizio. Non gli interessava quanto potesse essere pericolosa, vedeva del buono in ogni singola persona e questo alla corvina faceva piacere, anche se non era da lei e cercava di non darlo a vedere. Seppur lui non fosse a conoscenza di molte cose, altrimenti l'avrebbe evitata anche lui.

– Ciao Sheera, come va?–

Vide un ragazzo alto e magro uscire dal retro con delle teglie di pane appena sfornato e metterle nella vetrinetta, tutto sorridente e per nulla impaurito da lei.

– Ciao Nath. Potrebbe andare meglio.–

– Ti hanno ancora aumentato il carico di lavoro?–

– No, per ora.-

– Certo che ti ritrovi in una famiglia proprio bastarda.–

– A volte li ammazzerei tutti, li odio. Piuttosto, a te come va?–

– Non c'è male, come sempre. È divertente aiutare mio padre in panetteria.– disse lui prima di osservarsi intorno guardingo ed avvicinarsi di più a lei con un lieve nervosismo.

– Attenta alle parole, devo ricordarti che sei sotto stretta sorveglianza a momenti e che nessuno qui ti sopporta?– le disse a bassa voce fissandola quasi severo ma anche preoccupato.

– Allora comportati normalmente.– ribatté lei alzando gli occhi al cielo, facendogli scuotere la testa arreso. Era inutile parlare con lei di quanto fosse pericolosa la sua situazione. Sheera poi allungò un braccio verso di lui e gli scompigliò i capelli, facendo cadere a terra la farina che vi si era depositata sopra.

Nath era un ragazzo buono e gentile, proprio come suo padre. Aveva capelli castani e folti, gli occhi come smeraldi e pieni di speranza e vita. Perché stai con me? O, piuttosto, dovrei domandarmi perché io non riesca a odiarti. Se lo chiedeva spesso quando se lo ritrovava intorno. Non percepiva in lui paura, solo felicità, e la cosa la lasciava sempre un po' confusa. Tutti la odiavano, eccetto lui. Conosceva abbastanza bene la ragazza, parte del suo passato, della sua infanzia, del suo carattere, la sua vera indole. Il padre era buono con tutti e non era una persona che ascoltava le dicerie, però, se avesse saputo ciò che conosceva il ragazzo, probabilmente l'avrebbe odiata anche lui, o ne avrebbe avuto paura.

– Ecco qua.–

Peter porse alla ragazza un sacchetto che prese subito, percependo il calore che il pane fresco contenuto all'interno emanava. Eppure, non le sembrava così invitante.

– Grazie.–

– A domani.– la salutò. Prima di uscire Sheera guardò Nath che, muovendo solo le labbra, le disse qualcosa. In risposta, lei uscì senza più voltarsi, avendo perfettamente compreso il messaggio: le avrebbe fatto visita al più presto. Se sapessi più cose di me non mi vorresti più vedere nemmeno tu Nath... si ritrovò a pensare lei sospirando.

 

Quando arrivò a quella che avrebbe dovuto chiamare casa, erano tutti svegli.

– Sheera, aiuta Chris a vestirsi, muoviti!– le gridò Dyiara quando lasciò il pane sul tavolo della cucina. Un po' di tregua no eh? Quanto mi dà sui nervi! Sapessi solo cosa ti farei... Era in quei momenti che le passavano per la mente le più variegate torture da sperimentare, ma non sapeva come le conoscesse. Tra l'altro, si sentiva come se le avesse già testate sulla pelle di altri e si sentiva attratta da quei pensieri. Sono proprio fuori di testa! pensò, ridacchiando divertita tra sé e sé, mentre si affrettava a rispondere.

– Certo certo.–

– E già che ci sei, vai a stendere questi vestiti.–

Diyara le diede una cesta piena di panni bagnaticci e Sheera, sbuffando, raggiunse la camera dei suoi fratellastri: due gemelli di quindici anni, Sam e Dan, e un bambino di nove anni, Chris. Ma, prima che potesse entrare nella loro camera, i gemelli la travolsero, correndo verso la cucina, e per poco lei non cadde.

– Ehi!– si lamentò, dando loro un'occhiataccia.

– Oh scusa, non ti avevamo visto.–

Se quei due non smettono di sghignazzare come due perfetti imbecilli li ammazzo, o anche peggio. Sbuffò per l'ennesima volta ed entrò, appoggiando la cesta del bucato per terra. Poi andò da Chris per aiutarlo a mettersi la sua camicia bianca e pulita per la scuola.

– Aspetta, ti do una mano.–

Quando finì, il bambino l'abbracciò e lei, dopo essere per qualche secondo rimasta impalata per la sorpresa, ricambiò. Solo a lui e a Nath permetteva di toccarla. Non sapeva esattamente perché, ma le dava fastidio il contatto fisico, quasi con tutti. Come mai con loro no?

– Mi dispiace per come ti trattano mamma e papà.– le disse, guardandola negli occhi con i suoi di un intenso azzurro che si intravedevano sotto un ciuffo biondo ribelle.

– Non ti preoccupare, ci sono abituata. Ora sbrigati, dobbiamo andare.–

Chris annuì e uscì dalla sua stanza; lei lo guardò sorridendo appena, non lo faceva spesso. Lui era l'unico in quella casa a considerarla come una vera e propria sorella e a volerle davvero bene. Prese di nuovo la cesta, sospirando, e uscì andando nel giardino sul retro della casa.

Quando ebbe steso anche l'ultimo lenzuolo, si sedette sull'erba ammirando il panorama, con la brezza frizzante che le accarezzava il viso come a volerla salutare. Vivevano in mezzo alle colline, circondati da immensi campi e un boschetto dove si rifugiava quando la famiglia usciva per andare in centro, da Sabry più precisamente, un'amica della signora Dyiara nonché autentica pettegola di prima categoria.

Si ricordò di quella volta che aveva rovesciato addosso alla donna il tè bollente per farla smettere di parlare, e di come da quel momento non l'avesse più voluta vedere, anche se questo per lei era un bene.

Eppure, tutti i giorni che passavano, tutte le faccende da fare, la vita che conduceva, la distraevano dall'essere sé stessa; perché lei non era così, lo sapeva. Non era una che obbediva, eppure lo faceva, sforzandosi il più possibile. Perché? Non ne aveva idea, sentiva solo che stava aspettando qualcosa, il suo corpo aspettava il momento giusto. Ma per cosa?

Vide Marcus sull'uscio di casa farle un cenno con il capo, distraendola da ogni pensiero e facendola rientrare. L'uomo la prese per un braccio appena l'ebbe davanti. Eccoci di nuovo con la stessa storia, come siete monotoni!

– Dopo la scuola torna subito qui, chiaro?–

– Sì signore.– rispose, un po' inacidita alzando gli occhi al cielo. Si liberò e andò in camera a prendere la cartella svogliatamente, poi uscì, raggiungendo la scuola. Anche se avrebbe preferito starsene nel bosco. Solo lei e il suo amato silenzio, così affascinante e amico.

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