Capitolo 3 (da revisionare)

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«Sera?! Muoviti, faremo tardi!»

Zia Ortensia, tutta in tiro, aspettava la nipote sull'uscio di casa.
«Sì, un minuto!» disse lei per la decima volta mentre pensava a che vestito avrebbe potuto mettersi.
«Sera...?»
«Un attimo!»
«Sera...?»
«UN ATTIMO!»
«SERA?!»
«UN ATTIMO.»
«Sera, è l'ultima volta che...»
«Eccomi, sono pronta!»
La ragazza scese le scale con calma. Aveva messo un vestito turchese di seta, senza maniche, e delle scarpette da ballo azzurre.
Sui capelli aveva poggiato la coroncina fatta quella mattina al Lago.
«Andiamo?» chiese sorridendo.

Le feste al villaggio erano bellissime. Gli abitanti decoravano la città con luci e fiori.
Il fornaio e il pasticcere allestivano dei tavoli dove vi erano focacce, pane, biscotti, torte e dolci vari.
Nella piazza si ballava e per i bambini più piccoli si organizzavano spettacoli di burattini.
Per rendere tutto perfetto, ognuno si offriva volontario in qualcosa.
La zia di Serafine preparava barattoli di marmellata di tutti i tipi e sfornava tante piccole pagnotte di pane che poi avrebbe sistemato su un piccolo tavolo di legno nella piazza, per permettere a tutti di assaggiarne un pezzo.

«Sera, tieni questi e portali a Fheria, per favore, io vado ad aiutare Qquihe...» le disse la zia passandole un cesto pieno di barattoli.
Fheria era la nonna dei gemelli.
Faceva la maestra ai bambini piccoli, raccontando loro delle storie su quello che accadeva fuori dal villaggio.
Sera si avvicinò al tavolo dove nonna e nipoti preparavano i dolci.
«Ehi, Sera!» la salutò Bahryus mentre cercava di tenere in equilibrio quattro vassoi di biscotti: uno in una mano, uno nell'altra, l'altro sopra i due e uno sulla testa.
«Ti serve una mano?» chiese cercando di trattenere le risate.
«Noooooo!! Non preoccuparti, me la cavo anche da solooooo!»
«Ok, se lo dici tu...»
La ragazza poggiò il cesto sul tavolo, poi si ricordò dell'appuntamento di quella sera.

«Senti, io e Kaspar andiamo a caccia di goblin. Magari, quando finite qui, potete raggiungerci...»
«Ehm...sssì, d'accordo...». Bahryus la guardò in un modo strano.
Serafine non ci fece caso e raggiunse Kaspar che stava aiutando Taro a mettere a posto la fucina.
Il fabbro preparava graziose creazioni di ferro, bronzo e rame, che poi venivano appese nella piazza.

«Sera! Ehi, sei già qui?»
«Bhe, sì. È anche tardi! Sbrigati altrimenti ci perderemo lo spettacolo!»
«Cavolo, è vero!»
Kaspar finì di sistemare, salutò Taro, e con Serafine si avviò versò il bosco.
Ogni notte del Solstizio d'Estate, con la luna piena, i goblin uscivano dalle loro tane sotto terra per andare a raccogliere vermi, bacche velenose e schifezze varie, che per loro erano una prelibatezza.
Può sembrare una cosa noiosa e schifosa, ma il bello veniva dopo, quando i goblin organizzavano una festa prima di rientrare nelle loro tane sotterranee.
Preparavano giochi di forza, come il lancio dei massi, o la corsa con le testuggini del fango, e poi suonavano, a modo loro, strumenti musicali come flauti e tamburi, intagliati rozzamente nel legno.
Erano creature bizzarre, i goblin.
Esseri piccoli e tozzi, con la pelle verdognola e la voce stridula.
Se ti consideravano un nemico ti catturavano e ti usavano come bersaglio per il tiro con l'arco.
Erano ottimi arcieri, quasi come gli elfi.
Si fermarono dopo un certo punto.

Videro una luce provenire dal folto della foresta.
Non potevano essere i goblin.
I goblin odiavano la luce...
Volarono sopra un albero e assistettero ad uno spettacolo meraviglioso: sotto di loro alcune fate dei boschi ballavano intorno ad un grande fuoco.
Non un fuoco come gli altri.
Un fuoco fatato. Emanava una stupenda luce tra l'azzurro e il dorato.
Era bellissimo.
Presto i due amici si dimenticarono dei goblin e si fermarono a guardare quell'incanto, sedendosi su un ramo, uno vicino all'altro.

***

Tutto il Regno era un festa.
Nel cuore della città di Aahor, il castello della Regina Wharia emanava un leggero bagliore, come un enorme faro di cristallo.
La grande Sala del Trono era addobbata a festa, con arazzi rosso vivo con impresso lo stemma del Regno: un paio di ali piumate sormontate da una corona.
Tutti, cortigiani e popolo, erano riuniti nel salone da ballo, per festeggiare il Solstizio d'Estate.
Tutti, tranne uno.

Un Alato non era presente, non festeggiava con gli altri.
Si aggirava invece per i corridoi vuoti e bui del castello, con aria furtiva.
Indossava un mantello, nero come le sue ali.
La figura si recò nei sotterranei e poi ancora più sotto.
Le poche fiaccole appese alle pareti di pietra permettevano alla figura di vedere.
Dopo varie rampe di scale, dopo molti corridoi deserti, si ritrovò davanti ad un'immensa porta di argento con rifiniture d'oro.
Era chiusa.
Solo la Regina possedeva la chiave.

Ma alla figura non serviva nessuna chiave.
Avvicinò una mano alla serratura e sussurrò alcune parole. Parole in una lingua sconosciuta.
La serratura scattò.
L'Alato entrò indisturbato chiudendosi la porta alle spalle.
Era una stanza buia, senza nemmeno una fiaccola, solo la luna permetteva di vedere.
Era vuota, le pareti di pietra e il pavimento erano pieni di polvere e ragnatele.
Soltanto un oggetto era presente in quella stanza e attirò l'attenzione dell'Alato incappucciato.
Una tomba in pietra, con alcune scritte runiche come ornamento.
Era esattamente al centro della stanza, la luce lunare la illuminava.
La figura si avvicinò e, tolto un grosso strato di polvere accumulatosi negli anni, aprì di poco la tomba.
«Ci siamo» disse con un ghigno.
«È tempo che la profezia si avveri!»
Da un sacchetto di pelle estrasse un medaglione di ferro con un rubino rosso fuoco incastonato al centro.
Lo poggiò sulla tomba e poi pronunciò alcune parole.
Una formula magica.
Magia Nera.
Il cielo sopra di esso divenne rosso.
Dalla tomba si alzò una mummia che piano piano, cominciò ad assumere le sembianze di un essere vivente.
Le ossa furono ricoperte da muscoli e pelle, il sangue tornò a scorrere nelle sue vene, le ali di cui era stato privato tempo prima rispuntarono. Non erano più come un tempo. Erano come quelle di un pipistrello.
«Padre...» disse il giovane uomo inchinandosi a Dhort, suo padre.
Il Tiranno.

***

«Non ho mai assistito ad uno spettacolo così bello...» sussurrò Sera con gli occhi che le brillavano.
Le fate si muovevano aggraziate a ritmo di un valzer.
«Già...» rispose il ragazzo.
Si guardarono a vicenda per un tempo indefinito, gli occhi blu come il mare di lei con gli occhi ancora più chiari di lui, senza sapere che dire.

«Ogni tanto... ti capita di pensare ai tuoi genitori?» disse all'improvviso Kaspar tornando a guardare la danza delle fate.
«... sì, molto spesso...» rispose Serafine.
«Sai... da piccolo credevo che, un giorno, mio padre sarebbe tornato da me, ma...non è mai successo.»
Lo sguardo del giovane si rattristò improvvisamente.
«Promisi che, quando avrei avuto io una famiglia, mi sarei preso cura di mia moglie e dei miei figli, qualsiasi cosa fosse successa...»
Sera ascoltava in silenzio.
Lei avrebbe fatto qualsiasi cosa per far tornare in vita i suoi genitori.

Prima che potesse dire qualcosa, un lampo squarciò il cielo, seguito da un tuono.
Le fate scapparono via, urlando terrorizzate.
I due alzarono lo sguardo spaventati.
La luna era stata coperta da nuvole. Nuvole rosse.
Il vento cominciò a spirare molto forte. Sembrava dovesse scoppiare un temporale.
Non era mai successa una cosa del genere.
«Svelta, torniamo al villaggio!»
Kaspar le prese la mano e si lanciò in volo.
Qualche secondo dopo un fulmine colpì l'albero dove erano seduti pochi attimi prima.
L'albero prese subito fuoco.

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