Toccata e fuga

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Il rumore dei sandali sull'asfalto risuonava lungo tutto il vicolo.

Elena continuava a voltarsi freneticamente e ogni metro che percorreva, vedendo l'orizzonte sgombro, si ripeteva, come in quel film famoso: «Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene».
I capelli biondi le si appiccicavano alla fronte, le entravano fastidiosamente in bocca, tanto che doveva costantemente passarsi le dita lungo le labbra, fino alla punta del mento, per levarseli di dosso.

Mentre teneva gli occhi puntati sulle mattonelle sconnesse del marciapiede –non voleva correre il rischio di inciampare proprio adesso-, un'immagine fugace le era apparsa davanti agli occhi: la sua giacca nera appesa allo schienale della sedia su cui era stata seduta per tutta la sera.
Stava ancora là, all'interno del ristorante, abbandonata.
Nella fretta non aveva avuto nemmeno il tempo di prenderla.

Era scoppiata in una risata isterica e poi si era tappata la bocca con entrambe le mani.

Quella sera, quel primo giugno, Elena aveva fatto qualcosa che non le era mai capitato di fare in tutta la sua giovane vita: era fuggita.

Adesso, a correre a perdifiato lungo strade silenziose di una città che non conosceva, tra la luce fioca dei lampioni e il canto logorante delle cicale, non avrebbe saputo dire cos'è che provava. Era una sorta d'eccitazione, forse, come quando poggiava l'archetto sulle corde del suo Stradivari, nell'attimo che precede l'inizio della sonata, mentre tutti trattengono il respiro; o come quando giaceva nuda sul letto di Fabrizio, dopo che si era fatta spogliare, nell'attimo che precede la penetrazione: in quel caso, a trattenere il respiro era solo lei.

Povero Fabrizio, pensava Elena senza smettere di correre, era rimasto anche lui all'interno del ristorante, insieme alla sua giacca nera, insieme al resto dell'orchestra. Eppure –lei stessa se ne stupiva- non provava il minimo rimorso.
Dopo un po' di tempo, lo sapeva, si sarebbero accorti tutti della sua assenza, si sarebbero insospettiti per la permanenza eccessiva in bagno –Elena era una ragazza stoica, non si lasciava scalfire dai bisogni del corpo, era in grado di dominarli a costo di pagarne il prezzo in termini di salute-, e sarebbero andati a cercarla.
Forse sarebbe stato proprio Fabrizio.
Si sarebbe alzato, sistemandosi lo smoking nero e passandosi una mano sui capelli castani, e avrebbe annunciato: «Non vi preoccupate, ci penso io».

A pensarci bene, era normale: Fabrizio era quello che la conosceva meglio e da più tempo.
Prima di essere un suo compagno della sezione degli archi –uno dei dieci primi violinisti, assieme a lei-, e prima ancora di essere il suo amante, era stato il suo insegnante di violino.

Quando si erano conosciuti, Elena non aveva ancora le mestruazioni. Iniziava allora il suo terzo anno di corso preaccademico.
Non le ci era voluto molto a diventare l'allieva prediletta di quel giovane violinista ventiquattrenne, giusto il tempo di impugnare l'archetto e iniziare a suonare Concerto in La minore di Vivaldi.

Per trovare il coraggio di baciarlo, invece, aveva dovuto attendere la notte di capodanno dei suoi diciassette anni e un brindisi fatto nei camerini insieme al resto dell'orchestra.
Sul retro del teatro in cui si erano esibiti, un'Elena disinibita e tremante dal freddo aveva afferrato il suo insegnante appena trentenne per il bavero del cappotto, e l'aveva attratto a sé che ancora teneva tra le dita arrossate un mozzicone acceso di sigaretta.

Se Fabrizio era rimasto stupito da quel gesto inaspettato –le labbra fresche e immacolate di una ragazzina come Elena su quelle secche e rovinate dal tabacco di un mezzo squinternato come lui-, Elena lo era stata ancora di più.
Aveva continuato a chiedersi perché lo avesse fatto anche quando Fabrizio l'aveva invitata a dormire nella sua mansarda e, senza battere ciglio, aveva accettato, evitando di chiedersi se lo volesse davvero.

Solo quando, la mattina dopo, aveva ricevuto un messaggio infuriato da parte suoi genitori che le chiedevano dov'è che fosse stata per tutta la notte, Elena aveva provato un enorme piacere. E nell'inventare una balla, ne aveva provato uno ancora più grosso.

Forse era lo stesso piacere che provava adesso nel correre, dopo essere uscita di soppiatto dal ristorante ed aver abbandonato il resto dell'orchestra al suo destino.
Il piacere di fare ciò che non si deve fare.
Specie se quello che si deve fare è deciso a tavolino da quando sei nata, e non prevede repliche.

Elena si era fermata alla fine dell'ennesimo incrocio. Era giunta ai margini di quella che sembrava essere una specie di zona industriale.
Si era voltata un paio di volte e nel farlo si era lisciata l'abitino bianco che indossava da quella stessa mattina, per le prove generali. Poi aveva ripreso a correre, decidendo di imboccare un sottopassaggio alla sua destra.

L'indomani sarebbe stata la Festa della Repubblica, e avrebbe dovuto esibirsi con la sinfonia del conservatorio. Avrebbero suonato un arrangiamento per orchestre della Toccata e Fuga di Bach. Ci sarebbe stata perfino una qualche televisione a riprenderli.
Elena non era minimamente turbata da tutto ciò. Era da quando aveva quindici anni che suonava con l'orchestra dei grandi.
Forse poteva averle fatto effetto le prime volte –mettersi l'abito da sera, sedere solo una fila dietro a quella in cui era seduto Fabrizio, leggere lo stesso spartito, essere circondata da adulti, andare in tournèe con loro, condividere pranzi, cene, camere d'albergo, stare svegli fino a tardi ad ascoltare i loro discorsi e non capirli fino in fondo, sentirsi fuori posto ma anche un po' gratificati per questo.
Ma ormai c'era abituata ed aveva accettato con una certa passività l'etichetta di enfant prodige che i suoi genitori le avevano cucito addosso con tanto impegno.

Elena dunque non scappava da qualcosa che le metteva paura –che cosa, poi: il palcoscenico?; Elena scappava da qualcosa che non aveva più voglia di fare.

Mentre percorreva il sottopassaggio, non poteva che chiedersi se anche a Berlino le zone industriali fossero come quelle: gallerie scure illuminate da luci a basso consumo energetico e avvolte da una patina di squallore.

Berlino.

Ci pensava da un po', era un'idea che non riusciva a togliersi dalla testa.
Da quando aveva letto il diario di Christiane F. e visto la serie Prime "Noi, i ragazzi dei zoo di Berlino" –in realtà prima aveva visto la serie e poi si era decisa a leggere il libro-, non aveva fatto altro che chiedersi come sarebbe stato vivere in una grande capitale.

Non avrebbe saputo dire di preciso perché, ma aveva subito una vera e propria fascinazione per l'underground. Forse perché quella vita era radicalmente diversa dalla sua.
Lei, che aveva avuto paura perfino a fare un tiro di sigaretta quando Fabrizio gliene aveva offerta una, non riusciva proprio a vedersi sdraiata sulle piastrelle di un cesso pubblico a iniettarsi eroina endovena.

Eppure, la –seppur remota- possibilità che avrebbe potuto farlo, l'elettrizzava.

Quando Elena aveva detto ai suoi genitori che avrebbe voluto prendersi un anno sabbatico dopo la maturità per andare a fare la ragazza alla pari in un paese del nord Europa, le avevano riso in faccia con aria compassionevole.

«Non essere ridicola», le avevano risposto con fare paternalistico, «lascia perdere queste sciocchezze: tu devi studiare al conservatorio, altro che Berlino».

E questo era quello che aveva detto anche Fabrizio.
L'esame di ammissione era solo una formalità, questo era ovvio, un'altra delle cose che andavano fatte perché tutto fosse in regola: l'esito era scontato.

Per quanto girasse e rigirasse la questione, il risultato era sempre lo stesso: Elena era nata per suonare il violino, e questo avrebbe dovuto fare per il resto della sua vita.
La sua voglia di evasione era solo uno stupido capriccio da ragazzina, un vano tentativo di opporsi ad un destino obbligato.
Perché era un peccato sprecare un talento del genere.

Ogni volta che Elena ci ripensava, magari mentre ascoltava Il suonatore Jones sul letto ad un piazza e mezzo della sua cameretta, e le strofe: "E se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita" le rimbombavano nelle orecchie, sentiva montare in corpo un odio che non aveva mai provato prima.

«Col cazzo», pensava rabbiosa, «che mi tocca suonare per tutta la vita; a me non tocca proprio niente, piuttosto divento una tossica davvero».

Ma poi continuava a presentarsi alle prove in perfetto orario, con lo Stradivari accuratamente riposto nella sua custodia.

Quella sera non sapeva bene cosa fosse successo.
Subito dopo che avevano servito il primo, aveva avvertito una sorta di agitazione crescere in lei.

Poco prima aveva ricevuto un messaggio sul gruppo WhatsApp che condivideva con le amiche di scuola più strette, un messaggio stupido, in realtà.

Domani Baratti, bimbe?

Quando aveva letto l'anteprima dallo schermo del suo cellulare, il cameriere stava prendendo le ordinazioni.
Mentre i membri dell'orchestra ripetevano nomi di sofisticatissimi primi e secondi, Elena scorreva con distacco le risposte delle amiche –Top, Ci sta: primo bagno dell'anno, Si prende la macchina dell'Ale?, Ma voi la portate la crema solare?.

Poi il tag diretto a lei: «@Ele tu ci sei?» e la sua risposta lapidaria: «No».

Da lì la drammatica consapevolezza: «Ma quale Berlino: la verità è che ho diciotto anni e non posso nemmeno andare al Golfo di Baratti con le mie amiche per la Festa della Repubblica».

Per questo si era alzata dicendo che doveva andare in bagno e poi, nell'incontrare il suo volto pallido davanti allo specchio sopra il lavandino, era stata presa dal panico.

«Sono una sfigata», aveva pensato mettendosi a piangere, «morirò senza aver mai vissuto veramente, morirò suonando questo cazzo di violino».

Poi, in un impeto di furia, si era scagliata sul maniglione antipanico del bagno e in un attimo eccola fuori dal locale, sul retro del ristorante.

I primi minuti di corsa era stato solo un ripetersi di: «Adesso mi calmo, mi sfogo un po' e torno indietro»; ma via via che il vento caldo le scompigliava la treccia bionda e il chiacchiericcio del centro cittadino diventava più lontano, Elena aveva iniziato a sentirsi leggera, leggera di quella leggerezza che solo la libertà di chi si è disfatto di un peso opprimente può dare.
E mentre le lacrime sulle sue guance andavano asciugandosi, aveva iniziato a pensare che indietro non ci sarebbe tornata più.

Il sottopassaggio era finito.
Elena adesso si trovava lungo quella che sembrava essere una strada statale. Si sentiva un forte odore d'aperta campagna.

«E adesso che faccio?», aveva pensato, realizzando solo in quel momento di non avere con sé il portafoglio.

Aveva ripreso a camminare lungo ciglio della strada, con cautela. Ogni tanto le automobili le sfrecciavano accanto, smuovendo una massa d'aria calda che le scompigliava i capelli e le balze della gonna.

«Potrei fare l'autostop», si era detta, «chissà, magari riesco ad arrivare fino a Berlino».

Poi si era messa a ridere per l'ingenuità dei suoi pensieri e aveva sollevato la testa: nel cielo risplendeva una splendida mezza luna. Non ci aveva fatto caso prima, ma adesso che si trovava in un'area in cui l'inquinamento luminoso era meno presente, si vedevano una miriade di stelle.

Il rombo di un motore in avvicinamento l'aveva fatta sussultare. Si era voltata rapidamente: i fari gialli di una macchina puntavano verso di lei.

In maniera automatica, Elena aveva sollevato il braccio destro. Il cuore le batteva all'impazzata.

«Che cazzo sto facendo?», aveva pensato.

Poi, man mano che la macchina si avvicinava senza accennare a rallentare, la paura era stata sostituita dalla delusione.

«Ehi», si era sentita urlare Elena, «ehi, fermati, cazzo, fermati!».

La macchina aveva proseguito per una decina di metri, poi, senza preavviso, aveva frenato, accostandosi sulla destra.

Elena aveva fissato spaventata l'auto, la luce rossa dei fari aveva investito i suoi occhi da cerbiatto. In pochi secondi aveva fatto i suoi calcoli: poteva esserci chiunque all'interno del veicolo, lo sapeva.

Per qualche istante tutto era rimasto immobile, cristallizzato in un'atmosfera carica d'attesa.

Poi Elena era scattata in direzione dell'automobile.

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