Tracce nel vento

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"Gilwen!"

All'eco lontana del mio nome alzo di scatto il viso e s'interrompe il contatto visivo con la cerva. L'animale batte le palpebre, come riacquistando coscienza dopo una trance, e si dilegua con un balzo tra il fogliame.

Sospiro addolorata e afferrando il cesto di funghi mi volto e scatto via, indietro verso il limitare del bosco; non voglio che mia madre abbia percezione di quanto mi ci sia addentrata!

Mi ha proibito di farlo da quando, ingenuamente, piccolissima, le ho svelato che 'sentivo' la foresta e che incantavo gli animali con lo sguardo.

Una proibizione che mi pesa dolorosa, la sua, e che a volte colpevolmente infrango, contando che nessun umano possa attraversare il bosco fulmineo quanto me, e che quindi, pur sapendomi agile e veloce, mia madre mi pensi molto vicina, vedendomi uscire presto.

In realtà la parte di sangue elfica che ho nelle vene, allenata di nascosto, mi proietta in grandi balzi oltre le radici e sotto i rami a una velocità vicina a quella dei cervi in pianura.

Visualizzo gli ostacoli e li scanso con una percezione che i miei genitori non hanno: in loro solo le orecchie appuntite e l'aspetto dei lunghi capelli lisci parla di una lontana eredità, ormai tutta esteriore.

Quanto a me, io corro sognando di essere tornata indietro nel tempo, a quando gli Elfi non avevano ancora lasciato che passioni riprovevoli conquistassero i loro cuori, infrangendo il legame con chi li aveva concepiti senza vecchiaia e senza malattia.

Siamo all'equinozio d'autunno, il verde del bosco è ancora intenso. Corro felice, dimenticando che molte generazioni fa gli Elfi sono decaduti, disperdendo le loro ricchezze.

Sfilo tra gli alberi fluida, gareggiando col vento, e non voglio sapere che non esistono più, coloro che sapevano praticare la magia per proteggere e guarire le creature dei boschi.

Da molto il Generatore del mondo si è ritratto, coprendosi il volto per l'iniquità degli Elfi e condannando le loro unioni a rimanere infeconde.

Ma nel bosco i miei pensieri felici mi fanno facilmente dimenticare come sia accaduto, che io sia nata col cuore divorato da un desiderio irrealizzabile.

In tempi ormai lontani, poiché nessun piccolo nasceva più nelle case degli Elfi, l'istinto insopprimibile a generare aveva spinto alcune giovani di quella razza ad accettare un uomo.

Per questo oggi tracce  del loro sangue scorrono  nelle vene dei Mezzelfi, creature ibride nate dalle unioni con gli umani; così rozzi e privi di poteri, questi ultimi, ma così numerosi all'epoca in cui gli Elfi si stavano estinguendo.

I Mezzelfi che nacquero restarono nei villaggi umani, e il sangue si disperse ulteriormente, fino a risuonare debole solo in certe sagome slanciate dalle orecchie appena appuntite, mentre andavano persi la magia, la lingua, il dono di ascoltare il bosco.

Tali sono oggi i Mezzelfi come i miei genitori, come mia madre che mi attende preoccupata.

"Gilwen eri troppo lontana, sai che non devi avventurarti troppo nel bosco, per una donna non è prudente".

La guardo, il volto pallido già segnato da una sottile rete di rughe, e ingoio le parole che mi salgono dal cuore: Madre, non sono semplicemente una donna!

"Mi sono trattenuta un attimo per questi", le dico invece, mostrando il cesto di bacche e funghi.

Non mi è facile mentirle; lo faccio a occhi bassi, lo faccio per non darle dolore, lo faccio rannuvolandomi a sentire, appena entrata nella baita, mio padre tossire.

Tutto è così duro, in questo momento, per la nostra famiglia!

Già fin dalla gioventù i miei genitori hanno vissuto una condizione difficile: nei villaggi umani un mezzelfo isolato è da molti decenni una presenza frequente, che non disturba alcuna normalità, ma nel loro se ne erano stabiliti diversi e l'essere numerosi li aveva resi meno graditi.

Mia madre poi, giovanissima, s'era innamorata di un umano straniero, che l'aveva abbagliata promettendole proprio di portarla via da quel disagio. Ma quello voleva soltanto potersi vantare d'aver avuto tra le sue conquiste una simile bellezza: l'aveva portata con sé per un po', esibendola come un trofeo, e poi l'aveva rimandata al suo villaggio, ferita a morte nell'orgoglio e nei sentimenti.

Sposare mio padre, allora, era stato un ripiegarsi su se stessa; quando lui si era fatto avanti lei aveva accettato, spenta e rassegnata, e l'aveva riaccesa solo il mio arrivo, parso un miracolo: il primo figlio di due Mezzelfi di cui si avesse notizia!

Dopo la loro, ben due altre coppie simili si erano formate e la regola dell'infertilità si era infranta ancora, forse perché la quota di sangue umano era ormai assai grande o forse perché infine una maledizione si era spezzata.

I figli delle coppie di Mezzelfi erano nati però, sorprendentemente, con caratteri più elfici dei genitori, e questo ci aveva ancor più emarginato.

Io, ad esempio, non sono castana come mia madre, né ho gli occhi scuri di mio padre.

I miei lunghi capelli sono finissimi, di un bianco argenteo che sembra risalire ai colori delle mie ave, ed essi nascondono a malapena orecchie così appuntite come i miei genitori non hanno più. Altrettanto è accaduto ai miei fratelli e agli altri ibridi, e sia o meno per questo i coetanei umani non ci amano.

Mia madre ha tentato di rimediare imponendomi una 'normalità da giovane umana' che mi renda meglio accetta alla comunità del villaggio; ma io soffoco!

Io capisco che lei sia divorata dall'ansia per me... non dubito del suo amore, so di essere la primogenita che l'ha stregata dall'istante che ha aperto gli occhi color acqua di lago; so che desidera solo vedermi felice, una felicità che infine riscatti la sua vita solitaria e faticosa.

Ma a quindici anni le sue regole mi stanno strettissime e solo l'amore e il rispetto che mi legano a lei mi impediscono di ribellarmi.

Noi non siamo umani! mi tormento.

E neppure Elfi! rifletto subito dopo guardando infelice mio padre.

Nessun elfo avrebbe mai avuto il suo aspetto sofferente. Nessuno si sarebbe mai ammalato come lui, rattrappito davanti al fuoco, avvolto nella coperta a sputar sangue in uno straccio.

Non solleva più neppure lo sguardo, mio padre, non parla, non si muove, da giorni resta in quella specie di scranno davanti al camino e prende a malapena due sorsi di minestra che mia madre gli fa trangugiare imboccandolo.

E io non so verso chi provo così tanta rabbia, se anche contro di lui che, vicino alla fine, non combatte più.

Quando i nostri antenati, rimasti vigorosi fino all'ultimo, completavano il loro lunghissimo percorso, venivano semplicemente raccolti nel sonno dagli spiriti, lasciando nei familiari la certezza rasserenante che il distacco portasse al mondo delle anime.

Ma mio padre è un Mezzelfo... E un Mezzelfo si ammala e muore come gli uomini.

Mia madre, appena sono entrata, mi ha indicato uno sgabello, porgendomi un paiolo e un coltello. Seduta ho cominciato in silenzio a pulire i funghi.

Cosa accadrà di lui? ho preso a chiedermi a testa china ascoltando il suo angosciante, quasi insopportabile tossire: Ci sarà anche per noi un oltretomba che ci attende? Se non come Elfi, almeno come umani? Gli uomini credono che questo destino sia concesso anche a loro... ma sarà vero?

E tutta la serenità e la vita che mi sono sentita dentro tra le ombre verdi degli alberi è svaporata solo nell'entrare in questo rifugio per uomini, chiuso, opprimente, fumoso.

Forse mio padre teme che dopo la morte non troverà nulla. L'ultima volta che gli ho rivolto la parola, esasperata dal suo lungo fissare inerte il vuoto, gli ho chiesto a cosa pensasse mai, tutto quel tempo. Per un attimo mi ha guardato come fosse tornato vigile, poi:"Non chiedermelo, Gilwen", ha risposto con un tono che mi ha terrorizzata.

Alla fine, durante la notte, mio padre ha smesso di tossire. Mia madre vuol far scavare per lui una fossa accanto alle tombe della gente del villaggio e io sento la pelle gelarsi al pensiero del disfacimento marcio di colui che mi ha dato la vita.

"Un elfo dovrebbe essere..."

Ma mia madre mi zittisce con un tono che mi sprofonda nell'infelicità. Non vuole che le ricordi neppure, di quell'altra razza che aveva avuto altri costumi, come i roghi funebri. Non vuole soprattutto che io creda che non siamo del tutto umani.

Soltanto una donna, lei vuole che sia, mansueta ed educata, con un uomo accanto e dei figli, magari bruni e allegri come i bambini del villaggio. Non albini, silenziosi e isolati come siamo stati io e i miei fratelli.

Tranne che non siamo albini, mi martellano le tempie, e non siamo semplicemente silenziosi... Il nostro udito sensibile ascolta le voci della natura e come loro parliamo a fior di labbra, senza gridare; le voci umane, sgraziate e rumorose, ci disturbano e i loro argomenti suonano infantili.

Le donne mansuete, poi, a me paiono schiacciate e asservite e non riesco ad augurarmi quel destino.

Passano solo altre due lune e una sera mia madre mi porge una collana.

Ero assorta nell'intagliare certe figure di cervo nel legno quando, dandomi qualcosa, mi ha intimato brusca di bruciare intanto il ridicolo attrezzo che stavo lavorando, con cui non avevo più l'età per giocare.

Ho sentito salirmi un'onda di sangue caldo al viso, e immagino che le gote si siano arrossate. Il ridicolo giocattolo è un arco, che avevo ricavato con pazienza da un legno raro a trovarsi, e lavorato e incurvato con amore.

Non possedevo tutte le conoscenze che sarebbero servite, solo ricordi approssimativi di un'arte antichissima trasmessi oralmente dai mezzelfi più vecchi. Pure amavo e amo quest'arco, che lancia ben più lontano e con molta più precisione di qualsiasi altro utilizzato dagli umani.

Ho trattenuto a stento il tumulto di pensieri saliti a ribollirmi in gola. "Cosa è?", ho chiesto invece dell'oggetto che mi ha messo in mano con decisione.

"Un gioiello di famiglia, lo metterai per accogliere il giovane che ho scelto per te". Alzo lo sguardo sbalordita; troppo, per reagire.

"Hai l'età giusta, ormai", continua:"Nonostante il sangue straniero, un buon giovane ha messo gli occhi su di te e io ritengo che sia una fortuna. Con tuo padre morto e le nostre particolarità, rischiavi di rimanere sola e senza figli. Invece qualcuno ti vuole e devi esserne felice.

Domani ti vestirai come si deve, per una volta, e metterai questa collana per presentarti al meglio; l'ho invitato a cena e cucinerai per lui, perché un uomo gradisce sapere che si mangerà bene, alla sua mensa. Sarai gentile e lo rassicurerai che sta facendo un'ottima scelta".

Impiego molto tempo, a parlare. Molto tempo a calmarmi, a rinchiudere la rabbia dove non possa uscire, a raccogliere le idee, a ingoiare le emozioni che farebbero vibrare le corde vocali, facendo tremare la voce e rendendola patetica.

"Questa collana è veramente brutta", dico infine con voce pacata.

Mia madre desidera disperatamente essere solo una donna, ma nonostante tutto anche lei sa che le cose di fattura umana sono grossolane, se confrontate ai pochi oggetti elfici che abbiamo con noi.

Quella collana l'aveva donata il primo progenitore umano della nostra famiglia all'elfa che per prima aveva compiuto quella scelta, lasciando per sempre il gruppo cui apparteneva per nascita.

Aveva lasciato tutto, lei, portando con se solo un abito, un mantello e la fibbia con cui lo teneva chiuso. Una fibbia verde, un incanto di cesello, una foglia che sembrava vera, staccata dal vento e caduta sulla stoffa, a tenerne per magia uniti i lembi al collo.

"Questa collana è rozza e grossolana come gli umani. So chi è il giovane che mi vuole, e non mi piace", dico ferma.

"La collana è un ricordo. Sarà brutta, ma se la indossi ti parlerà della sola strada che è stato possibile percorrere per non morire di solitudine. Gli elfi sono stati rifiutati, Gilwen, il Principio li ha rinnegati e la razza si è estinta.

Il nostro, il tuo, futuro è con gli uomini; Patrick non è malvagio e con un po' di dolcezza tu lo renderai più amabile. Hai sempre vantato l'abilità di saper ammansire anche le belve...", mi risponde amareggiata ricordando le mie scoperte di bambina. Quando correvo spensierata fra gli alberi e ogni animale era mio compagno e amico.

Scuoto la testa in silenzio e improvvisamente mia madre mi si inginocchia davanti, prendendomi il viso tra le mani:"Gilwen, so che il cuore ti parla in modo diverso... ma credimi io sono stata giovane prima di te e ho sofferto, per aver dato retta al cuore!

Ho sbagliato ascoltandolo, seguendo qualcuno che non conoscevo veramente. Tu non ripetere i miei errori: anche se non ti ha stregata, conosciamo Patrick da che è nato.

Ha un mestiere, una casa, ti terrà bene, ti darà dei figli. Resteremo vicine, ti aiuterò a crescere i bambini e tu sarai felice. Essere madre supererà ogni tua immaginazione, credimi. Io non sarei nulla senza te e i tuoi fratelli! Ti prego, Gilwen, ascoltami".

E le sue mani mi sfiorano lievi, come io sia di cristallo, il suo cristallo prezioso.

Suo? Per un istante sono tentata di ribellarmi, ma poi rammento il lavoro di cui si è sempre caricata, pronta ad aiutare tutti nel villaggio pur di rendersi gradita, perché i suoi figli fossero accolti tra gli altri bambini senza chiusure.

Risento la sua voce dolce cullarmi prima d'addormentarmi, piccola da raggomitolarmi nella cesta di vimini in cui piegava il bucato pulito, odoroso di verbena.

Ancora una volta mi si intorpidisce la coscienza di cosa vorrei, e l'idea di scappare naufraga in quel suo abbraccio tenero, bisognoso, implorante.

Chiudo gli occhi e abbasso il viso, tra le sue mani ruvide e calde.

Trascorre la notte e a giorno avvio una minestra odorosa di verdura, con ogni cura possibile. Adorno la capanna di fiori e nel tardo pomeriggio indosso una tunica di lana filata, tinta con l'azzurro carico dei fiordalisi. Metto la collana e apro a Patrick, che infine sta bussando all'uscio.

La prima cosa che vedo, è la lepre insanguinata che gli pende dal fianco.

Gli Elfi non toglievano la vita agli altri viventi, se non per difendersi. Conoscevano le armi e anzi ne forgiavano di incantate, spade e pugnali di qualità ineguagliabile, archi dalla gittata e precisione inarrivabili.

Ma non usavano nulla di ciò per cacciare. Persino quel che prendevano alle piante era raccolto senza privarle di parti essenziali, senza mutilarle, senza ucciderle.

Quella lepre appesa per le zampe, penzolante floscia, che sbatte al passo di lui, inerte con gli occhi vitrei, sbavando sangue, mi ferma il cuore. Un attimo, poi riparte, cupo come un tamburo funebre.

Ma è per me, il tamburo; mia la vita che va a spegnersi, insieme alla lepre. Sento a mala pena mia madre farsi avanti accogliendo il giovane, lodandolo per il suo talento di cacciatore e ringraziandolo dell'omaggio.

Io mi sono semplicemente tirata indietro, passiva, lasciandogli lo spazio per entrare, senza una parola. E silenziosa e rigida rimango per tutta la cena, continuando a vedere con la mente la lepre dietro di me, appesa a una trave perché prima d'essere cucinata deve frollare giorni.

È una lunga serata, tra gli sguardi interrogativi del giovane e quelli furiosi di mia madre. Provo a balbettare una scusa a metà cena, sull'essere indisposta, che ancor più fa arrossire mia madre e che la costringe più ancora a giustificare quella sua benedetta figliola.

"È molto timida", dice a Patrick," e molto ingenua. Non abbiamo mai avuto ospite un giovanotto, sai anche tu che viviamo molto ritirate, ancor più da che è morto mio marito. I miei figli minori...", e li indica intenti a frugare nel piatto per pescare gli amati funghi, "...sono ancora troppo piccoli per essere una compagnia per lei.

Ma quando prenderete un po' di confidenza e sentirai la sua voce...", e mi fulmina, perché ho a malapena sussurrato due parole,"...scoprirai che è armoniosa come quella di un uccellino, e che i suoi pensieri sono gentili e innocenti come il profumo dei fiori di campo".

Patrick sorride rassicurato perché sono arrossita, senza immaginare che l'abbia fatto per la rabbia, non certo perché abbia trovato lusinghieri i complimenti. Mi sono sentita decantare come una merce in vendita, e il mercante è mia madre.

Questa sera il divario tra il mio sentire e quel suo desiderio di fare di me una docile e normalissima donna, tutta umana, sposa e madre, si sta allargando ancora, baratro sempre più profondo.

Gli ultimi momenti della cena si trascinano infiniti e penosissimi. Patrick tenta inutilmente di sciogliere il mio silenzio; quando mia madre ci lascia per portare a letto i miei fratelli, cosa ridicola perché non sono certo così piccoli da renderlo necessario, lo scoppiettio della legna resta l'unico suono.

Patrick tenta di ridurre le distanze fisiche, e il senso di rifiuto si fa così netto che perfino qualcuno più ottuso di lui capirebbe. Non riesco a sopportare l'idea delle sue mani addosso, non riesco a non sentirmi gelare, a non ritirarmi nelle spalle, a non trattenere il fiato come se non mi si apra più il torace. Patrick va via sbattendo la porta alle sue spalle.

"Domani lo cercherai e riparerai alla scortesia di stasera", mi dice cupa mia madre, tornata nella stanza al rumore del tavolato. "Da questo dipende il tuo futuro sereno, ma anche quello dei tuoi fratelli e il mio", rincara, facendomi pesare anche questo e lasciando sgocciolare dalle parole tutta la sua infelice delusione.

Mi lascio cadere sullo scranno in cui si sprofondava mio padre, mentre si lasciava morire. Come sia oggetto di una maledizione, come abbia il potere di risucchiare la vita, mi fa sentire debolissima.

Non mi alzo neppure allo spegnersi della lucerna. Rimango inchiodata lì al buio, a pensare ai miei giorni futuri, oscuri come questa notte. Penso a me come mia madre, in una capanna di pietra. A servire un compagno che mi darà figli, figli che obbligherò a essere umani, a cacciare, a morire senza sapere che gli alberi parlano al cuore.

Nasceranno più umani di me, se accetto Patrick, certo non avranno l'argento dei miei capelli né il dono di incantare i cervi.

Continuo a pensare mentre nuvole si ammassano nel cielo, e neppure il brillio lontano delle stelle filtra dai vetri.

Così fragile, mia madre! Ma il suo fragile, amorevole abbraccio mi sta soffocando l'anima. Con un ricatto d'amore mi sta mettendo di forza nei suoi stessi abiti, nella sua stessa condizione, nella stessa infelicità.

Sento avvilita l'immobilità sulla sedia ghiacciata intorpidirmi le membra, tanto quanto l'immobilità della vita al villaggio mi ha sempre intorpidito la mente.

Infine, arriva l'ora in cui un chiarore debolissimo strappa le prime sagome grigie dal fondale nero della notte. Dietro la finestra prendono consistenza, robuste, le colonne degli alberi.

Colonne del tempio che ha per tetto, magnifico e irraggiungibile, il cielo. Il Tempio di Colui che si era ritratto dagli Elfi, perché avevano rifiutato ciò che sussurrava al loro cuore.

Cosa mormora, cosa sento nel mio cuore? mi chiedo, finalmente determinata ad affrontare la realtà. Non certo Patrick. Non questo villaggio, non una lepre insanguinata, non una minestra dal sapore ferroso di paiolo.

Lo sguardo mi cade sull'arco. Non sei un elfo, Gilwen, mi ammonisce una coscienza impaurita. Perché infine i sogni sono belli, ma per quanto buia, la sola vita che abbia mai conosciuta è in questo villaggio.

Neppure sono solo un'umana, però, risponde certa quell'altra coscienza che ha sussultato quando le mani di Patrick mi hanno sfiorato, senza troppi complimenti, a verificare che almeno sotto la tunica ci fosse morbidezza a sufficienza da stringere, tentando perfino d'arrivare a controllare se avessi mai compiaciuto qualcun altro.

Mia madre entra mentre l'alba si affaccia; luce anche nel mio cuore, finalmente! Mi alzo dalla poltroncina che ha divorato mio padre: con me ha fallito, non ha potuto risucchiarmi l'anima.

Anzi, mi alzo con la certezza di quel che ho trovato in fondo ai miei pensieri. Non sono come inutilmente hai cercato di plasmarmi, madre, come persino queste pareti hanno cercato di costringermi ad essere.

Mi tolgo la collana; in silenzio tolgo anche la tunica e prendo dalla panca i pantaloni di mio padre e la sua casacca.

Lei tenta di fermarmi con il suo pianto, la mezzelfa dai capelli castani. Tenta di usare i sensi di colpa, il ricatto d'amore per i miei fratelli.

"Tornerò a visitarli", dico.

"Loro! Me no?", chiede con gli occhi enormi nel viso distrutto quando capisce infine che andrò veramente via.

Più ancora dell'orrore per questa scelta incomprensibile la ferisce a morte l'ultima frase. "Visiterai loro e non me? Io che ti ho dato la vita, che ti ho dedicato tutte le cure che ho potuto... Mi abbandoni?"

"No, madre; non potrei, semplicemente perché sei tu che hai abbandonato me, già molto tempo fa", rispondo con gli occhi finalmente, dolorosamente, aperti:"Mi hai abbandonato appena ho tentato di dirti chi ero, cosa sentivo.

Da quel momento mi hai voltato le spalle; hai fatto di tutto per farmi sentire sbagliata, per convincermi che dovevo cambiare, che dovevo somigliarti e che ogni passo in un'altra direzione era una caduta e ti deludeva.

Ma io non posso cambiare ciò che sono. Per questo vado via. Sono stanca di sentirmi schiacciata in un ruolo che non è il mio, non mi sento più neppure amata. Ora basta, seguirò la mia strada ovunque porti", e afferro l'arco e una fiasca d'acqua.

"Gilwen, tu non lo sai perché non sei mai stata sola... Ma è un mostro, la solitudine!"

Parla pallidissima e sconvolta:"Nessuno, umano o elfo che sia, può vivere solo senza perdere se stesso. Per questo quando divennero così pochi gli Elfi si mescolarono agli umani".

Crollo il capo e apro la porta. Alla luce ancora fredda dell'alba il bosco si agita mormorando.

"Non sarò sola, madre", rispondo emozionata:" Gli alberi mi parlano e gli animali mi conoscono e si fidano di me. Io devo tornare nel mio mondo, ne sento il richiamo...", e indicandolo, "...chissà che non sia neanche la sola a rispondere. Forse la collera di chi genera i viventi è svanita, forse ha deciso di concedere una seconda occasione al sangue che sento scorrere caldo nelle vene.

Io non mi tirerò indietro, se è così. Scoprirò dove vuole portarmi e perché. Mi dispiace di averti delusa tanto, madre, ma non posso scegliere da me, di essere per sempre infelice".

E prendo un respiro.

Un respiro profondo, prima di buttar l'arco di traverso dietro le spalle e lanciarmi.

Per la prima e ultima volta mia madre mi vedrà correre come so, decido.

E veramente mi osserva volare sull'erba; così leggera e rapida,

col biancore argenteo dei capelli che paiono ali librate sulle spalle.


Mi vede scomparire tra gli alberi, penetrando il bosco come una freccia scoccata da un arco magico, e finalmente le trema il cuore, perché, nonostante gli elfi siano estinti da generazioni, capisce di averne visto uno muoversi nuovamente sulla terra.

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