15. Io ti aspetto, sempre

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Corretto

Non riesco a smettere. Non riesco a smettere di ripensare a quelle parole e il conseguente dolore che mi fa stringere il cuore e mi attraversa il petto. Non riesco a smettere di rivivere le immagini delle sue lacrime colare lungo le guance, la schiena curva, i rumori del pianto trattenuti tra le labbra per non farsi sentire, o forse, chissà, per dimostrarsi forte nonostante l'evidenza.

Piangere e basta è un discorso, piangere facendo rumore è un altro.

E tu hai scelto di mostrarti forte perché sarebbe stato troppo far vedere le tue debolezze anche a colui che ti resta accanto in qualsiasi momento.

Almeno tu riesci ancora a provare qualcosa, a sentire qualcosa, a differenza di me che sono stata inghiottita da un vortice di apatia e di cui non riesco a riconoscere l'uscita.

In questi casi, come si torna a sentire? Come si torna a percepire te stessa e il mondo fuori?

«Terra chiama Bianca, ripeto, Terra chiama Bianca» la mano di Matt sventola davanti al mio volto per richiamare la mia attenzione e riesce a ottenerla.

Torna a mettersi seduto accanto a Sofy e sorride di fronte alla mia distrazione: «Ah eccoti di nuovo nel mondo dei vivi. Com'è stato il tuo viaggio ultraterreno?» mi prende in giro con un sorriso sfacciato in volto.

Sofy nasconde un sorriso dietro al palmo di una mano, prima di riprendere a mangiare ciò che hanno servito oggi in mensa.

«Davvero interessante, Matt, grazie per l'interessamento»

«Prego, socia, sai quanto mi interessano questi viaggi che ti fai. Dovrei iniziare a farli anch'io, forse riuscirei a svagarmi un po' di più» lancia in aria la mala che regge in mano, prima di addentarla con un gran sorriso.

Forse non lo sai, ma è meglio restare concentrati su questo mondo perché significa che riesci ad accettarlo, ad accettare quello che ha riservato per te.

Ma questo non lo dico e cerco di concentrarmi sui discorsi che stavano portando avanti Matt e Sofy mentre io ripensavo alle immagini di Dylan chiuso dentro allo spogliatoio e Logan seduto accanto a lui per dargli un minimo di conforto.

Ho passato l'intera giornata a cercarlo con lo sguardo nei corridoi. Ancora una volta ho cercato i suoi occhi fra tutti quelli degli altri studenti, ma non li ho trovati e non riesco a trovarli tutt'ora, seduta al solito tavolo della mensa per mandare giù del cibo di cui non sento di avere bisogno.

Nel frattempo, ho avuto pure la presunzione di aver capito la sua tattica. Col suo essere distaccato, schivo, sono sicura mi voglia tenere lontana da qualcosa, ma non so cosa.

Adesso le sue parole acquisiscono un senso: "Così ti deciderai ad allontanarti una volta per tutte da me", "... Perché non porto a nulla di buono".

Il suo problema, di conseguenza lo è anche per me. Perché i suoi problemi sono la causa dei miei, e il mio problema più grande è lui. E io non mi arrenderò di certo nello scoprire cosa nasconde.

E se non volessi più cercare di risolvere solo i suoi problemi, per risolvere i miei? E se fossi davvero incuriosita di sapere cos'è che nasconde a tutti?

No, Bianca, questo non potrebbe mai succedere perché tu non ti saresti mai interessata a lui se non foste finiti insieme in punizione. Tu lo odi, tu non provi neanche un briciolo di compassione per quello che hai visto dentro a quello spogliatoio, perché tu hai solamente visto il riflesso di te in lui. Quella per cui stavi provando compassione eri tu, non lui.

La voce nella mia testa mi suggerisce di odiarlo e io decido di crederle, per il mio bene, per non restare ancora una volta ferita dai gesti di Collins, perché quanto voglia credere che in lui c'è del buono, sono anche convinta che sia solo un'illusione per rendere meno amara la medicina.

A fine giornata, aspetto un'infinità di tempo seduta al solito tavolo della biblioteca, ma non si presenta nemmeno questo pomeriggio e dopo un'ora seduta ad aspettare, decido che è arrivato il momento di tornare a casa.

Sbuffo sonoramente una volta essermi richiusa la porta di casa alle spalle. Saluto ad alta voce mia madre, come sempre.

Un'altra abitudine che non ho perso nonostante ho perso te.

Trascino i piedi verso la cucina, dove sono sicura di trovarla perché se c'è una cosa che mia madre non ha smesso di fare è prepararsi una tazza di tè ogni volta che torna da lavoro. Infatti, la trovo lì, appoggiata al bancone della cucina, tra le mani la tazza ancora fumante. Ma, come tutte le altre volte, ha lo sguardo perso oltre il vetro della finestra, gli occhi fissi su chissà cosa, forse solo persi.

Sorrido, nonostante tutto. Mi poggio allo stipite della porta e incrocio le braccia al petto: «Mamma» la richiamo «Che fai?» non mi risponde ed è allora che il cuore salta un battito.

Mi stacco dallo stipite e avanzo di un passo, richiamando di nuovo la sua attenzione.

«Ci ha dimenticati, Bianca, è passato avanti» soffia mentre non riesce a trattenere il tremolio della voce.

«Chi, mamma? Chi ci ha dimenticati?»

«Tuo padre. Non siamo più niente per lui o forse non lo siamo mai stati» continua a sussurrare. Poi, rendendosi conto di ciò che ha detto, continua a sussurrare tra sé: «No, un tempo siamo stati qualcosa per lui. Io non sono stata cieca, io l'ho visto nei suoi occhi l'amore»

Sta iniziando a delirare, come accadeva tempo fa. Si sta perdendo in soliloqui sussurrati per ricordare a se stessa che un tempo loro si sono amati, che non è possibile che un uomo abbia costruito tutto questo con lei senza provare almeno un briciolo di amore.

Sento gli occhi farsi lucidi, ma cerco di non lasciarmi andare proprio adesso.

Adesso hai bisogno di me e io devo esserci.

Le sue parole, mi riportano alla mente quella strana emozione che ho provato qualche settimana fa. Cerco in tutti i modi di allontanarla dalla mia mente quando sussurro anch'io: «Perché dici questo?»

Solo adesso, si degna di donarmi uno sguardo. Lentamente si volta verso di me, fino ad incatenare i nostri sguardi. E mi sento mancare la terra sotto i piedi quando noto la condizione in cui si trovano: svuotati di qualsiasi cosa, di emozioni, sensazioni, svuotata di sé.

«Non fare l'ingenua Bianca, sai benissimo che tuo padre aspetta un altro figlio dalla donna con cui mi ha tradito!» mi grida contro, in preda al dolore, facendomi sobbalzare per la sorpresa.

Scoppia un pianto liberatorio, uno di quelli in cui non ti senti più padrone del tuo corpo e hai paura che la tua anima possa scappare da te attraverso le lacrime calde. Con una mano, si aggrappa al bancone dietro di lei per non cadere vittima delle sue gambe molli.

Vorrei avvicinarmi per sorreggerla, per stringerla forte a me e ripeterle fino allo sfinimento che lei non ha mai fatto nulla di male per meritarsi un tradimento, che lei è abbastanza, per sé stessa e per noi.

Perché, nonostante tutto, sei mia madre e non sarà mai troppo tardi per tornare tra le mie braccia. Io ti aspetto, sempre, qui e pronta ad accoglierti di nuovo.

Ma non riesco a fare neanche una cosa d'istinto perché so già come andrebbe a finire e non voglio più provare una sensazione del genere, farebbe troppo male per sopportarlo. E così piango insieme a lei, ma a distanza.

«Perchè non me l'hai detto?» riesce a chiedermi, dopo un lungo silenzio riempito con i singhiozzi del pianto.

«Perché non volevo ferirti di nuovo, non dopo gli ultimi anni. Hai fatto molti progressi e non sarei riuscita a sopportare di vederti di nuovo in quelle condizioni. Era così bello vederti sorridere di più» di riflesso, inizio a sorridere anch'io perché ripenso a quanto sia bella quando sorride.

«Hai ragione, avrei sofferto, ma non quanto lo sto facendo adesso. Sapere che mia figlia fosse stata sincera con me, avrebbe un po' alleviato questo dolore al petto!» grida ancora, gli occhi adesso illuminati di una luce che non le avevo mai visto, o almeno, mai rivolta a me.

Rabbia, mischiata a delusione e dolore. Un'immagine difficile da dimenticare.

La fisso senza riuscire a dire una parola, poi riesco a parlare: «Mi dispiace così tanto, mamma. Per quanto possa valere, ti chiedo scusa se non te l'ho detto prima»

Mi fissa per altri interminabili secondi, poi raddrizza la schiena, con una mano si asciuga le lacrime che le hanno rigato il volto e solo dopo essersi ricomposta, mi dice: «Non valgo niente le tue scuse, Bianca. La situazione rimane sempre la stessa»

Si volta dall'altra parte, portando alle labbra la tazza fumante e ne beve un sorso, dopo aver soffiato. Continua a fissare fuori come se non riuscisse a guardarmi negli occhi.

Perché mamma, perché mi fai questo? Guardami negli occhi, affrontami, parlami, sprofonda nelle mie iridi e trova parti di te che hai lasciato in me, in Alex. Ti prego, non ignorarmi così perché fa un male cane.

Trovo difficile continuare a trattenermi e altre lacrime calde solcano le guance. Il petto viene scosso da diversi singulti, ma la compostezza con la quale mi ignora, mi suggerisce di andare via da lì per preservare quello che è rimasto del mio cuore da quel dolore inferto dalla sua indifferenza, dalle sue parole.

Mi chiudo in camera mia dopo essere scappata letteralmente dalla cucina. Mi getto sul mio letto e finalmente mi lascio andare completamente al pianto, mi arrendo alla sua volontà e lascio che faccia di me quello che gli pare. Affondo il volto nel cuscino per eludere ogni suono del pianto alle mie orecchie. Sarebbe troppo doloroso persino ascoltare i miei singhiozzi.

E in quelle condizioni perso il senso del tempo. Per quanto tempo rimango ferma in quella posizione? Per quanto tempo riesco a piangere prima di iniziare a sentire gli occhi bruciare? Non lo so, so solo che non ci metto tanto a prendere il telefono tra le mani e chiamare Matt per raccontargli ciò che è successo, ascoltarlo consolarmi e darmi la forza necessaria per strapparmi un sorriso. Nel frattempo, Alex continua a bussare alla mia porta, ma finisco col cacciarlo ogni volta perché significherebbe ricominciare a spiegare daccapo e rivivere con più consapevolezza tutto ciò che è accaduto. Ora non so se riesco a farlo.

«Non dovresti trattare così tuo fratello. Chi è sempre stato in prima linea a curare il tuo dolore?»

Le parole di Matt mi fanno riflettere, tanto da riuscire a convincermi di lasciare entrare Alex nella mia stanza al suo ennesimo tentativo di parlare con me.

Saluto velocemente Matt e riattacco, mentre mio fratello si muove lentamente verso il mio letto per poi lasciarsi andare sul materasso morbido, ai piedi del letto.

Mi siedo accanto a lui. Lo fisso per un istante negli occhi verde smeraldo, gentili, accoglienti, poi mi soffermo sulle labbra leggermente incurvate all'insù, come invito a fidarsi ancora una volta di lui e solo allora mi sento crollare. Gli occhi si fanno lucidi, di nuovo, le mani iniziano a tremare, di nuovo e trattenere il pianto mi risulta difficile, di nuovo.

Alex non impiega molto tempo per venire più vicino e stringermi forte tra le sue braccia. Col viso nascosto nell'incavo del suo collo, finisco col bagnargli la maglia con le lacrime mentre la sua mano gentile mi accarezza i capelli e la schiena.

«So tutto» mi dice e lo stringo più forte. Riprende: «Non hai fatto nulla di male, Bianca, hai fatto quello che credevi sarebbe stato meglio per lei. Non ti rendere colpevole anche di questo»

«Non mi ha neanche guardato negli occhi, Alex, era come se non ci riuscisse» piagnucolo.

«Sei solo una ragazza Bianca, ti è permesso fare sbagli, ma c'è sempre una soluzione, per tutto. E anche se adesso si sente ferita dal tuo comportamento, non significa che continuerà a esserlo»

Scioglie il nostro abbraccio, posa entrambi i palmi sulle mie guance e con i pollici mi asciuga le lacrime colate. Fissa il suo sguardo nel mio e torna a sorridere: «Ricordi i passi avanti che ha fatto in questi anni? Stai tranquilla perché non sarà per una bugia che tornerà in quelle condizioni»

Per quanto voglia credere alle sue parole, non ci riesco. Era una bugia legata a nostro padre, siamo sicuri che riuscirà a non cadere nello stesso baratro di anni fa?

Nonostante i miei pensieri, annuisco debolmente, prima che le sue labbra depositano un dolce bacio sulla fronte.

Ancora una volta, ti sei dimostrato per quello che sei: il più forte tra i due. Come farei se non ti avessi? Se il destino delle nostre vite era già scritto, sono sicura che è stato lui stesso a metterti vicino a me, perché sapeva che avrei avuto bisogno di qualcuno che riuscisse a tenermi a galla nei momenti più bui, mentre tu sprofondi.

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Mi sveglio di soprassalto e con la fronte imperlata di sudore, per via di un brutto sogno. Ma quando mi ricordo di essermi addormentata tra le braccia di Alex, il cuore smette di palpitare velocemente.

Sei al sicuro.

Qualche minuto dopo sono in cucina per via della fame. Cerco qualcosa da ingerire e finisco per accontentarmi dell'insalata del giorno prima. Sono le dieci di sera. La casa è immersa nel silenzio, così soffocante, tanto da riuscire a farmi mancare l'aria per qualche secondo.

Sento improvvisamente la necessità di fare una passeggiata per sgranchirmi le gambe e respirare aria pulita. E così decido di assecondare il mio desiderio, dopo essermi accertata che mia madre e Alex dormissero profondamente.

Mi incammino per le strade della città, le mani nelle tasche della giacca che ho indossato prima di uscire e le cuffiette nelle orecchie, ma a basso volume. I pensieri mi distraggono dalla strada che sto seguendo e solo quando mi rendo conto di essere arrivata al MacArthur Park, illuminato dai lampioni a luce fredda e attraversato ancora da un numero considerevole di persone.

Non mi lascio sfuggire l'occasione di fare una camminata tra i verdi prati, l'aria più pulita e più fresca e così mi incammino nella sua direzione.

Camminando per il sentiero tracciato per i pedoni, non posso evitare di gettare delle occhiate alla gente che ha avuto la mia stessa idea. Ma il mio sguardo si sofferma su una famiglia, probabilmente di turisti perché si stanno facendo fare una foto da una signora tutta sorridente. I genitori si tengono stretti, il braccio dell'uomo a circondare il fianco della donna e ai lati di ciascuno si trovano i loro figli, più o meno della mia età.

Una stretta al cuore mi coglie all'improvviso e se prima le mie labbra si erano allargate in un debole sorriso, adesso stringo forte i pugni nascosti nelle tasche e gli occhi si velano di uno strato di lacrime. Aumento il passo per allontanarmi da quella scena il prima possibile.

Qualche metro più avanti trovo una panchina disponibile su cui sedermi per riposare un po'. Passo interi minuti ad osservare gli altri passeggiare e le chiome degli alberi venir mosse quasi impercettibilmente dal venticello.

Ad un certo punto, qualcosa attira la mia attenzione, una strana figura al mio fianco, qualche metro più in là. Con mia grande sorpresa, scopro che è uno scoiattolo che mi osserva per qualche secondo, prima di avvicinarsi velocemente a me.

Sale sulla panchina, iniziando ad annusare le tasche della mia giacca.

«Non ho nulla che ti possa interessare, piccolo» parlo piano affinché nessuno riesca a sentirmi. Ma lo scoiattolo continua ad annusare, spostandosi verso le tasche dei jeans.

Per essere uno scoiattolo è davvero coraggioso e temerario.

Continuo a non capire cosa stia cercando visto che l'unica cosa che ho in tasca sono le chiavi di casa. Le tiro fuori e inizio a giocarci, facendogli seguire con lo sguardo la chiave di casa con un semplice portachiavi a forma di cuore rosso.

Sorrido mentre il suo naso si avvicina all'oggetto per annusarlo, poi, con un gesto veloce, afferra l'unica chiave e me la tira via di mano, scappando via il più velocemente possibile.

«Oh, andiamo, ma stiamo scherzando?!» brontolo, mentre sto già correndo nella sua direzione, in un'imbarazzante rincorsa di uno scoiattolo che mi ha rubato le chiavi.

Ma come ho fatto a farmi strappare dalla mani le chiavi? Non ci si può fidare neanche degli scoiattoli adesso.

Lo rincorro per buona parte del parco, gridandogli di fermarsi, senza rendermi davvero conto di star parlando con un'animale. Lo seguo fin fuori il parco e una volta arrivato di fronte ad un muro ricoperto di rampicanti, sale velocemente sulla pianta e oltrepassa il muro. Io, invece, sono costretta a fermare la mia corsa.

«No, dannazione!» grido, col fiatone. Osservo la cima del muretto, cercando di trovare un modo per scavalcarlo. La soluzione mi si presenta poco più avanti, nel punto in cui le rampicanti formano dei buchi in cui potrei provare ad arrampicarmi.

E ci provo, per davvero, poso la punta del piede in una di quelle fessure e, aggrappandomi con entrambe le mani ad alcune più in alto, mi do la spinta con l'altra gamba per iniziare la scalata. Faccio lo stesso con l'altro piede, poi di nuovo con l'altro e continuo così per qualche altro centimetro finché mi rendo conto che le fessure disponibili su cui aggrapparmi con le mani sembrano essere terminate.

«Porca puttana, non pensavo che nelle mia vita avrei assistito ad uno spettacolo del genere»

Una voce troppo familiare arriva alle mie orecchie, divertita e quasi sfottente come sempre. Collins.

Strizzo gli occhi e mi mordo il labbro inferiore violentemente per via della vergogna. Adesso quest'evento si aggiungerà alla lunga lista di cose da rinfacciarmi per il resto della mia vita.

Gli lancio un'occhiata da sopra la spalla e lo vedo a pochi metri da me, con le mani sprofondate nelle tasche del giubbotto di jeans con la pelliccia bianca interna e un sorriso che gli gonfia le guance e gli dona l'aria di un ragazzo normalissimo.

Un salto, un grande salto da metri di distanza.

Mi si blocca per un istante il respiro, prima di schiarirmi la voce: «Non è il momento, Collins. Non vedi che sono un po' impegnata?» torno a guardare la rampicante per cercare un'altra fessura.

La sua risata risuona per tutta la strada, sguaiata, divertita, vera. Mi volto di nuovo a guardarlo da sopra la spalla e lo trovo piegato in due dalle risate.

Nonostante mi irriti, quella risata così sincera mi coinvolge tanto da farmi sorridere debolmente.

«Scusa, è che non riesco a smettere di ricordare le tue urla contro quel povero scoiattolo» dice con difficoltà, posando una mano sullo stomaco.

Avvampo: «Mi hai visto?»

«Era impossibile non farlo. Sai quanto hai gridato?»

Mi volto dall'altra parte per non far vedere il rossore delle guance, mentre lui continua e avanza verso di me: «Non riuscirai mai a scavalcare questo muro»

«Questo lo dici tu, Collins. Vedrai, ti stupirò»

«Oh, quanta volontà e questo solo per riuscire ad impressionarmi. Fallo, allora, vediamo che sai fare, ragazzina»

«Ti ricrederai» dico con la voce intrisa dallo sforzo, mentre cerco di continuare la mia scalata dopo aver trovato una fessura abbastanza grande per permettermi di arrampicarmi. Ma devo aver calcolato male perché la mano scivola e rischio di cadere. Sento i passi di Dylan scattare verso di me, forse per afferrarmi nel caso fossi caduta.

Ma riesco a restare aggrappata e con cuore che rimbomba dentro alla gabbia toracica per la paura.

«Spiegami meglio perché credo di non aver capito bene le tue intenzioni, hai voglia di cadere o di scavalcare il muro?»

«Smettila, sai benissimo qual è il mio obiettivo»

«D'accordo. Allora perché non mi segui, così ti porto in un punto che è accessibile?»

«Grazie, ma non ho bisogno del tuo aiuto» ritento, sulla stessa fessura, ma rischio ancora una volta di cadere.

«Sei davvero così sicura?» mi chiede, con un tono che nasconde la sua reale preoccupazione. Tento ancora ma rischio di cadere, di nuovo. Sospiro, esasperata.

Punto lo sguardo su lui che mi sorride debolmente, divertito e con un sopracciglio alzato.

Sospiro pesantemente, gettando la testa all'indietro: «D'accordo, ma solo perché sono disperata e sei la mia unica soluzione»

«Bene. Adesso scendi da lì ragazzina, prima che ti faccia veramente male»

«Oddio, Collins, non ti starai preoccupando mica per me?» canzono, mentre col piede tasto il tappeto di rampicanti per trovare le fessure grazie alle quali sono riuscita a salire poco prima. Ma non riesco a trovarle.

«Nessuna preoccupazione ragazzina, sono solo di fretta, per cui ti chiedo di velocizzare il passo»

Non presto molta attenzione alle sue parole perché troppo impegnata a esultare per essere riuscita a vedere nell'oscurità della sera la fessura adatta per poggiare il piede, ma devo aver visto male e finisco per scivolare. Sono pronta a cadere per terra, sicura di farmi davvero male ma delle forti braccia mi prendono al volo.

Riapro gli occhi e mi trovo in braccio a Dylan che mi guarda con un po' troppa preoccupazione. Non dice una parola, rimane a fissarmi per qualche secondo interminabile, dove io mi perdo per la prima volta in quei grandi occhi dal colore uguale a quello del ghiaccio e lui fa la stessa cosa. Ad un certo punto, come ad essersi reso conto di tenermi ancora tra le braccia, sbatte velocemente le palpebre e mi lascia toccare di nuovo terra con le suole delle scarpe.

«Sbrighiamoci, lo scoiattolo potrebbe aver già nascosto le tue chiavi nel suo nascondiglio» dice, per infrangere il silenzio imbarazzante in cui ci eravamo cacciati.

Comincia a camminare e io lo seguo, mentre nella mia mente non riesco a smettere di domandarmi cosa sia appena successo.

Era davvero il mio cuore a battere così forte?

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