TUTTA COLPA DELLA MAREA

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Fu per colpa dell'improvviso innalzarsi della marea che Lei, in un caldo pomeriggio di un qualsiasi martedì di Agosto, rischiò di perdersi...

Lei e Lui si volevano bene, moltissimo. Si chiamavano amici e, forse, non si erano mai amati. Oppure, semplicemente, non se l'erano mai detto. Più probabilmente nemmeno volevano ammetterlo a se stessi.

E mentre pensava a tutte queste cose Lei se ne stava lì. Le cuffie infilate nelle orecchie e gli occhiali scuri, ampi, a nasconderle le lacrime che le solcavano le guance scivolando dagli occhi.

«È sua quella borsa?», qualcuno le aveva scosso la spalla per riuscire ad ottenere la sua attenzione.

«Oh», era trasalita, «Sì... Sì, grazie».

Tirò su col naso, cercando di darsi un contegno, e sorrise a quello sconosciuto che, gentile, le porgeva i suoi averi.

Era distratta. O, se volessi essere più specifica, assorta forse, sospesa.

Proverò a spiegarmi meglio: Lei era lì, ma non era lì. Non con il cuore e con la mente almeno. Era lì, il suo corpo era lì, in mezzo a tutta quella fila pronta ad imbarcarsi sull'aereo che li avrebbe portati chissà dove, ma la sua anima, invece, la sua anima era rimasta intrappolata fra i granelli d'oro di quella spiaggia antica, trasportata lontana dalle onde che, del mare, si scagliavano insistenti per non lasciare, di Lei, nulla.

Si chiedeva il perché, ancora una volta, fosse rimasta coinvolta dal sormontare dell'ondata di sentimenti ed emozioni che - forse per l'ultima volta, amava ripetersi - l'avevano schiaffata a terra come fosse un derelitto.

Pensava di essere cresciuta, per una volta.

Pensava di essere finalmente diventata grande. Una volta per sempre, magari.

Quant'era amaro, allora, per Lei, constatare di essere ancora piccola. Tanto piccola da perdersi in quel mare che, dentro di Lei, si agitava e si faceva sempre più grosso - immenso - obbligandola alla deriva.

E l'oceano che aveva dentro cresceva e cresceva - e Lei diventava piccola - e le sgorgava dagli occhi - perché dentro non ci stava più - e rischiava di scenderle sulle guance, ma Lei non lo permetteva. Si apprestava infatti ad asciugare il tutto prima che anche solo una lacrima, non più nascosta dalle lenti scure, fosse palesata e visibile a quegli spettatori indesiderati che, ignari, si accingevano in fila trascinando trolley e borsoni.

Ma non c'era modo di arrestare l'alta marea. Così, ogni attimo vissuto portato inevitabilmente a galla risaliva dal cuore ai canali lacrimali e, libero dalla prigione degli occhi, si tramutava in forma liquida che affoga.

Ormai incapace di guardare dentro se stessa, dato il continuo sormontare dell'acqua, guardava fuori, Lei. Osservava. Si soffermava, le ciglia scurite dall'umidità, su ognuna delle persone che la circondavano.

Alcuni ridevano beatamente, forse in fibrillazione per il viaggio che si apprestavano a compiere; altri sbuffavano guardando l'orologio; molti facevano un gesto di dissenso con il capo, per poi guardare in avanti a verificare di quanto ancora fosse lunga l'attesa; altri ancora ingannavano il tempo leggendo riviste o libri, oppure smanettando ossessivamente con gli smartphone.

Agli occhi di Lei, però, Tutti erano subito pronti a muoversi non appena fosse possibile, desiderosi di prendere posto sull'aereo - e nelle loro vite - senza crogiolarsi in inutili attese.

Non avevano paura, Loro, di far avanzare le loro vite. Ogni passo che invece compiva Lei era uno sforzo senza eguali, una violenza auto inflitta. Aveva la nitida sensazione di avere delle grosse pietre invisibili legate saldamente alle caviglie, Lei, e, forse, qualche volta aveva pure abbassato gli occhi per controllare.

Tutti, sembravano essere sicuri di quello che stavano facendo. Tutti. Tranne Lei.

E si tormentava, chiedendosi come facessero Loro con quell'apparente serenità a essere sicuri di dove stavano andando. E non si riferiva alla meta del viaggio, quella era ben visibile all'ingresso del gate, dove le gentilissime hostess avevano controllato carte di imbarco e documenti dei passeggeri, regalando sorrisi cordiali a tutti. Lei alludeva alla vita. La direzione di vita che ognuno di noi intraprende e che solo Lei - ne era persuasa - aveva perso di vista. Si ritrovava a pensare che Loro sembravano sicuri di stare andando per il verso giusto; Lei, invece - che aveva il mare negli occhi e nelle orecchie il frastuono delle onde del giorno prima, a portarla alla deriva - non vedeva che immagini sfocate. Affogate.

E quanto si incattiviva quella marea, se Lei pensava che era bastata una stupidissima giornata di mare con Lui a mandare all'aria anni e anni di fine progettazione della propria vita.

«Che ne dici di lunedì prossimo?».

«Lunedì prossimo, cosa?».

«Pensavo di venire al mare. Sei libera?».

Solo questo si erano detti. Ma chi l'avrebbe mai detto che la semplice discussione che avevano intessuto sarebbe stata in grado di far crollare il maestoso castello costruito - pezzo dopo pezzo - al fine di crearsi una vita. È che Lei pensava di aver usato solidi mattoni e non stupidissime carte da gioco pronte a cadere al primo alito di vento.

Ma allora perché era bastato un soffio? Perché, ancora una volta, avvertiva crescere in lei quel bisogno primordiale di correre per ricongiungersi alle braccia di Lui?

Era tentata. Lì, mentre schiere e schiere di sconosciuti sfilavano lungo il palcoscenico che è l'esistenza.

Tentennava all'idea di abbandonare tutto, fare marcia indietro, correre verso la stazione e prendere quel treno.

"Sono qui. Corri".

Solo questo gli avrebbe scritto. Lui avrebbe capito. E allora, forse, tutto sarebbe stato diverso.

Ma è giusto ascoltare solo il cuore e non la testa, specie se quest'ultima è appoggiata da una parte del primo?

Questo si chiedeva in continuo, senza tuttavia riuscire a darsi una risposta.

Non era mai stata una persona troppo impulsiva. Non aveva mai fatto una cosa solo perché dettata dalla "pancia". Quel richiamo, però, non era la prima volta che lo sentiva. E aveva provato di tutto, davvero, per cercare di scoraggiarlo, di non dargli spazio. Eppure quell'eco riaffiorava. Bastava scambiare con Lui anche solo due parole in più rispetto a un "Ciao, come stai? Da quanto tempo...", che la voce riprendeva ad urlare cercando di richiamare la sua attenzione.

Ecco, era quello, il "da quanto tempo", il problema.

Erano cresciuti, ma sembrava che, insieme, non fossero grandi mai.

Ogni volta che si vedevano, non aveva importanza se dopo poche ore o anni (nei quali magari nemmeno si erano sentiti), era come se fossero di nuovo quegli spensierati ragazzini che si volevano bene, che si amavano forse (anche se non se l'erano mai detto); quegli spensierati ragazzini che si volevano bene e che erano pronti a ridere insieme per qualsiasi sciocchezza.

E ne erano passati di anni (ne erano passati almeno dieci), ma Loro, insieme, tutte le volte avevano ancora sedici anni. Li avevano avuti, il giorno prima - bagnati dal mare e baciati dal sole, quando il mondo è diventato ancora una volta leggero - sedici anni.

Le battute, gli scherzi, i piccoli gesti e le cose importanti dette con tanta leggerezza. C'era un feeling che né le intenzioni né i tempi avevano mutato.

«E ora come facciamo a sciacquarci dal sale, se non c'è la doccia? Io non ce la faccio a rimanere così tutta la sera, mi prude tutto...».

«Abbiamo le bottiglie d'acqua... Usiamo quelle?».

«Giusto, aspetta che la prendo... È gassata però...».

«E vabbè... meglio che niente, no? Vieni che ti aiuto».

«Ahi! Ahia! Pizzica! Pizzica da morire!».

«Macchè, davvero dici?».

«No, guarda... per finta! Ora tocca a te».

«Oh, cavolo, pizzica da morire!».

«E che ti avevo detto, io?».

«Sì, ma non credevo bruciasse così!».

Avevano qualcosa di speciale, Lui e Lei.

Malgrado gli anni passati e i compleanni compiuti, non avevano mai sviluppato la paura di risultare sciocchi agli occhi dell'altro. Avevano invece imparato a dirsi tutto, ogni cosa, senza filtri, senza mai pensarci troppo su.

«Guardaci. Una bella ragazza, un bel ragazzo - modestia a parte - su una spiaggia meravigliosa a ridere e scherzare, sdraiati sul bagnasciuga. Secondo me chi ci vede non penserà a noi come una coppia di amici, ma come una coppia di fatto. Una coppia e punto».

«Ma cosa dici!».

«Perché, non è vero?».

«Sì... forse... Forse sì...».

«Vieni qui, vicino a me. Ho voglia di giocare con i tuoi capelli».

I piccoli gesti di tenerezza, fra di loro, non erano mai mancati. E, in quel caldo lunedì di Agosto, non si erano risparmiati. Si erano giustificati a vicenda dicendo che solo di questo avevano bisogno: di coccolarsi - solo questo - senza malizia e senza volere di più. Coccolarsi, come amici, quasi dei fratelli, come avevano imparato a fare ormai da anni.

Se l'erano detti e, forse, ci avevano anche creduto per davvero - di essere solo amici, dico.

Si erano chiamati amici, mentre si aggiornavano sugli ultimi avvenimenti della vita di uno e dell'altra. Il lavoro, i progetti, i sogni che li animavano.

Si erano chiamati amici, mentre Lui aveva raccontato a Lei di aver conosciuto questa ragazza che «Guarda è meravigliosa e a questo giro penso possa davvero funzionare» e Lei raccontava a Lui che il giorno dopo sarebbe partita per andare a trovare, per la prima volta, questo altro ragazzo che «Inizio a pensare che sia lui, quello giusto, dico».

Si erano chiamati amici, quando si erano detti che tifavano, l'una per l'altro, e che desideravano davvero di cuore di vedersi felici.

«Ti vedo davvero sereno, mi fa tanto piacere».

«Lo sono. Questa volta, lo sono davvero. Lei è fantastica. E tu... mi fa davvero troppo piacere constatare che anche a tu mi sembri felice».

«Già... Forse questa volta ci siamo entrambi...».

(E forse davvero non erano stati gelosi l'uno dell'altro o forse, più semplicemente, erano stati troppo bravi a non esserlo).

Si erano chiamati amici, mentre, in acqua, giocavano a schizzarsi e a tenersi sotto; bloccando il corpo dell'altro con le braccia, con le gambe, con la pancia, come fossero bambini.

Si erano chiamati amici, quando avevano scorrazzato in lungo e in largo per la strada che costeggia il mare, là dove le rocce sembrano volersi tuffare nell'acqua, fermandosi ai lati della strada solo per far una fotografia o perché «Mi è venuta voglia di focaccia».

Si erano chiamati amici, quando, dopo la giornata di sole e di mare, avevano deciso di continuare a rimanere insieme per la cena. Quando Lei non si era lasciata prendere alla sprovvista e al semplice abitino da mare che già indossava aveva abbinato una cintura e aveva pettinato i capelli in una elegante treccia laterale.

«Sei fantastica! Amo troppo le ragazze così, quelle camaleonte, che con niente sanno valorizzarsi. Guardati! Sei una forza».

Si erano chiamati amici, quando, mentre si ingozzavano di Sushi, continuavano a parlare di quanto fosse bello quello che avevano, dell'intimità, del poter parlare di tutto liberamente e di poter essere pienamente se stessi senza paura di giudizio.

«Con te mi sento me stessa».

«E io con te».

Si erano chiamati amici, mentre, innalzando calici di vino, Lui aveva confidato a Lei di avere avuto per un attimo uno svarione e di essersi costretto a reprimere l'impulso che aveva avuto di posare le sue labbra su quelle di Lei.

«Tu non puoi capire! È stato come un flash, un pensiero rapido: ora mi giro e la bacio. Così, ho pensato. Come se fosse la cosa più naturale del mondo...».

Si erano chiamati amici, quando avevano liquidato tutto con una risata e avevano continuato a chiacchierare, a ridere e scherzare.

Si erano chiamati amici, quando, dopo il dolce rigorosamente diviso, erano tornati in macchina e «Che cosa facciamo?»; «Rimaniamo qui e chiacchieriamo».

Sì erano chiamati amici, mentre Lui disegnava dei cerchi sulle gambe di Lei e Lei giocava con i capelli di Lui.

Si erano chiamati amici, nel momento in cui, per comodità - così si erano detti - erano andati sui sedili posteriori e avevavo iniziato a coccolarsi. Solo questo, solo coccolarsi.

Si erano chiamati amici, mentre, con i corpi ravvicinati e i visi pericolosamente a rischio di collisione, si erano confessati: «Ho voglia di baciarti».

«Vorrei. Terribilmente. Ma non lo faccio. Più per te che per me, se devo essere sincera...».

«Sì, è lo stesso anche per me».

«...Non te lo meriti. Potresti essere felice, con lei, e non voglio rovinare tutto...».

«Io lo stesso. Lui sembra davvero perfetto per te...».

Avevano continuato a chiamarsi amici quando, piuttosto che non toccarsi con le labbra, insistevano a sfiorarsi con il naso, con la fronte, con le guance, con le dita. E si dicevano che così andava bene, che così era meglio.

«Che poi, se ci pensi, questo è il momento più bello. Quello prima del bacio. Quello dell'attesa».

«Sì, ma è una tortura...».

«Una dolce tortura».

Si erano costretti a continuare a chiamarsi amici, quando, non riuscendo a trattenersi più, avevano scelto di riprendere posto sui sedili anteriori e di mettersi in marcia per tornare verso casa di Lei. E «Oh, guarda che luna meravigliosa!».

Si erano chiamati amici, quando Lui aveva accostato a lato della strada, avevano attraversato ed erano arrivati lì, sul precipizio, il vuoto oltre il guardrail, dove la roccia si buttava a capofitto nel mare.

Si erano chiamati amici, quando Lui l'aveva abbracciata e le aveva sussurrato che lo spettacolo era meraviglioso ed era la degna conclusione di una giornata splendida passata con Lei.

Si erano chiamati amici, quando, dopo altre risate suscitate da non si sa più neanche cosa, Lei si era girata e aveva fermato le labbra di Lui con le sue, come fosse la cosa più naturale al mondo - che Lei, subito, non se n'era accorta dell'eccezionalità del gesto e ci era voluta l'espressione interdetta di Lui a farle realizzare.

«Oddio... Scusami! Che cos'ho fatto? Scusami! Non l'ho fatto apposta! Non me ne sono accorta».

Si erano chiamati amici quando, rientrati in macchina, Lui le aveva detto che la capiva e che Lei non doveva preoccuparsi tanto, che alla fine era la stessa cosa che gli era presa anche a Lui al ristorante, quando però aveva represso l'impulso.

Si erano chiamati amici, quando avevano proseguito il tragitto in silenzio - di quelli che urlano più delle parole - mentre cercavano di darsi una ragione, mentre cercavano di scegliere se lasciarsi trasportare dal flusso di corrente o se rimanere saldi sul sentiero già tracciato.

Si erano chiamati amici, quando si erano salutati, stringendosi forte, quasi sapendo che quella sarebbe stata l'ultima volta.

«Ti voglio bene. Scusa se ho fatto - o non ho fatto - quello che ho fatto. Desidero il meglio per te».

«Ti voglio bene anche io. Davvero troppo».

E si ostinavano a continuare a chiamarsi amici, in quel caldo pomeriggio di un qualsiasi martedì di Agosto, in cui Lui scriveva a Lei che non riusciva più a togliersela dalla testa.

«Non riesco più a pensare ad altro... Sto impazzendo...».

«Ti capisco. Anche io sto così... Ma... Non possiamo... Ci stiamo imbarcando in storie potenzialmente importanti per noi. E, ne abbiamo parlato, ci vogliamo troppo bene per rovinarci. Meglio soffrire noi, piuttosto che loro, no...? Tanto è solo un attimo. Solo tempo... e passerà».

«Ma io come faccio a togliermi dagli occhi l'oro delle tue gambe?».

Avevano scelto di ostinarsi a chiamarsi amici, mentre Lei, ormai arresa alle onde che fuoriuscivano dalle lenti scure e seduta sulla valigia sulla quale si era abbandonata - che le forze necessarie per reggersi in piedi non le aveva più - continuava a interrogarsi, passando in rassegna ogni buono motivo per rimanere.

E davvero ci provava, in quel caldo pomeriggio di un qualsiasi martedì di Agosto, a chiamare Lei e Lui amici. Ma l'enorme sforzo che la sua io razionale si impegnava a compiere nel tentativo di rimanere a galla, passando in rassegna ogni buono motivo per rimanere lì, ancora in fila per proseguire la sua vita - così come doveva essere, così come l'aveva pianificata - era quasi del tutto invalidato dalle immagini che la sua io irrazionale, folle e sconsiderata, si ostinava a insinuarle nella mente per agitare la marea.

E ogni immagine che la sua mente le insinuava era una violenta onda che si abbatteva su di Lei e, di Lei, non lasciava che macerie e confusione.

Vedeva il suo sorriso che si avvicinava malizioso alle sue labbra. Un'onda. Sentiva nitidamente il suo respiro nell'incavo fra il collo e l'orecchio. Un'altra onda. Avvertiva la sua mano bruciarle la coscia ad ogni carezza. Un'altra ancora.

E, in quel caldo pomeriggio di un martedì di Agosto, proprio non ci riusciva a continuare a chiamare Lei e Lui amici, perché, irrimediabilmente, l'alta marea l'aveva riempita così tanto da mettere in dubbio il fatto stesso che nel suo corpo ci fosse ancora spazio per Lei. E allora il suo corpo altro non era che un involucro di immagini, di onde e di sentimenti contrastanti. E lei era troppo piccola, tanto piccola da non avere le forze di farsi spazio, dentro a tutto quel mare.

E, anche se, in balia della Marea, ci provava a continuare a chiamare Lei e Lui amici, il suo cuore lentamente collassava. E la marea le aveva inondato le guance, ma a Lei, arrivata a quel punto, nemmeno le importava più di asciugarla, dalle guance, quella marea. Ed era sempre più alla deriva. Sempre più lontana. Sempre più piccina. Sempre più... persa.

E mentre le onde le bagnavano il collo, e le mani, e i seni, Lei realizzava che aveva solo una speranza per poter tornare a riva. Aveva bisogno di una mappa, del disegno del profilo del suo essere, di una traccia da seguire per ritrovarsi.

E la marea la stava affogando e Lei, sballottata dalle correnti contrastanti, non sapeva se resistere - non tradendo se stessa, i suoi progetti, le sue aspettative - oppure se chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare - "Sono qui. Corri"

Lei, però, sapeva che in questi casi una sola era l'opzione. Con foga, iniziò quindi a cercare nella borsa quell'unica cosa che gli avrebbe permesso di fermare tutto e di tornare a respirare, forse.

Il cuore le sussultò quando i polpastrelli delle sue mani avvertirono la superficie liscia di quel quadernino dagli angoli ormai consunti, che Lei portava sempre dietro. Afferrò una penna; cercò la prima pagina bianca disponibile e iniziò a scrivere:

Fu per colpa dell'improvviso innalzarsi della marea che Lei, in un caldo pomeriggio di un qualsiasi martedì di Agosto, rischiò di perdersi...

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