13. Punto di rottura

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No Church in the Wild – JAY-Z & Kayne West (feat. Frank Ocean & The Dream)

Zaira, quando tua madre mi ha detto che dopo la cena dell'altra sera hai lasciato Elia sono rimasta molto sorpresa, realizzando solo dopo di aver giocato un qualche ruolo in quello che è successo. Temo che parte della tua decisione sia nata da un mio commento forse infelice – ho visto qualcosa rompersi nel tuo sguardo, ma ho capito solo dopo che fosse più grave di quanto immaginassi.

Quando ho detto che Elia mi ricordava tuo padre non l'ho fatto con cattiveria o pensando a tutti i suoi indubbi difetti, ma ai pregi che ho avuto modo di vedere quando lavoravo per lui e quando ancora mi considerava sua amica. Felix sa essere un uomo meraviglioso e, se scavi nei tuoi ricordi, potresti ritrovarlo in alcune delle mie parole: pieno di talento, innamorato di te e Alessandra, dal sorriso facile, ottimista, pronto a mettere da parte il mondo pur di aiutare coloro a cui vuole bene... Penso che il suo comportamento attuale, alla fine, sia dovuto al fatto di non essere stato in grado di vedere. Si vergogna di ciò che non ha fatto, e ha finito per bloccarsi.

Tu non devi fare come lui. Prima del mio commento infausto ti ho vista serena e anche Alessandra (per quanto possa dire il contrario) era contenta che stessi frequentando qualcuno: eri felice.

Non negarti un sentimento simile per paura.

Un abbraccio,

Clara

Apatia.

All'inizio c'era solo dolore e la voce di Michele a rassicurarla, a dirle di respirare piano e non pensare più a ciò che aveva fatto. A sussurrarle che andava bene così, che aveva preso la decisione giusta, anche se le faceva male – non bisognerebbe mai costringersi a stare con qualcuno con cui non si vuole, no? Poi la tristezza era svanita ed era subentrato un torpore costante, in cui Zaira sguazzava tenendo il naso sopra il pelo d'acqua per respirare appena. Dormiva, guardava film, leggeva qualche fumetto, andava in università, studiava, sorrideva a stento, sorprendendosi ogni giorno che il mondo continuasse a girare quando invece lei si sentiva così spenta, così vuota. Ma aveva fatto ciò che doveva, non poteva pensare altrimenti.

Michele e Ginevra provavano in ogni modo ad aiutarla, a farla sentire più lieve, e sua madre le aveva chiesto più di una volta se volesse tornare da Ambra, la sua psicologa, preoccupata da ciò che vedeva scorrerle sotto gli occhi, simile ai fantasmi di cinque anni fa a cui Zaira era tornata a fare la corte.

Tuttavia, non c'era più niente da fare, in fondo. Si sentiva trascinata indietro, divisa da pensieri contrastanti che le dicevano di aver compiuto la scelta giusta e altri che la compativano per una simile decisione e per la codardia da cui si era fatta trasportare. E in tutto ciò aveva ragione Clara, che nel sottointeso del messaggio mandatole per consolarla era riuscita a spiegarle quanto Zaira non avesse mai capito proprio niente: era lei simile al padre e ai suoi istinti peggiori.

A pensarla in un modo simile diventava tutto più sostenibile, anche se non osava più uscire sul balcone della camera per fumare. La stanza da letto, a furia dei pacchetti che consumava nel corso delle settimane, le dita incapaci di rollare il tabacco senza farlo cadere a terra, aveva assorbito l'odore stesso della nicotina.

E intanto tutti la guardavano come se fosse fragile, qualcosa da compatire e per cui provare pietà, i loro sguardi che li tradivano molto più delle parole di conforto pronunciate.

Ma sarebbe stata meglio, altrimenti cosa le restava?

"Sai, questo weekend penso di uscire con Davide."

Zaira alzò lo sguardo verso Ginevra, fermandosi a metà della rampa di scale. "Con... Davide?" chiese aggrottando le sopracciglia, certa di aver capito male.

L'amica annuì piano, allacciando le braccia dietro la schiena. "Dopo la sera in cui siamo usciti abbiamo ripreso a parlarci... circa. Non so se potremo mai ricostruire tutto, però vorremmo almeno provare a tenere unito qualche pezzo" disse, prima di tornare a scendere le scale. "E quando ha saputo di come stai... beh..."

Zaira scrollò le spalle, immaginando la reazione del ragazzo: un altro "Mi dispiace" spolverato con lo zucchero nel tentativo di rendere meno amara la verità che, alla fin fine, gliene importava poco di come stesse e di cosa le fosse accaduto. Era certa ormai tutti la trovassero noiosa, difficile da sopportare, e una simile teoria era sostenuta dagli sguardi stanchi che le lanciavano, quasi a volerle dire di reggere con più contegno una scelta presa da lei stessa.

"Puntava a una sbronza tra amici, ecco" concluse Ginevra con un sospiro. "A essere sincera gli ho detto che mi sembrava una pessima idea, però lui ci tiene tanto a vederti e dice che dovrebbe scusarsi per non so bene cosa, da cui l'idea di uscire. Tu vuoi uscire, vero?"

La ragazza alzò appena lo sguardo su di lei, fermandosi con la mano sulla maniglia antipanico del locale macchinette. Valutò giusto per una manciata di secondi i pro e i contro di una simile proposta, la mente flaccida che le suggeriva di scartarla a priori con una scusa.

"Se viene pure Michele" si decise a dire alla fine, sapendo che l'attrito tra lui e Davide avrebbe reso difficile il realizzarsi di una simile proposta.

Ignorò l'ulteriore sospiro stanco dell'amica e uscì in cortile, controllando invece il cellulare. Proprio Michele, infatti, le aveva detto la sera precedente di voler pranzare con lei e Ginevra, approfittando del bel tempo che era tornato a gravitare su Milano nelle prime due settimane di aprile, ma nessuna notifica indicava che fosse in arrivo. Alzò lo sguardo per vedere se fosse alle panchine e, all'improvviso, rimase congelata, il respiro bloccato in gola.

Avvertì dietro di lei Ginevra cadere in uno stato simile, mentre Elia, seduto sul tavolo dove avevano preso un caffè una vita fa, sollevava la testa.

"Non è possibile" pensò Zaira, osservando il ragazzo togliere le cuffiette e buttarle alla rinfusa nella tasca della giacca di jeans.

"Non è possibile" si disse ancora una volta, mentre i piedi si muovevano da soli verso di lui, coprendo in pochi passi lo spazio che li separava. Sentì Ginevra che, titubante, la seguiva, ma ci prestò poca attenzione.

"Non è possibile" mormorò infine, fermandosi a una distanza di sicurezza dall'altro, mentre l'amica andava invece a mettersi vicino al cancello, così da non intromettersi tra loro.

Zaira si morse il labbro inferiore, non sapendo cosa dire, ed Elia la osservò con aria stanca, delle occhiaie a segargli il viso e la mano sinistra fasciata. Non riuscì a sostenere lo sguardo che le rivolse, i sensi di colpa che le salirono su per lo stomaco mischiati a un'onda di nera tristezza.

"Cos'è successo alla mano?" gli chiese con un sussurro. Le parve una domanda molto sciocca, ma non sarebbe stata in grado di sopportare ancora a lungo il silenzio che le ronzava nelle orecchie.

"Stavo incidendo del legno per alcune stampe." Elia mostrò la fasciatura, girando la mano un paio di volte. "Pensavo ad altro e ho finito per incidere la mano. Ho guadagnato un paio di punti."

Zaira mormorò un "Oh", lanciandogli una rapida occhiata. Il cuore perse più di un battito nel notare che lui, invece, aveva riportato subito lo sguardo su di lei e non pareva intenzionato a lasciarla andare via.

"Continuò a pensarti" le disse infatti, e Zaira guardò Ginevra con aria di supplica, pregando che la venisse a salvare. L'altra, però, scosse appena la testa, mimandole con una mano che, invece, doveva parlare con lui.

"Stamattina mi sono detto di venire a cercarti" procedette intanto Elia, catturando di nuovo la sua attenzione. "Poi ho pensato fosse una pessima idea e allora mi sono fermato in cortile non sapendo cosa fare... e sei comparsa tu." Scivolò giù dal tavolo e colmò la distanza tra loro in un paio di falcate, per poi sollevarle il mento con due dita e costringerla a guardarlo. "Vorrei solo capire perché" concluse con un soffio. "Giuro ti lascerò in pace, se è ciò che vuoi, ma puoi spiegarmi cos'è successo? Per favore."

Zaira aprì bocca, le stesse parole dell'ultima volta ferme sulla punta della lingua – "Non hai fatto niente, sono solo io." –, ma prima di poter dire alcunché notò con la coda dell'occhio Ginevra correre verso qualcuno e provare a fermarlo con scarso successo.

Non fece in tempo a urlare "Michele, no!", che l'amico aveva già afferrato Elia e l'aveva trascinato via, fino a fargli sbattere la schiena sulle sbarre della cancellata. Lo vide sibilare qualcosa a cui l'altro, però, rispose con un sorriso sfrontato, mentre Ginevra aveva già portato il telefono all'orecchio, le labbra a parlare veloci con qualcuno accompagnate da un frenetico gesticolare delle mani.

Congelata, Zaira vide Michele minacciare Elia col pugno chiuso, ma l'altro gli rivolse solo un ulteriore sorriso, prima di sibilare qualcosa che rese la minaccia atto; il colpo lo prese sulla mascella a sinistra, portandolo a rinculare con tutto il corpo sulle sbarre.

Corse da entrambi, la botta di adrenalina che le risalì fino al cervello e la fece sentire lucida dopo due settimane di apatia. "Fermo, fermo!" esclamò, aggrappandosi al braccio con cui Michele teneva l'altro incollato alla cancellata. "Cosa cazzo stai facendo? Lascialo andare! Ci possono essere dei professori!"

Elia si portò la mano buona alla mascella, massaggiandosela. "Dovrebbe essere lei a decidere se parlarmi o no, non tu" disse a Michele con gli occhi socchiusi. "Cos'è? Hai un diritto di proprietà?"

"Zaira, levati" mormorò intanto l'amico, continuando a guardare l'altro ragazzo, la mano ancora stretta a pugno. "E tu sta' zitto."

"No che non mi levo" sibilò lei. Lo prese per le spalle, scuotendolo, ma Michele l'allontanò con un gesto molle, senza fare alcuna fatica davanti alla resistenza opposta.

"Certo che sei proprio un bodyguard del cazzo."

Michele gli tirò un nuovo pugno, questa volta nello stomaco.

"Fermati!" Zaira si infilò tra i due, costringendo così l'amico a lasciare libero Elia, che si accasciò dietro di lei tossendo. "Cosa cazzo ti è preso, eh?" chiese urlando con voce acuta, senza spostarsi di un millimetro. "Ma ti rendi conto di cosa hai fatto?"

Michele la fulminò con lo sguardo, la mascella contratta. "Fino a ieri non volevi neppure vederlo" rispose atono.

"E quindi?" Lanciò un'occhiata preoccupata a Elia, sempre piegato in due e dal respiro affannato, per poi tornare a fronteggiare l'altro. "Ma che cazzo hai in testa? Ma ti sembra normale?"

"Perché è proprio lui che è stato con te nelle ultime due settimane, ti ha consolato e tutto il resto, no? È lui che sa quali sono i tuoi momenti peggiori, vero?" replicò con voce roca Michele, avvicinandosi a lei. "Torni sempre da me, alla fine. Qualunque cosa accada."

Zaira deglutì, incapace di rispondere, mentre Michele le afferrava il braccio per allontanarla, con una delicatezza improvvisa rispetto alla brutalità mostrata pochi attimi prima. "Ora levati."

"No che non mi levo."

Zaira fece per frapporsi di nuovo tra i due, ma questa volta fu Elia a scostarla. Nonostante l'altro torreggiasse su di lui, il ragazzo lo guardò negli occhi, all'apparenza incurante dei pugni appena presi. "Cosa sta succedendo?" Spostò il suo sguardo accusatore su Zaira, ferma e col respiro incastrato in gola. "Mi hai mollato perché stai con lui?"

La ragazza sussurrò un "No", l'orlo del disastro che non era più tale, ma una caduta libera che spiralizzava verso uno schianto inevitabile.

Elia, però, la ignorò, il viso contratto in un'espressione arrabbiata. "Mi sono appena preso due pugni per te, mi sono distrutto la mano a causa tua, non dormo più perché continuo a pensare a te, e solo perché non hai avuto il coraggio di dirmi che stai con questo?" Si girò verso Michele, gli occhi ridotti a due fessure. "Mi fate schi..."

"Non hai capito proprio un cazzo" sibilò l'altro, impedendogli di parlare. "Proprio un cazzo."

"E allora parlate!" Elia si allontanò con uno scatto alzando le mani al cielo, e Zaira si sentì tremare fino in fondo all'anima, il contatto col suolo sempre più vicino. "Perché nessuno mi dice niente?"

La ragazza lanciò a Michele un'occhiata disperata, le ginocchia molli e la testa che le urlava di fermarlo, di tappargli la bocca e farlo stare zitto, ma l'altro scosse appena il capo, quasi a dirle che ormai non si poteva fare altro. Lo vide voltarsi verso Elia, le labbra strette in un sorriso gelido e carico di rimpianti, e poi, semplicemente, parlò.

"Perché non sei tu quello che l'ha afferrata prima che si buttasse giù da una finestra."

Zaira chiuse gli occhi. Le risentì tutte, le sensazioni a lungo trattenute; le avvertì salire fino al cervello, piegarle i muscoli, strozzarle il fiato nell'impatto che non aveva potuto evitare, e le venne da piangere. Perché non voleva apparire fragile, perché nessuno le credeva mai, perché non era di certo così che voleva che Elia lo venisse sapesse, perché forse non avrebbe voluto nemmeno mai dirglielo.

Udì un "Cosa?" strozzato e, a fatica, si costrinse ad aprire gli occhi e puntarli sul ragazzo, trovandosi avvolta da uno sguardo che mai avrebbe voluto vedere, pieno di una pietà e una compassione che le trafissero l'animo, portandola a tremare. Perché era quello l'effetto che aveva su tutti, incapaci di andare oltre l'idea di avere a che fare con qualcuno che non era stato in grado di stare in piedi da solo e forse non ne sarebbe mai stato capace; avevano paura, non volevano essere toccati da qualcosa di imperfetto e distruttivo, che avrebbe richiesto una fatica e una cura continue.

Perché chi sta male dovrebbe solo morire e lasciar respirare gli altri, come amava dire suo padre prima dell'incidente.

E si sentì vulnerabile, un pezzo di carne pronto a essere maciullato addirittura da un fiore, e iniziò a piangere, senza sapere come fermarsi con i singhiozzi che le risalivano nella gola e la invitavano a vomitare. Si mise a correre in automatico, lasciando tutti indietro – Michele che provò a fermarla con un grido, Elia ancora paralizzato, Ginevra con gli occhi pieni di lacrime come i suoi e Davide, a cui diede una spallata proprio mentre attraversava il cancello. Corse fino a rimanere senza fiato, attraversando la strada senza badare alle automobili e scansando a fatica pedoni fermi sul suo cammino, fino a quando raggiunse la fermata della circolare destra, in cui si infilò a fatica, pressandosi tra i corpi accaldati degli altri passeggeri. Un uomo le cedette un posto a sedere, su cui lei si rannicchiò a piangere, ignorando le occhiate preoccupate rivoltale e il cellulare che, imperterrito, le squillava in tasca.

Voleva solo sparire.

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