J A U N E

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Quando mio padre mi chiese perché ero così gasata per il torneo di pugilato di quella domenica, io non lo degnai neanche di una risposta, sapendo che lui avrebbe sfruttato ogni mia spiegazione come scusa per far partire le sue solite cantilene: Smettila con questa perdita di tempo, trovati un lavoro vero e ovviamente, la mia preferita, non diventerai mai campionessa di un bel niente.

Io avevo sempre preso i suoi malauguri per quello che erano, malauguri, così semplicemente non lo ascoltai e basta. Ma quando tornai nella mia stanza per allenarmi, mi lasciai intrappolare da una sensazione strana: sapevo che dovevo allenarmi, ero convinta che volevo allenarmi, ma... non riuscivo a muovere un muscolo. Non perché stessi male o fossi stanca, era come la testa si fosse rifiutata di funzionare.

Rimasi davanti a quel maledetto sacco e quei fottuti pesi per due ore filate, senza riuscire a fare un bel niente. Mi venne quasi da urlare! Il torneo era in quattro giorni ed ero ancora impreparata, non mi potevo permettere di buttare tutto all'aria perché non me la sentivo di lavorare!

Provai così a forzarmi. Se non mi fossi data una mossa io, qualcos'altro mi avrebbe costretta... E in quel momento ebbi un'idea. Una pessima idea, certo, ma al momento mi sembrava quasi decente.

Decisi, nella mia esaltata e sconfinata saggezza, di fare quattro passi per schiarirmi le idee, anche se sapevo già dove sarei andata.


Nel giro di una ventina di minuti, ero già al negozio di articoli sportivi vicino casa mia, in procinto di comprare un mucchio di barrette ai cereali e bibite energetiche. Così, per fare contento il mio stomaco per qualche ora.

Quel negozio è ancora oggi il mio posto preferito in tutta la città, il che mi sembra un botto ridicolo considerando che di per sé è davvero brutto: ha quegli scaffali neri altissimi, con le pareti bianchissime che dovrebbero imitare quelli che ci sono in un Decathlon. Peccato che quel negozietto di periferia è troppo piccolo e troppo malandato per sembrare un Decathlon vero.

Andai dritta allo scaffale dove tenevano tutti gli snack, presi una dozzina di lattine di Burn e barrette ai cereali. Tornai alla cassa, tutto liscio come l'olio, almeno fin quando una COSA vestita di giallo mi tagliò la strada e arrivò alla cassa proprio quando stavo per pagare. Ebbe persino la sbruffonaggine di guardarmi in faccia e farmi "scusi, vado di fretta!" con quel tono da bambino vittoriano.

Mi limitai a buttare fuori una specie di ringhio sottovoce, giusto per fargli capire di stare alla larga da me. Mi rifiutai persino di dargli una seconda occhiata per capire che aspetto avesse, lì sul momento non me ne fregava NIENTE.

Alla fine arrivai alla cassa lo stesso e pagai tutto quello che dovevo pagare, ma comunque, quello scricciolo di mezzo metro più basso di me stava per farmi andare in bestia! Non riuscii a capire perché mi avesse disturbata in quel modo, ma mi ripetei che non mi interessava e che non dovevo farmi domande.

Mi ritirai sul retro del negozio, dove c'era una scaletta vuota che utilizzavo come panchina per le mie pause. Mangiai una barretta ai cereali, poi un'altra e così via. Avevano tutte lo stesso sapore di caramello e uvetta scaduta, ma in confronto alla pasta in bianco che mangiavo a casa dei miei, quello era un dessert da ristorante a quattro stelle.

Mentre mangiavo, l'unico passatempo che avevo era guardare la poca gente che andava e tornava dalla stradella lì di fronte, che per gli standard di quel paesello era il massimo dell'intrattenimento possibile.

Passai un cinque-sei minuti in questo modo, fino a quando non vidi arrivare, dall'altro lato della strada, lo stesso scricciolo che mi aveva tagliato la fila alla cassa! Sì, mi aveva visto ritirarmi sul retro e si era messo a cercarmi di proposito! Non capii per niente cosa volesse dimostrare. 

Andai in confusione ancora di più quando mi raggiunse sulle scale di proposito.

Immediatamente notò un paio di lattine vuote e stritolate, ammucchiate alla mia sinistra. "Non dovresti bere tutta quella roba."

"Fatti gli affari tuoi." Lo so, a quel tempo ero molto socievole e diplomatica.

"Che c'è? Volevo soltanto aiutare!" mi rimproverò, ma senza un tono crudele. Forse voleva davvero aiutare.

Proprio allora, fece qualcosa che mi lasciò totalmente sbalordita: si sedette accanto a me. E mi accorsi che avrei dovuto guardarlo molto prima.

I suoi occhi erano grandi e neri, la sua pelle morbida e pulita come madreperla. Aveva dei capelli ondulati che scendevano fino al collo, sembravano fatti d'oro. Persino i suoi vestiti parevano leggeri come l'aria e splendenti come un tramonto tra gli alberi. 

Scossi la testa nel tentativo di non farmi idee strane, e l'idea funzionò bene. Per un attimo.

Mi mise una mano sulla spalla. La sua camicetta color limone la copriva fino alle punte delle dita. "Secondo me hai bisogno d'aiuto."

Avrei voluto urlare un vaffanculo decisamente poco diplomatico, ma per qualche motivo, non riuscivo a reagire. Così rimasi imbambolata a guardare.

Doveva aver capito come mi sentivo, perché si avvicinò a me di un passettino, ritirando la mano dalla mia spalla per lasciarmi spazio. 

"Sono stato troppo scortese?"

"No no, non ci fare caso" sbuffai io, mentre mi accorgevo che si era presentato come un lui.

Mi scappò la domanda più ovvia del mondo: "Aspe' quindi tu sei un maschio???"

Gli rizzarono i capelli, manco gli avessero sparato nelle ginocchia. "No!"

"Quindi... sei una ragazza?"

Alzò gli occhi al cielo, come a pregare qualunque Dio volesse ascoltarlo di fulminarmi in quel preciso istante. "Assolutamente no. Mai sentito parlare di genderfluid?

E qui commisi un grave errore: lasciai che la mia ignoranza parlasse al posto mio. "Che c'è, tua mamma ti ha rubato il ciuccio quand'eri piccola?"

Lo scricciolo fece un saltello via da me. Sì, ammetto che me l'ero meritato. "Lei ha fatto MOLTO peggio. Fidati."

Mi morsi le labbra. Nella mia testa ero convinta di avere ragione, ma dal modo in cui si era chiuso su sé stesso dopo avergli risposto in quel modo, capii che avevo sbagliato qualcosa.

Tesi una mano verso di lui, muovendo le dita per farli segno di stringerla. "Va bene, scusa se ti ho insultata. No, aspe-"

Ricambiò la mia stretta. "Jaune. Puoi chiamarmi Jaune. Il maschile va bene... l'italiano non ce l'ha il neutrale."

"Piacere... Camilla."

Mi fermai lì. Ero semplicemente troppo piena di domande, da dove potevo cominciare? Chiedergli cos'aveva in mezzo alle gambe? Farmi raccontare la storia della sua vita? Dire "grazie di tutto e a mai più rivederci"? Qualunque cosa avrei fatto, avevo paura che Jaune mi avrebbe seguito fino a casa per pugnalarmi nel sonno.

Ci pensò lui a mandare avanti la conversazione: "Allora? Che ti è preso? Pare che hai visto un fantasma..."

"Dimmi che vuoi e basta!" sbottai io, in un tono involontariamente troppo forte.

Jaune mollò la mia presa di getto. Voleva apparire completamente indisturbato e zen, ma vidi che la sua gamba destra stava tremando leggermente. "Te l'ho già detto, volevo solo aiutarti. Perché, sicuramente, devi essere una persona che ha molto bisogno d'aiuto."

Bel caratterino, questo Jaune! All'inizio non capii perché si era convinto che qualcosa non andava, ma poi mi guardai attorno: avevo involontariamente creato una collinetta di bustine e strappi di plastica, con le due lattine vuote a fare da grattacieli distrutti in uno scenario da post-apocalisse.

Sputai il rospo: "Ok, FORSE ho un problema di fame nervosa. No, non sono in quel periodo del mese e no, non sto male per colpa di un qualche tipo che mi ha mollata."

Jaune inclinò la testa di lato. Voleva ascoltarmi, scoprirmi davvero. "E allora, perché stai così male?"

"Non sono affari tuoi, non è neanche così interessante..."

"Invece sì! Avanti, dimmi tutto!"

Era ovvio che lui non ne voleva sentire di gettare la spugna. 

Mi decisi finalmente a sputare il rospo: "Dovrei allenarmi per un torneo di pugilato che ci sarà questa domenica, ma... non riesco a mettermi in moto! È da mesi che mi alleno giorno e notte, proprio adesso dovevo bloccarmi..."

"Ah, adesso vedo qual è il problema" mi rispose lui, "io stesso faccio HEMA da un paio d'anni, quindi ti capisco."

Sul momento, mi venne da prenderlo in giro per la sua sfacciataggine. "Un paio d'anni? Io tiro pugni da quand'ero ragazzina!"

"Ciò non toglie che sei bloccata" mi freddò.

Neanche il tempo di rispondere, che Jaune mi fece un'altra domanda: "Posso chiederti cosa ti ha spinto a diventar pugile?"

La domanda sembrò facile, persino banale, ma ci misi un po' a rispondere. 

Provai a farla franca con la risposta più cliché di tutte: "Lo faccio da quasi tutta la vita ed è l'unica cosa in cui sono brava, quindi perché smettere?"

"Basta così?" chiese Jaune. Voleva davvero sapere la verità.

Infatti, sapevo che già che il vero perché della mia passione era molto, molto più complicato. Io stessa avevo aspettato per tutta la mia vita di poterlo finalmente descrivere: "Che posso dire? Il ring è la mia vera casa. È quello che sono. Ogni volta che sono là sopra, mi parte un fuoco dentro e non riesco più a fermarmi."

Quell'ultima parola, fuoco, doveva aver attirato la sua attenzione ancor più di prima. Avvicinò il muso di nuovo a me e spalancò gli occhi, come per scrutarmi meglio. "Hai detto... fuoco? Sul serio? Sapresti descriverlo? Potresti provocarlo di proposito? D'accordo, iniziamo un passo alla volta. Quando è stata la prima volta che hai avvertito questa sensazione?"

La prima volta? Doveva essere stato molti anni fa. Dovetti tornare indietro ai tempi della scuola per rivedere quello spezzone della mia vita. "Quinto liceo, i miei genitori si erano appena lasciati e a scuola facevo schifo. C'erano pure in giro 'sti buoni a nulla che importunavano me e le mie amiche. Forse è lì che mi è partita la voglia di lottare."

Mi accorsi solo allora del modo in cui mi guardava Jaune. Le sue pupille nere erano fisse su di me, non osava neanche battere le palpebre. Appena lo vidi per la prima volta, quello sguardo mi fece gelare il sangue. 

Si risvegliò dal suo stesso incantesimo. "Meraviglioso. Avere delle persone care da proteggere deve averti motivato molto."

"Infatti" ammisi io, immaginando di star facendo un'intervista dopo un match. "Per me, ogni gara è più di una semplice competizione. Devo essere forte, per me stessa, per le mie amiche. Per dimostrare che sono più di una lesbica di merda, come mi chiamavano quei cretini."

"Oh" fece Jaune, chiaramente sorpreso dalla mia storia. 

Si voltò dall'altra parte e iniziò a mormorare qualcosa che non riuscii a sentire. Non ho scoperto  mai cosa stesse dicendo sottovoce, ma in quel momento sperai solo che non mi stesse lanciando una maledizione come vendetta per averlo offeso poco prima.

A un certo punto smise di borbottare e mi chiese, come se fosse la cosa più normale del mondo: "A proposito, sei davvero lesbica?"

Aspettai un attimo, poi conclusi: "Forse. Sono una donna muscolosa e non mi piacciono gli uomini, quindi... potrebbe essere, sì."

Jaune rise sotto i baffi che non aveva. "Tipico."

Mi venne subito da chiedermi cosa voleva dire con quel "tipico", ma non mi lasciò il tempo di chiederglielo. Si alzò dal gradino di cemento e si pulì quei pantaloni a zampa di elefante, per poi rivolgersi di nuovo a me. "Stai meglio ora? Dovrei tornare a casa, si è fatto tardi."

Mi salutò con la mano e iniziò ad andarsene. I suoi passi erano leggeri, delicati, quasi da ballerina.

Il pensiero di vederlo scomparire mi lasciò con un inspiegabile senso di dispiacere. Jaune stava per andarsene, forse per oggi, forse per sempre, e io non sapevo come prenderla. In realtà, fu proprio allora che mi accorsi che parlare con lui mi era piaciuto.

Provai a chiamarlo, ma quella familiare sensazione mi tappò la bocca. Volevo continuare a parlargli, anche solo provare a salutarlo, ma ancora una volta il mio cervello si rifiutava di obbedire. Allo stesso tempo, il fuoco iniziò a farsi sentire, bruciandomi le interiora. Non ne potevo più di rimanere bloccata.

Senza neanche volerlo, tirai un calcio contro i gradini, poi un altro e un altro ancora, a una forza totalmente fuori misura.

Crack-krak-crack! Non seppi mai se quel rumore proveniva dai gradini o da me stessa.

Continuai anche se avevo il piede indolenzito. Krack! Kraak! Crack!

Il fuoco mi entrò negli occhi e nelle orecchie, rendendomi cieca e sorda. Eppure continuai a sfogarmi su quel gradino.

Cemento e piastrelle stavano diventando cenere sotto ai miei piedi.

Dopo un calcio particolarmente violento, riaprii gli occhi. Dall'altra parte della strada c'era Jaune, che era rimasto lì piantato a osservare quel mio scatto d'ira. Come avrei dovuto spiegare cosa stava succedendo? Potevo davvero correre quel rischio?

Improvvisai una distrazione, qualunque cosa pur di fargli dimenticare quello che aveva appena visto. "JAUNE! Aspetta!"

Scesi la scaletta quasi a gattoni, col cuore che ancora gridava e la testa piena zeppa di dubbi. Tra ogni cosa, speravo che la mia reazione non l'avesse spaventato.

"Jaune! ascolta!" urlai, cercando di raggiungerlo dall'altra parte della strada.

Mi accorsi solo allora che mi era venuto incontro. La sua fronte era imperlata di sudore.

Raddrizzai la schiena, provando a fermare tutti quegli impulsi contrastanti. Dovevo concentrarmi su qualcosa da dire.

"Quindi, scusa, posso accompagnarti a casa?"

Non la mia proposta migliore, ma fu il meglio che avevo a disposizione in quel momento.

Su due piedi, Jaune rimase a bocca aperta. "Ti sarebbe bastato... chiedermi prima."

"Sì lo so, ma... fame nervosa."


Arrivammo al suo appartamento verso le sei di sera. Per tutto il tragitto Jaune era rimasto in silenzio, avvicinandosi occasionalmente per guardarmi negli occhi, sussurrare qualcosa come prima e riprendere a camminare come se nulla fosse.

Aprì il portone, ma non lo attraversò subito. "Prima che ci salutiamo... C'è qualcosa che vuoi chiedermi?"

In effetti, c'era qualcosa che volevo sapere: "Me lo spieghi perché sei venuto a cercarmi dietro il negozio?"

Jaune si piegò verso di me. "Vuoi la risposta vera o la risposta buffa?"

"Quella vera, grazie."

"Peccato, ti darò tutte e due." Mi stava prendendo in giro, ovviamente.

"Ti ho seguita perché... pensavo che tu fossi molto carina e volevo uscire con te. Almeno, all'inizio."

Ebbi un brivido che mi sembrò sia delusione che sollievo. "E la spiegazione vera?"

Ridacchiò tra sé e sé: "C'è una possibilità che questo Fuoco di cui hai parlato sia in realtà un demone nato dalla tua stessa ira, capace di prendere il controllo del tuo corpo e spargere distruzione su scala colossale! Io e un gruppo di miei associati abbiamo il compito di fermarlo prima che sia troppo tardi, ma... che ne so, forse sono solo un pazzo."

Mi fece l'occhiolino. Ovviamente, sapeva che non lo stavo prendendo sul serio.

Non sono mai stata molto intelligente, ma anche a quel tempo compresi che Jaune stesse provando a dirmi qualcosa.

Attraversò l'uscio e mi diede un'ultima occhiata. "Sta a te decidere quale ragione è quella vera. Buonanotte."

Il portone si chiuse con un gran frastuono, lasciandomi sola con me stessa... e i miei pensieri.

Era riuscito, a modo suo, a risvegliare quel fuoco dentro di me. Forse anche lui conosceva la stessa sensazione.

Tornai a casa carica di energia e nuove idee. Non mi importava più di vincere, arrivare al primo posto, dimostrare qualcosa a mio padre, o a quei perdenti, o a Jaune.

Volevo solo tenere il Fuoco in vita.

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