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Berlino – Quartiere Schöneberg – Welserstraße

Quindici anni prima

Non era possibile, quello era solo un incubo e lui si sarebbe svegliato da un momento all'altro. Magari sudato e con il cuore a mille per l'ansia e la paura, che sarebbero sparite appena il suo Andrea lo avrebbe abbracciato.

Filippo percepì le gambe cedere e crollò a sedere su una panchina. Era una di quelle rosse, ridipinte da non molto e posizionate sul marciapiede alla fine della strada senza uscita dove aveva aperto, qualche anno prima, il suo ristorante.

Come ha potuto farmi una cosa del genere?

Una coppia di ragazzi che si tenevano per mano passò davanti a lui. Ridevano e scherzavano tra loro, senza la paura che qualcuno potesse guardarli con disgusto, o magari aggredirli.

Era per quel motivo che Filippo aveva deciso di aprire il suo locale proprio in quel quartiere, uno di quelli più frequentati dalla comunità LGBT. Le bandiere arcobaleno erano ormai ovunque, e non lontano c'era uno dei locali più conosciuti e storici della città.

In realtà, tutta la zona intorno a Nollendorfplatz era diventata la mèta preferita, oltre che residenza, della maggioranza di persone queer di Berlino. Una mecca gay che esisteva sin dagli anni Venti, dove uomini o donne si incontravano nei bar. All'epoca anche Marlene Dietrich era stata assidua frequentatrice di quei locali.

Nessun posto avrebbe potuto essere migliore per aprire un ristorante italiano gestito da un giovane chef gay dichiarato come lui, e la posizione strategica – durante la settimana del Pride transitavano in quella zona anche più di duecentomila persone – era stata una scelta oculata.

Come ho fatto a essere così ingenuo e a mandare tutto a puttane?

Filippo si strinse la giacca attorno al torace, alzò il colletto e sperò di sparire nell'inutile completo elegante che aveva indossato quel giorno.

Con una mano spostò dalla fronte un ciuffo dei capelli biondi – Andrea diceva che avevano il colore dell'oro puro – si accartocciò su se stesso, per una forte fitta alla bocca dello stomaco, e cercò di controllare la nausea che rischiava di fargli vomitare l'anima da un momento all'altro.

Non ricordava d'essersi sentito così male da quando era un bambino, un ragazzino nascosto in un angolo e terrorizzato mentre assisteva impotente alla violenta aggressione di due sconosciuti. Erano entrati in casa per cercare il padre, e non trovandolo avevano deciso di rivalersi sulla madre. Due "esattori", delinquenti mandati a recuperare il debito di quel maledetto scommettitore di suo padre: il "signor" Herbert Hoffmann, che aveva perso al gioco ogni suo risparmio e ingenti somme prestate da usurai. L'avevano quasi uccisa davanti ai suoi occhi, mentre lui piangeva, tremava, urlava di lasciarla stare senza poter fare altro se non farsela sotto e attendere che se ne andassero.

Era da tanto che non ripensava a quei giorni né al successivo periodo che aveva vissuto, sballottato da una casa famiglia all'altra. La mamma non era morta, ma da quel momento non era stata in grado di badare a lui, a stento riusciva a muoversi dopo tutte le botte che aveva ricevuto, trasformata più che altro in un vegetale. Il padre, invece, era finito a far compagnia ai pesci nel fiume Sprea, dove un'auto di pattuglia della Direzione federale di polizia di Berlino l'aveva trovato a macerare, non molto dopo l'aggressione dei due strozzini.

Ci erano voluti anni di sacrifici – lavoretti di ogni tipo iniziati già da adolescente nelle bettole della periferia, per racimolare qualche soldo e permettersi di frequentare dei corsi di cucina – una piccola casetta ereditata da uno zio e poi venduta, per arrivare a ventisette anni e non essere più un fallito.

Filippo si stava ormai costruendo una reputazione nell'ambiente in qualità di chef che sapeva unire tradizione italiana a quella tedesca, e il suo ristorante avrebbe un giorno potuto anche ambire a qualche stella Michelin.

Per quel motivo aveva deciso di osare. Aveva ottenuto un prestito importante dalla sua banca, aveva assunto personale, ampliato il locale e, per racimolare più soldi possibile, si era fidato della persona sbagliata.

Un amico, o almeno era quello che Filippo aveva sempre creduto che fosse. Conosceva Einrich da quando erano ragazzini, cresciuti insieme nell'ultima famiglia affidataria fino al compimento dei diciotto anni. Avevano preso strade diverse, ma lui l'aveva sempre considerato come un fratello.

«È un investimento sicuro, tranquillo. In poco tempo avrai raddoppiato la cifra.»

Filippo ricordava bene le sue parole, e aveva firmato senza nemmeno leggere le mille clausole e avvertenze di un contratto lungo decine di pagine.

«Mi spiace, signor Hoffmann. Erano titoli ad alto rischio di uno Stato ora fallito. Ha perso tutto.»

Filippo percepì lo stomaco contrarsi, nel rammentare ciò che gli avevano detto in banca, e trattenne a stento un conato, piegato in due sulla panchina senza avere il coraggio di alzarsi e tornare al ristorante.

Il suo conto corrente era ai minimi termini, come gli aveva riferito il funzionario. Il suo "amico" si era dato alla macchia, dopo aver guadagnato sulla sua pelle e su quella di chissà quanti altri ingenui investitori come lui. Non c'era modo di denunciarlo per truffa, considerato che aveva firmato un contratto senza leggerlo. I prestiti bancari gli avrebbero prosciugato quel poco di soldi che aveva, e non avrebbe avuto denaro nemmeno per pagare gli stipendi del mese successivo.

Sono finito. Niente più ristorante, tornerò a essere un fallito e perderò anche Andrea.

Filippo si alzò dalla panchina su gambe traballanti. Lungo la strada poteva vedere l'insegna del suo locale illuminata. Quasi sicuramente il suo bellissimo fidanzato stava organizzando la sala per il turno del pranzo.

L'aveva conosciuto due anni prima, un ragazzo di poco più giovane che lo aveva conquistato con un gran cuore e il sorriso sincero. Se ne era innamorato in meno di un mese, ed erano una bella coppia affiatata: Andrea con il corpo massiccio, i capelli scuri e occhi nocciola e lui, invece, biondo, con gli occhi azzurri ereditati dalla madre e un fisico snello e tonico da ballerino.

Filippo provò a fare qualche passo in direzione del ristorante, ma il pensiero di entrare e dover raccontare cosa gli avevano detto in banca lo immobilizzò. Tutte quelle brave persone che si erano fidate di lui, che lavoravano anche più del dovuto senza mai lamentarsi, e di lì a non molto avrebbero scoperto che non era in grado di pagare i loro stipendi e nemmeno di garantirgli ancora un lavoro.

Deve esserci un'altra soluzione!

Filippo aveva pregato il funzionario di mettere una buona parola per ottenere un nuovo prestito. In fondo, il suo locale andava bene e avrebbe potuto restituire le rate senza problemi. Preghiere inutili, che lo avevano solo fatto sembrare ancora più patetico e stupido di quanto lui stesso non si fosse sentito in quel momento.

L'insegna di una birreria all'angolo attirò la sua attenzione. Era una di quelle nuove dove si poteva trovare ogni tipo di alcol e non solo birra. Decise di prendersi un attimo, rilassarsi magari con un bicchierino. Forse dopo avrebbe trovato il coraggio per affrontare Andrea e tutto il suo staff.

Quando entrò, i pochi tavolini erano già occupati e al bancone erano rimasti un paio di sgabelli liberi. Si appollaiò con grazia su uno isolato in un angolo e ordinò del gin. In genere non beveva superalcolici a stomaco vuoto e meno che mai a quell'ora del giorno, al massimo se ne concedeva uno o due a una festa o a cena fuori con Andrea. Tuttavia, in quel momento aveva bisogno di svuotare la mente dai miliardi di pensieri e timori, al punto che gli sembrava quasi di non riuscire a respirare.

Filippo buttò giù il bicchiere tutto d'un fiato, tossendo per il bruciore improvviso che il liquido provocò prima alla gola e poi allo stomaco.

«Ehi, amico. Tutto bene?» Il giovane barista lo guardò dall'altra parte del bancone.

«Sì, grazie.» Filippo si asciugò la bocca con il dorso di una mano. Anche le labbra gli bruciavano, ma il corpo fu attraversato da un piacevole calore e abbassò le spalle come se avesse sostenuto fino a quel momento un peso insopportabile. «In realtà, no. Sto uno schifo.»

«L'avevo immaginato. So chi sei, ma è la prima volta che entri qui dentro,» replicò il ragazzo con un sorriso. «Brutta giornata?»

«La peggiore di sempre.» Filippo si fece riempire un altro bicchiere e lo vuotò in pochi attimi, godendo di quel bruciore, un malessere passeggero che ben presto iniziò ad annebbiargli la mente. Alzò gli occhi e fissò il barista. «Lavori qui o è tuo?»

«Tutta roba mia e farina del mio sacco. Lo gestisco con la mia ragazza.»

Filippo si guardò attorno. Il locale era stato ristrutturato da non molto ed era alla moda e accogliente. «Un bell'investimento deve essere stato.»

«Come il tuo ristorante. Ci sono solo passato davanti, ma immagino ti sia costato anche più di questo, con la nuova sala che avete allestito.»

«Già.» Filippo si nascose il viso tra le mani, prima di alzare di nuovo lo sguardo sul ragazzo. Magari se riusciva a dirlo a lui, sarebbe stato in grado di farlo anche con Andrea. «Peccato che in meno di un mese la banca si prenderà tutto.»

«Oh, cazzo,» replicò il barista. «Ora capisco. Tieni, questo lo offro io,» disse, riempiendogli di nuovo il bicchiere.

Filippo non ci pensò due volte e lasciò che il liquido scorresse nella sua gola come lava infuocata. La testa iniziava a girargli, lo stomaco non aveva smesso di bruciare, ma il panico e l'ansia erano stati relegati in un angolo nascosto della mente.

«Senti, amico,» continuò il ragazzo. «Il tuo è un bel posto, sarebbe un peccato vederlo chiudere. Sicuro di non aver modo di salvarlo?»

«La banca non mi fa più prestiti e ho perso quasi tutti i miei risparmi,» confessò Filippo, tra le mani il bicchiere vuoto che si ostinava a fissare come se potesse dargli la soluzione a quel gran casino in cui si era ficcato.

«Io conosco qualcuno che potrebbe aiutarti.»

A quelle parole, Filippo alzò lo sguardo appannato sul giovane. «Che vuoi dire?»

«Come credi che l'abbia messo su questo posto? Non avevo mica garanzie da dare a una banca.»

Filippo sbatté le palpebre nel tentativo di comprendere cosa l'altro gli stesse dicendo. Per quanto al quarto bicchiere la sua lucidità cominciasse a vacillare, non gli ci volle molto per capire. Scosse la testa, che gli provocò un giramento improvviso. «Niente delinquenti, no.»

«Ehi, per chi mi hai preso? Non parlo di tipi strani, eh.» Il ragazzo abbassò la voce e gli si avvicinò. «Prestano denaro, ma è brava gente. Mi hanno chiesto gli interessi di una banca e sono due mesi che pago la mia rata senza problemi.»

Filippo si passò le mani sul viso e poi tra i capelli. Il pensiero che potesse esserci un modo per risolvere quella situazione di merda senza dover coinvolgere Andrea – senza dovergli dire nulla in modo da mandare avanti la sua vita come se niente fosse accaduto – gli permise di tornare a respirare. Era come se avesse trattenuto il fiato da quando, ore prima, era stato informato della sua situazione economica.

«Puoi mettermi in contatto?»

«Certo, amico.» Il barista si allontanò, prese una penna e un pezzo di carta e tornò da lui. «Questo è il numero di telefono di uno di loro. Digli pure che ti ho mandato io: Hans.»

Filippo prese il foglietto e annuì. «Grazie.» Tirò fuori il portafogli per pagare, ma fu bloccato dall'altro.

«Offro io, oggi.»

«Ancora grazie, mi stai salvando.»

Filippo scese dallo sgabello, si bloccò un istante per far fermare la testa che girava come una trottola, lisciò la giacca e uscì dal locale.

Speriamo di ottenere qualcosa. Non posso perdere tutto, non posso.

Cinque mesi. Erano bastati solo cinque mesi per ritrovarsi peggio di prima.

Filippo incassò l'ennesimo pugno nello stomaco, che lo fece accartocciare su se stesso e scivolare contro il muro lurido della cantina dove l'avevano trascinato.

Idiota, idiota che sono!

Come aveva potuto credere che rivolgersi a un usuraio sarebbe stata la giusta soluzione?

Certo, i primi due mesi erano stati perfetti. Il prestito che gli avevano fatto gli aveva permesso di pagare gli stipendi e le rate della banca, e con il ricavato del ristorante aveva coperto ogni altra spesa.

Poi era arrivata la sorpresa, quella che avrebbe dovuto aspettarsi. Tutto a un tratto, dopo appena due mesi, gli interessi erano quadruplicati e poi ancora di più fino a che non aveva avuto modo di ripagare le cifre esorbitanti che pretendevano.

«Alzati, femminuccia!»

Uno dei due energumeni venuti a "ricordargli" i suoi debiti lo sollevò come un fuscello. Era dimagrito parecchio per lo stress e l'ansia, per non parlare del fatto che ormai mangiava poco e beveva sempre di più.

«Vi prego, basta. Se volete farmi fuori, fatelo pure,» mormorò Filippo con voce roca. Solo respirare gli faceva male, dovevano avergli incrinato qualche costola a furia di botte.

«Non te la cavi così facilmente,» sbottò l'altro aguzzino con una risata. «Tu ci servi vivo, per pagarci quello che devi. Ammaccato, ma vivo.»

Un altro pugno lo colpì, e Filippo non ebbe nemmeno la forza di urlare. Gli avrebbero spappolato lo stomaco se avessero continuato a quel modo, e lui non avrebbe potuto impedirlo. «Non ho soldi, ammazzatemi pure.»

«Allora sei sordo?» Il picchiatore lo bloccò contro il muro stringendogli la gola con la mano sinistra. «Non ti ammazziamo, ma il tuo bel ragazzo potrebbe anche fare una brutta fine.»

Filippo sgranò gli occhi e afferrò con le mani quella dell'uomo. «Lui non c'entra nulla!»

«Vero, ma sai com'è. Gli incidenti accadono,» replicò l'altro con una scrollata di spalle. «Hai mai visto in che modo viene ridotto un corpo quando un camion ci passa sopra con le ruote? Non riusciresti nemmeno a riconoscerlo.»

Il cuore di Filippo prese a battere veloce come un treno in corsa. No, il suo Andrea no. Non dovevano toccarlo, non doveva pagare per le sue colpe.

«Datemi solo qualche altro giorno. Una settimana al massimo. Troverò in qualche modo i soldi, ma vi prego lasciatelo stare.»

«Sette giorni, non uno di più. E non fare il furbo, niente polizia. Lo verremmo a sapere in un attimo e il tuo amichetto lo vedrai solo all'obitorio. Ci siamo intesi?» L'energumeno lo lasciò andare e si pulì la mano sui jeans, come se fosse sporca solo per averlo toccato.

«Sette giorni... ho capito,» bisbigliò Filippo con un filo di voce, scivolando sul pavimento senza forze.

«Buttalo fuori. Non voglio froci qui dentro più del necessario,» ordinò quello che doveva essere il capo tra i due.

Filippo non si ribellò quando gli misero un cappuccio in testa, lo stesso con il quale lo avevano trascinato fino a quella cantina che avrebbe potuto essere in un qualsiasi punto della Germania, per quello che ne sapeva lui. Fu gettato in quello che immaginò essere il bagagliaio di una macchina, legato come un salame, e solo per miracolo non vomitò quel poco che aveva nello stomaco.

Non seppe quanto tempo impiegarono per tornare nel vicolo dove l'avevano prelevato. Filippo, slegato e lasciato incappucciato contro un muro, ebbe il coraggio di togliersi quel dannato pezzo di stoffa puzzolente dalla testa solo quando fu sicuro di essere rimasto solo.

Gli faceva male tutto, anche se avevano evitato di colpirlo in faccia, o in altre parti del corpo dove i segni dei colpi ricevuti potessero essere notati facilmente. Traballando, riuscì a camminare fino alla strada principale e cercò di non dare nell'occhio mentre raggiungeva il suo ristorante.

Come faccio? Come posso pagare quella cifra enorme? Sono tre volte tutti i soldi che ho sul conto al momento!

La campanella sulla porta del locale annunciò il suo ingresso. Non era ancora ora di cena, ma Andrea aveva già iniziato ad apparecchiare e dalla cucina provenivano profumi che in quel momento gli provocarono ancora più nausea.

Uno dei tavoli di servizio era stato preparato. Un'abitudine presa ormai da qualche tempo, da quando i nuovi assistenti – futuri chef, forse – sperimentavano piatti o si cimentavano con quelli abituali del ristorante. In quei casi, lui si accomodava come fosse stato un cliente qualsiasi e li assaggiava per dare un giudizio, senza neanche sapere chi, tra i giovani che lo aiutavano, l'avesse preparato.

«Ciao, tesoro. Dove sei stato?» Andrea apparve dalla cucina, con indosso già la sua divisa di caposala. A venticinque anni iniziava a non avere più i tratti fanciulleschi di quando l'aveva conosciuto, e si stava trasformando in un uomo sempre più bello.

L'esatto opposto del rottame che sto diventando io.

«A parlare con i fornitori.» Filippo si accomodò al suo posto con circospezione. Non voleva farlo preoccupare, anche se temeva d'aver bisogno di andare in ospedale. Magari aveva emorragie interne e sarebbe morto di lì a poco. Forse non sarebbe nemmeno stata una brutta cosa. Nessuno avrebbe più potuto minacciare il suo fidanzato se lui non era più in vita, no?

«Deve essere stato un incontro impegnativo,» disse Andrea. «Sembri più stanco del solito, e anche troppo pallido.»

«Sono a digiuno, poi mi riprendo,» ribatté Filippo senza riuscire a guardarlo negli occhi. Negli ultimi mesi gli aveva raccontato così tante menzogne da non essere nemmeno in grado di sorridergli, ormai.

«Uno dei ragazzi ha preparato un piatto che, secondo me, farà furore. Ora te lo porto, così recuperi forze.»

Andrea sparì in cucina e Filippo lo seguì con lo sguardo. Il solo pensiero di mangiare qualcosa gli faceva aumentare la nausea. Si prese la testa tra le mani nel tentativo di rianimarsi e di cercare una qualsiasi soluzione che potesse tirarlo fuori da quell'ennesimo guaio in cui si era cacciato.

Idiota, idiota che non sono altro. Meriterei io di finire sotto un camion!

Sul tavolo era già pronta una bottiglia di vino, e le mani si mossero prima che potesse pensarlo. Riempì il calice fino all'orlo e lo svuotò in pochi sorsi, e di nuovo versò il liquido rosso che gli ricordò il colore del sangue.

Come quello della mamma quando la picchiarono quasi a morte.

Il rumore della porta della cucina che si apriva annunciò l'arrivo di Andrea, e Filippo rimase con gli occhi fissi sul calice che aveva in una mano.

«Ecco, vediamo cosa ne pensi.»

Davanti a lui apparve un piatto bianco, con al centro una macchia di colori che ricordavano quelli dell'arcobaleno. Doveva essere una rivisitazione stile gourmet di un tipico piatto tedesco, i Knödel. Grossi gnocchi tondi che potevano essere salati come dolci, di pane o di carne. Nel suo menù aveva inserito la versione italiana, i canederli, ma quelli che vedeva dovevano essere stati realizzati con diversi ingredienti, forse anche con verdure, visti i colori e gli aromi che gli arrivavano alle narici.

In una situazione normale, avrebbe di certo apprezzato la cura e l'estetica del piatto, per poi proseguire con l'assaggio. In quel momento, però, lo stomaco era contratto in una morsa in un misto di dolore, per i colpi ricevuti, di ansia, di stress accumulato per la paura di ciò che sarebbe potuto accadere se non avesse pagato i debiti. Il vino che aveva bevuto già dalla mattina non migliorava le cose e, prima che il principio di conati si trasformasse in vomito, Filippo prese il piatto e lo lanciò attraverso la sala facendolo rovinare sul pavimento con tutto il suo contenuto.

«Chiunque abbia preparato quella cosa orrenda, meglio che cambi mestiere!»

«Filippo! Ma che ti succede?» Andrea lo scrutò, il corpo teso e lo sguardo perplesso. «Sono mesi che covi qualcosa e non sei più lo stesso.» Si voltò verso la cucina prima di tornare a guardarlo e sedersi vicino a lui. «Smettila di bere, e parlami. Per favore.»

Da quando non lo vedeva sorridere? Da quando non facevano nemmeno più l'amore?

Filippo posò il bicchiere ancora colmo sul tavolo, si coprì il volto con le mani e non ebbe più la forza di tenersi tutto dentro. «Manda via tutti, oggi non si apre. Dobbiamo parlare, e quando saprai cosa ho combinato mi odierai.»

Sei l'unica persona che abbia mai davvero amato, e sto rovinando tutto con le mie stesse mani.

Quartiere Schöneberg – Hoeppnerstraße 

Cinque anni prima

Quanti giorni erano che non mangiava?

Filippo non riusciva a ricordare quando era stato l'ultimo pasto decente che aveva fatto.

Era rientrato a Berlino da una settimana, forse due. Aveva lasciato Andrea alla stazione di Milano raccontandogli l'ennesima bugia, ma non aveva avuto altre alternative.

In quegli ultimi dieci anni, dopo essere scappati in Italia, a Ischia, per togliersi dai guai con gli usurai, Filippo aveva reso un inferno la vita dell'uomo che aveva così tanto amato. Andrea era riuscito in pochi giorni a pagare, almeno in parte, i dipendenti del ristorante, ad avviare una pratica di fallimento con la banca, che si sarebbe presa il suo locale e la loro casa, e si erano poi volatilizzati lontani da Berlino.

Per fortuna, quei delinquenti non avevano avuto così tanto interesse da spendere soldi per inseguirlo e almeno nessuno dei due aveva rischiato di fare una brutta fine, non per mano degli strozzini, almeno.

Dieci anni di alcol, al quale si era aggiunta anche la droga e, quando Andrea aveva provato a lasciarlo, Filippo aveva tentato di togliersi la vita.

Ormai era pulito da mesi, da quando aveva quasi rischiato di uccidere Daniele, il ragazzo di cui Andrea si era innamorato. Tuttavia, quella ritrovata lucidità mentale era diventata un peso opprimente, che non gli permetteva di perdonarsi per tutto ciò che aveva fatto.

Filippo si raddrizzò lo zaino sulle spalle.

Era partito da Milano con quello che aveva, raccontando ad Andrea che avrebbe raggiunto la madre per accudirla. Peccato che fosse morta da anni, ma non glielo aveva mai detto, così come gli aveva riferito solo delle botte prese dagli strozzini, non delle minacce alla sua vita né, tantomeno, della fiducia mal riposta in quello che aveva creduto fosse un amico.

Se gli avessi rivelato che venivo qui senza nemmeno sapere dove andare, solo per lasciarlo libero, non me lo avrebbe permesso.

Il loro rapporto era a uno stadio terminale ancora prima che scappassero in Italia, almeno da parte di Andrea. Nonostante ciò, quell'uomo dal cuore così grande non lo aveva abbandonato al suo destino, come invece lui avrebbe meritato.

Filippo si coprì con la maglia i polsi, sui quali ancora potevano vedersi le cicatrici, e si fermò davanti alla vetrina di un ristorante dove il sole rifletteva la sua figura.

Una larva d'uomo rispetto a quello che era stato un tempo: magro al punto da essere uno scheletro con un po' di pelle addosso, senza più il fisico tonico che aveva da giovane. I capelli apparivano spenti e il viso smunto era ricoperto da una barbetta, ma almeno gli occhi non erano più sempre rossi e appannati da tutto quello che si era calato nel corpo.

È un miracolo che ancora mi reggo in piedi.

Aveva iniziato già a Ischia una seria terapia di recupero sia con uno psicologo che con il metadone – ormai non più così necessario come all'inizio – ma da quando era arrivato a Berlino aveva dovuto interromperla, e la mente ne risentiva sempre di più.

Mi serve un cazzo di lavoretto, uno qualsiasi.

I dormitori per senzatetto gli avevano impedito di trascorrere le notti in strada, e lavarsi nei bagni pubblici era il massimo che fosse riuscito a ottenere. Aveva mangiato qualcosa nelle mense per poveri, ma se non avesse trovato il modo per riprendere le cure rischiava di ricadere nelle dipendenze da un momento all'altro.

Filippo alzò lo sguardo sull'insegna del ristorante. Era una trattoria di quartiere, probabilmente a conduzione familiare. Guardò i cartelli sulla porta d'ingresso, nella speranza di vederne uno che avvertisse che erano in cerca di personale, ma a parte gli orari e il menù non c'era null'altro.

Si raddrizzò di nuovo lo zaino, che gli stava spezzando la schiena, e riprese il cammino, ma non fece che due passi prima che la testa incominciasse a girare come una trottola. Si fermò all'angolo del locale, si appoggiò al muro di un vicolo laterale chiudendo gli occhi per riposarsi un attimo e riprese fiato.

«Tutto bene, ragazzo?»

Una voce cavernosa gli fece sbattere le palpebre, come se si fosse addormentato senza rendersene conto. Di fianco a lui, c'era un uomo panciuto di circa sessant'anni, con indosso un grembiule bianco da cucina. Doveva essere uscito dalla porta posteriore del ristorante e lo stava guardando con aria preoccupata.

Nonostante avesse vissuto gli ultimi dieci anni a Ischia, Filippo non aveva di certo dimenticato la lingua tedesca, ma dalla cadenza immaginò dovesse avere anche lui origini italiane.

Come la mamma, e come Andrea.

Filippo era nato a Berlino, ma circondato sempre da una comunità di italiani piuttosto nutrita.

«Sono un po' stanco.»

«Capisco.» Lo sconosciuto lo squadrò da capo a piedi, e socchiuse gli occhi come se lo stesse analizzando ai raggi X. «Da quanto tempo non mangi?»

Filippo sospirò rassegnato. Odiava sentirsi in quel modo, ma era ben consapevole del proprio aspetto attuale. «Non me lo ricordo... da un po'.»

«Okay... e da quanto tempo non bevi?»

Filippo sussultò e sgranò gli occhi. Possibile che fosse così evidente anche quello? Eppure erano mesi che non toccava un goccio né si drogava.

«Tranquillo, ragazzo.» L'uomo gli sorrise e mise una mano in tasca, tirando fuori da un portafogli una medaglia color bronzo. «Tra simili ci si riconosce. Mi chiamo Camillo, e sono sobrio da trent'anni.»

«Io... mi chiamo Filippo, e sono pulito da quasi otto mesi.»

«Italiano anche tu?» domandò Camillo, mettendo via portafogli e medaglia.

«Da parte di madre, sì.»

«Bene, Filippo. Che ne dici di un pasto caldo? Credo tu ne abbia bisogno.»

«Magari, ma ho finito tutti i soldi e non ho un lavoro al momento.»

Camillo incrociò le braccia al petto e annuì. «Okay, facciamo così. Io ti offro un pasto caldo, poi ci sediamo e vediamo come sistemarti. Una sola condizione, però.»

Filippo si raddrizzò a fatica, con lo zaino che rischiava di farlo cadere indietro a ogni movimento. «Quale?» domandò, nella speranza che non gli chiedesse un lavoretto di bocca nel vicolo. Non era così che voleva riprendersi in mano la vita.

«Dopo che ti sarai rifocillato, alla chiusura del ristorante vieni con me.» Camillo era serio, ma il sorriso non abbandonò il suo viso. «Poco distante da qui c'è una sezione degli Alcolisti Anonimi. Ovviamente, non sei costretto ad accompagnarmi. Non ti lascio morire di fame dietro il mio locale. Però, se vuoi un lavoro e darti una sistemata, posso aiutarti e quella è la condizione. La vuoi una nuova vita e un giorno, magari, avere una bella medaglia come la mia?»

Filippo deglutì, percepì un nodo alla gola e faticò a trattenere le lacrime. «Ti prego, sì. Voglio tornare a essere un uomo decente.»

«Lo sei già, Filippo.» Camillo lo prese per una spalla e lo guidò verso la porta sul retro. «Non mi avresti dato questa risposta, se non lo fossi. Sarà una lunga strada in salita, per niente facile, ma ce la farai, se lo vorrai.»

Non so se ce la farò. Ho almeno un milione di cose terribili da farmi perdonare, ma ci voglio provare. Con tutto me stesso.

NOTE

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