XV

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Clarice si affacciò alla soglia della porticina che dava sul giardino della villa di Careggi: aveva seguito lì la famiglia del marito, perché così usavano trascorrere i mesi estivi, in modo non dissimile da quanto accadeva alla brigata Orsini che all'assolata Roma preferiva la campagna di Monterotondo. Alzò lo sguardo verso il cielo, inspirò l'aria pulita e carica dei profumi della natura; questa volta, però, le lacrime annebbiavano la sua vista, i profumi non la consolavano quanto avrebbe sperato. Mosse un'occhiata intorno, alle aiole verdeggianti, ai cipressi che svettavano in lontananza tra campi rigati da filari di viti, distratta al punto di non accorgersi, in un primo momento, della presenza di altri.

Si inoltravano nel mese di agosto. Di Lorenzo si sapeva poco, Piero talvolta ne borbottava a pranzo o a cena, Lucrezia sospirava e scuoteva la testa. Giuliano, ragazzino vivace e suo coetaneo, provvedeva a rallegrarla mentre la assisteva nella lettura di qualche nuovo libro o nell'esercizio della scrittura, cui aveva ripreso a dare spazio nelle proprie giornate.

Allora, però, Giuliano non avrebbe potuto fare nulla per cambiarle l'umore, e la lettera che stringeva in mano le sembrava immensamente più pesante di quanto in realtà fosse. Aveva afferrato per caso, qualche giorno prima, stralci di conversazione tra i suoceri, qualcosa riguardante Ferrara e Gian Ludovico Pio, suo cognato, ma non vi aveva fatto attenzione, considerandola una questione di politica che non la riguardava.

La lettera diceva il contrario. Era sua madre; all'inizio aveva temuto una nuova rimostranza per le poche notizie date di sé, ma aveva dovuto ricredersi in fretta, e con quale dolore! Perché anche sua madre aveva sentito parlare di Giovan Ludovico: arrestato coi fratelli, questo diceva Maddalena, arrestato per un torbido groviglio di accuse che vorticavano attorno alla persona del marchese di Ferrara, Borso d'Este.

Io non considero come avesse avuto tanto poco intellecto a far tali pensier, che l'animali hanno tanto intellecto che non si metteno in periculo da la vita. (1)

Maddalena Orsini aveva sempre avuto parole taglienti per chi non si fosse rivelato all'altezza della considerazione che ella gli portava. Ora, lo spettro di un prossimo tragico avvenimento si profilava nella mente di Clarice. Si rivedeva davanti la sorella nel giorno delle nozze: raggiante di felicità per un marito che sentiva di meritare, per l'acquisizione di un nuovo ruolo in una nuova famiglia, per la dignità a cui veniva innalzata.

«Madonna Clarice, voi piangete!»

Un singhiozzo più forte, un sussulto del petto, e dalle sue labbra sfuggì un mezzo lamento che confermò senza bisogno di parole l'impressione di madonna Contessina. (2)

Contessina de' Bardi occupava un posto d'onore in seno alla brigata medicea, non più in ragione di un nome che attingeva alla nobiltà fiorentina, ma dell'età, dell'esperienza e della saggezza maturata con esse. Era anziana, donna dell'altro secolo, nata sul tramonto del Trecento e passata attraverso la grande scalata al potere del suocero prima, del marito poi e ora del figlio. Aveva assistito a vittorie e rovesci, aveva retto al lutto per la perdita di tanti famigliari, tra cui un figlio e più nipotini; era diventata, insomma, la memoria storica, l'ultima depositaria del ricordo dei grandi uomini con cui aveva vissuto e il punto di riferimento morale per i giovani: Lorenzo non temeva di manifestare l'attaccamento che lo legava alla cara avola, tanto meno Giuliano, il medesimo le sorelle maggiori.

«Sì, madonna, piango...»

Contessina aveva il volto segnato da profonde rughe, tante quante erano le gioie e le sofferenze che gliele avevano impresse come cicatrici. I suoi occhi risultavano un po' rimpiccioliti, ma brillavano di una luce buona tipica delle donne avanti con gli anni. Era venuta a passeggio, come a sgranchire un po' le membra dal torpore di un breve riposo pomeridiano, e si aiutava con un bastone non troppo diverso da quello che suo figlio usava per sopperire alla fiacchezza del corpo malato. Era lì da qualche manciata di minuti quando la giovane romana si era intrufolata nel giardino di soppiatto, senza far rumore, con quel suo fare un po' timido e un po' altero.

«O come mai? Cattive nuove? Vostra madre sta male?»

«No! Per la grazia di Dio, mia madre sta bene! Ma...»

E narrò, con il minor numero di parole possibile, la condizione in cui versava la sorella, senza tacere i dubbi e le incertezze ancora pendenti. Contessina ascoltò attentamente, stringendo il pomolo del bastone senza vacillare; i suoi occhietti puntavano verso una nuvola solitaria stagliata contro l'azzurro cielo d'estate e le parole di Clarice, benché pronunciate tra mille sospiri, le trasmettevano ogni sua ambascia.

«Vostra madre ha ragione, madonna! Parlatene a Piero mio, v'ascolterà. Vi introdurrò io, se temete che non vi dia retta.»

«Vorrei parlarne prima con mio marito, madonna», confessò, il volto e lo sguardo bassi. Contessina era più avvezza a consolare coi fatti che con le sole parole e, dirigendosi risoluta all'ingresso, non le lasciò altra scelta che seguirla. Clarice non avrebbe permesso che si allontanasse con quel passo svelto e malfermo che la faceva dondolare, un po' gobba, di qua e di là, col rischio di cadere.

*

Girando lo sguardo dall'ingresso della stanza da letto, la prima cosa a notarsi era la finestra aperta sulla campagna, tale da far entrare tanta luce, tanta aria e tanti suoni benigni agli spiriti malinconici come quello di Piero de' Medici; ma Piero non era soltanto malinconico, era gottoso - fieramente gottoso - e, aspetto tra i più delicati, la sua camera era stata riallestita al pianterreno: in questo modo si risparmiava al sofferente il fastidio del salire e scendere le scale. Rispondendo all'animo del proprio occupante, sobrietà ed equilibrio governavano l'ambiente: il baldacchino del letto era intagliato in un legno scuro e da esso pendevano, raccolte contro la testiera, le cortine in seta damascata d'un colore scarlatto un po' opaco. La testiera era piuttosto alta e severa, con una semplice icona della Vergine con il Bambino inserita nella struttura lignea. A rimarcare i confini dell'alcova c'erano poi due grandi cassoni in noce su cui erano posati cuscini bassi e lunghi, di modo che chi fosse accolto alla presenza del malato potesse sedergli dappresso. A terra i tappeti attutivano i rumori, mentre il soffitto a cassettoni deliziava anche lo sguardo più affaticato. C'era anche, addossato alla parete di fronte, un piccolo scrittoio, che però sovente restava vuoto.

Piero, infatti, giaceva sul materasso, le gambe fasciate in panni bianchi, ed era raro che si levasse; Lucrezia, sua moglie, gli stava accanto ora ricamando, ora leggendo; Giuliano andava a trovarlo più volte al giorno, portando spesso un frutto in dono, e Contessina trascorreva buona parte del tempo al suo capezzale, in silenzio, in preghiera. Non era comunque la famiglia la sua unica compagnia: c'erano sempre scrivani, paggi, contadini che venivano a far visita al proprio signore. Piero, d'altro canto, aveva comunque un gran daffare per star dietro a una corrispondenza che pareva non riconoscere confini di stato, di ceto o di religione: giungevano lettere da ogni parte d'Italia, dal re di Napoli al marchese di Mantova, dal sovrano di Francia all'ambasciatore presso il Gran Turco; dal prigione che supplicava un'intercessione presso l'autorità pubblica al banchiere di Lione, dal padre che raccomandava il figlio alla vedova che domandava protezione.

Per ognuno di questi casi Piero aveva tempo, aveva forze, aveva disposizione d'animo benevola: dettava le risposte, predisponeva le azioni successive, chiedeva consiglio. Poi, quando tra un discorso e l'altro balenava il nome di un figlio che si mostrava restio a dare notizie, si faceva passare la penna e un'asse di legno e scriveva di propria mano, benché la grafia si facesse più traballante ad ogni nuovo giorno.

Clarice, mettendo piede nella camera, ebbe come la percezione di immergersi in quella folla di questuanti che si avvicinavano reverenti al capofamiglia. Era come se stesse spintonando per attirare la sua attenzione, come se i gomiti di altre migliaia di persone premessero per far largo, per passare avanti. Cosicché, in un primo momento, rimase zitta, con il capo abitualmente chino, gli occhi grandi e impietositi.

«Piero mio», la rinfrancò la voce schietta e decisa di Contessina. «La tua nuora ha da parlarti di cosa molto grave e io vogliotela raccomandare. Ché se è vero quel che ella sa, ella ha licenza di sapere tutto, e pure i cari suoi.»

Da quell'introduzione Piero, che stava allora dettando un breve di risposta al proprio fattore del Mugello per definire l'acquisto di alcuni animali da stalla, comprese immediatamente quale fosse l'oggetto del contendere. Il suo sguardo balenò dall'anziana madre alla nuora, poi a Lucrezia e quindi allo scrivano che aveva ancora il pennino a mezz'aria, nell'attesa di continuare a mettere per iscritto, come infilzandole e trasferendole su carta, le parole del padrone.

«Angiolo, va' a ricrearti un po', che so bene quanto dolga la mano che non riposa mai», lo congedò delicato Piero, mettendosi più comodo contro il cuscino. Non appena furono rimasti soli tra parenti, la porta chiusa, riprese: «Vi chiedo perdono, madonna, se ho tardato a darvi conto di ciò che, forse, avete appreso da altre vie.»

«Mia madre m'ha scritto ormai tre giorni fa dicendo cose terribili su Giovan Ludovico Pio di Carpi, che voi sapete essere mio cognato», pigolò, con un vocino più acuto dell'usuale. Certo, Piero lo sapeva, perché l'ultima volta che aveva incontrato il nobiluomo era stato non più di due mesi prima, al matrimonio di Lorenzo, quando egli era venuto a Firenze a partecipare ai festeggiamenti. I loro rapporti, tuttavia, rimontavano a tempi più antichi; e la faccenda di cui erano venuti a parlare era cominciata proprio nel giro di quell'ultimo anno.

«Non voglio mentirvi: la sua condizione è misera. Agli arresti a Ferrara, questo è ciò che si sa. Speriamo di non dover apprendere notizie peggiori, ma vi invito a non sperare per la sua salvezza, ché sarebbe molto più crudo il vostro dolore.»

Piero le vide, le lacrime che brillavano nei suoi occhi, e si aspettava che la giovane si sciogliesse in un pianto lacerante. Dovette ricredersi. La fanciulla, per quanto l'apparenza la disegnasse minuta, esile e timida, aveva in sé lo spirito di una guerriera, e le lacrime non osarono varcare le sue belle ciglia. Anzi, in un moto d'orgoglio si fece ritta, alzò la testa e sdegnosa come solo chi nasce nobile può essere replicò: «E mia sorella Aurante? Che ne è, che ne sarà di lei?»

Era sul punto di rispondere, quando la giovinetta lo interruppe. «E i suoi bambini? So che è grossa di sette mesi. Che sarà di loro, se Gian Ludovico dovesse... Dovesse...»

Perire, avrebbe voluto dire. Ma era una parola troppo dura per le sue labbra tenerelle d'infanzia, appena appena sbocciate. La sua forza d'animo, stavolta, non bastava a farle vincere la debolezza del suo sesso: questo il pensiero che solcò la mente di Piero, che non la perdeva di vista un istante. Lucrezia, seduta sul cassone a lato del letto, si volse al marito. «Suvvia, Piero, dille qualche cosa di più; vedi come smania!»

«Mia madre vuole soccorrere mia sorella, ser Piero. Se non volete parlarle per mio mezzo, vi prego di scriverle voi stesso, che sarà di molto conforto alla sua anima.» Il modo rispettoso con cui Clarice parlava nascondeva una vena di supponenza nobiliare che suonò chiaro agli orecchi di chi l'ascoltava. I pugni serrati, le sopracciglia un poco aggrottate, le labbra tese erano altri piccoli segnali di impazienza, oltreché di biasimo. Non sembrava più la mite ragazzina che era entrata in punta di piedi, come preferisse restare invisibile. Ora che le corde del suo cuore affettuoso erano state pizzicate da questioni tanto sentite, la piccola Romana pungeva, graffiava, si aggrappava disperatamente agli appigli che trovava. Piero, abituato a smussare gli spigoli di personaggi ben più difficili e più pericolosi di lei, si trovò combattuto; era presto, ancora non la conosceva bene, questa nuora straniera. Lucrezia avrebbe voluto una confessione perché, da donna, si immedesimava, ma lui non aveva intenzione di cedere, non allora, quando le circostanze erano così torbide da non lasciare intravedere nulla.

Con un gesto brusco della mano accennò alla moglie di non insistere, troncando un principio di supplica. Poi, tornando a Clarice, disse: «Tra qualche dì Lorenzo sarà a casa; sono certo che da Milano porterà nuove più degne di fede, più sicure. Sicché vi esorto a stare di buona voglia in attesa di rivederlo».

Ella, consapevole di non poter osare oltre, sospirò e giunse le mani portandole alle labbra. Un ultimo respiro, lungo e sofferto, prima di congedarsi. Ora, con quest'altro peso sul suo cuoricino, avrebbe aspettato il ritorno del marito con maggior ansia, maggior angoscia ancora.

*

Lorenzo raggiunse Careggi quattro giorni più tardi, il 18 d'agosto. Cotto dal calore impietoso del sole lungo tutta la strada che da Pisa l'aveva ricondotto lì, calcò il suolo di casa propria quando il sole si accingeva a tramontare oltre l'orizzonte ondulato dei campi toscani. Non gli sembrava vero di poter posare il corpo dopo due settimane di viaggio; non gli sembrava vero d'essere finalmente uscito dall'ombra incombente di Galeazzo Maria Sforza, ora che la protezione di suo padre lo ricopriva come l'ala di una chioccia con i pulcini.

Aveva una giornea leggera, sui toni del verde, e un paio di calzebrache marroni che non vedeva l'ora di levarsi per un bagno ristoratore. Smontando da cavallo salutò i due stallieri che gli erano venuti incontro, quindi, a passo di corsa, senza curarsi di lasciare indietro ser Gentile Becchi, varcò la porta centrale. Lo aspettavano tutti al di là, nel cortile cinto dal portico: sua madre, suo fratello, sua moglie e i servi pronti ad assisterlo.

Tolse la berretta, la consegnò al primo che si fece avanti, quindi si protese e baciò Lucrezia sulle guance, poi porse la mano a Clarice, che la prese e la strinse tra le sue.

«Bene, di me invece non te ne cale, via?» brontolò Giuliano, incrociando le braccia. Lorenzo gli diede un buffetto sul viso imberbe e lo prese in giro: «O sei tu la mi mamma o la mi moglie, che pretendi attenzioni da femmina?»

Il ragazzo arrossì e si lanciò ad abbracciarlo forte, mentre diceva: «Mi racconterai, vero? Mi racconterai di Milano, del duca, del battesimo? Lo farai?»

«Certo, certo che lo farò, ma dopo. Clarice, hai tu preparato per il bagno?»

«Sì, è tutto pronto in camera.»

«Perdonami, ma l'acqua fredda mi fa venire male alle ossa. Dite al babbo che passerò da lui prima di cena!»

Così Lorenzo prese sottobraccio la moglie e con lei si avviò su per le scale. L'impazienza gli faceva salire i gradini a due a due, ma Clarice non riusciva, non poteva stargli dietro, con la cioppa lunga fino ai piedi. Ridevano, una pregando di rallentare, l'altro incitando ad andar più di lena. La camera non era lontana, le fantesche - tra cui spiccava per attivismo la Cammilla romana fedelissima dell'Orsini - andavano avanti e indietro con panni e secchi d'acqua calda.

«Presto, presto, lasciate il campo!» entrò in trionfo Lorenzo. Clarice, subito dietro di lui, prese posto sul cassone. L'acqua mandava un vapore invitante e Lorenzo metteva già mano alla cintola per alleggerirsi, nonostante qualche serva si attardasse a sbrigare lavorucci di poco conto. Poi la porta relegò all'esterno gli estranei, lasciando i giovani coniugi alla loro intimità. Lui si tuffò nella tinozza esalando un ansito di soddisfazione; se ne stette per un momento in silenzio, godendosi il tepore avvolgente sui muscoli stanchi della cavalcata del ritorno, e solo quando cominciò a sentire le membra più rilassate bisbigliò: «Clarice! Psst, Clarice! Vie' qui, vie' qui, Clariciozza mia!»

Ma Clarice tardava; Lorenzo fece leva sul braccio destro e si guardò alle spalle. «O che hai? Non sei tu felice ch'io sia tornato?»

«Oh, certo che lo sono! Ho pregato per questo da che siete partito», si schermì. Non voleva incontrare i suoi occhi neri, non allora che erano soli. Dovette farlo. E fu come si era aspettata: era sospeso, ma gli importava soprattutto che lo raggiungesse. Si alzò e si avvicinò a piccoli passi; solo quando fu lì rispose più compiutamente. «Spero che abbiate qualche novella dei miei parenti a Ferrara... di mia sorella Aurante...»

Lorenzo, per quanto l'acqua fosse calda, si sentì ghiacciare d'un colpo. Clarice fu attenta a cogliere l'impercettibile movimento delle sue palpebre, delle sue dita strette sull'orlo della tinozza. «Che cosa sapete?»

Indeciso tra mentire e confessare, suo marito temporeggiò: «Ne parleremo dopo... Vieni, sta' un po' qui con me...»

Lei, però, non assecondò il suo desiderio. Come con Piero, Clarice ostentò con Lorenzo tutta la propria caparbietà; si morse il labbro, sì, ma solo per evitare che le tremasse dall'agitazione. «Vi prego, non tenetemi all'oscuro di cose che mi riguardano.» Era giovane, fin troppo per pretendere di avere qualche peso, qualche responsabilità; non aveva ancora figli e la sua dote, quella in denaro liquido, era a Roma, non a Firenze. Lorenzo aveva la facoltà di tacere con lei, ma la sua espressione provata lo vinse.

«Giovan Ludovico è morto.»

«Come morto

«Borso d'Este lo ha fatto decapitare. Lui e i suoi fratelli avevano attentato alla sua vita a luglio, ma erano stati traditi.»

«Traditi...»

«Traditi da Ercole, quel farabutto, che avrebbe dovuto rivendicare il titolo e scalzare il bastardo degli Este e invece ha spifferato tutto. O almeno, questo è ciò che Sforza m'ha detto.»

«E Aurante? Vive? E i bambini?»

«Le hanno requisito tutti i beni di famiglia e la dote; vive, ma da reclusa, nel castello di famiglia. Non meravigliarti se non riceverai lettere da lei: è probabile che non le facciano avere contatti. Mi dispiace...»

Clarice si lasciò cadere in ginocchio, poggiando languidamente il gomito sull'orlo della tinozza. Lorenzo, d'animo del tutto guastato dopo quelle rivelazioni, si immerse più che poté nell'acqua, chiuse gli occhi e smise di respirare. Udì, lontano, il lamento di lei. «Com'è possibile che Giovan Ludovico si sia prestato per un'impresa tanto folle! Non era... Non era un superbo, un violento... Un ribaldo.»

«La politica richiede azioni terribili, qualche fiata. Gli era stato chiesto se fosse di parere favorevole e lui ha optato per l'agire», disse in un sussurro. Dopo un frangente che parve tendere all'infinito, Clarice domandò ancora: «E voi...? Anche a voi è stato chiesto? V'hanno coinvolto o forse...?»

Riaperti gli occhi, Lorenzo si trasse seduto, con un guizzo afferrò sua moglie per il braccio e la tenne vicino a sé. «No,» sibilò. «Io non c'entro. Io no. Ma mio padre...»

«Ser Piero? Che ha a che fare Piero?» gli fece eco, la voce ridotta a un soffio, ma non per questo scevra del tono stizzito che aveva assunto da un paio di frasi. Che la verità si stesse affacciando alla sua mente? Che presentisse quale sarebbe stato il prosieguo? Lorenzo preferì evitare qualsiasi fraintendimento, già che si era arrivati fino a quel tratto. «Mio padre è tra i mandanti dell'assassinio insieme a Galeazzo Maria Sforza; l'ultimo abboccamento con Gian Ludovico s'è tenuto a Firenze, al nostro matrimonio. Gian Ludovico s'è dato volentieri all'opera, era disposto a tutto per dimostrare lealtà al duca di Milano e a noi. E mio padre era pronto a sostenere il colpo di stato di Ercole.»

«Dunque mia sorella è vedova per cagione vostra?!»

Clarice si era liberata e l'aveva fatto con foga che lei stessa non si sarebbe aspettata; Lorenzo rimase sbigottito al vederla in piedi con quel volto furente, degno di un'Erinni assetata di giustizia. Per cambiare argomento e avere un pretesto per distogliersi dalla discussione scomoda in cui era finito, lanciò un'occhiata di lato e disse: «Passami la spugna». In questo, almeno, si vide accontentato, ma la questione non era ancora affatto chiusa. «Ora,» proseguì infatti Clarice, «ora sarà vostra cura trarla fuori dall'infamia. Voi ce l'avete gettata, voi la tirerete fuori. O vorrete discolparvi senza badare ai parenti vostri? Ché lei è mia sorella, vostra cognata, e i miei nipoti sono anche i vostri! Avete dei doveri nei loro riguardi!»

Lorenzo, livido, si strofinava la spugna sulla pelle. E pensare che aveva il cuore tanto leggero, allorché era giunto a casa, mentre ora si pentiva persino di aver scacciato le serve dalla camera! Clarice non aveva mai avuto tanto fiato come allora e non accennava a tacere, frastornandolo di ordini e minacce che echeggiavano i rimproveri di una ragazzina inesperta del mondo. Lo spettacolo, però, gli era tanto nuovo che non gli riusciva nemmeno di sbuffare di noia, al timore di suscitare rimostranze ancora più accese. Quando ne ebbe avuto abbastanza, si sollevò e uscì dalla tinozza, ghermì il telo bianco che lei gli stendeva davanti e se lo avvolse attorno alle spalle.

«Farò del mio meglio», e con questo chiuse la discussione. Poi, asciugatosi, lasciò il telo da un canto e si coricò. «De', vieni costì ora, che non è bene ragionare dei morti quando fa buio.»

Pur controvoglia, Clarice sembrò quietarsi. Tacque, per lo meno, e per un momento Lorenzo si illuse di aver vinto. Gli piaceva vincere e detestava la sconfitta: non senza un accento di comando, batté due pacche sul materasso. «Alla cena manca ancora un po', si fa a tempo, suvvia.»

Ma lei, mettendo le mani sui fianchi, «No!»

«No?! Come sarebbe a dire!»

«Non n'ho punto voglia!»

«E io ne ho! È un mese che non tocco una donna!»

«E sarà un mese e un giorno, perché non voglio fare all'amore con voi dopo quel che m'avete detto. Dico a Cammilla che sgomberi la camera dalla tinozza.»

Sbuffò sonoramente, apposta per farsi sentire. Il sangue gli ribollì nelle vene a quel rifiuto, non essendoci avvezzo. Ripensò alla mamma, che gli aveva fatto mille raccomandazioni sulla fedeltà coniugale e sul rispetto da portare alla moglie: che questo dovesse costringerlo a una tediosa astinenza era fuori discussione. Avrebbe lasciato correre solo perché la tragica vicenda dei Pio di Carpi giustificava più di un semplice capriccio, ma si ripromise di chiarire la propria posizione non appena avesse avuto modo di farlo. Si buttò addosso il panno bianco e rimase in dormiveglia finché non vennero a chiamarlo per la cena; si rivestì, scese di sotto, rese al padre un resoconto dettagliato delle cose dette e viste a Milano. E dei Pio di Carpi non si parlò più. (3)

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(1) La citazione è tratta dalla lettera di Maddalena Orsini alla figlia Clarice datata 11 agosto 1469 (MAP. LXXXV, 668).

(2) Contessina de' Bardi (circa 1391/2 - post 1473) fu la longeva nonna di Lorenzo de' Medici. Figlia di Alessandro di Sozzo Bardi, conte di Vermiglio, e di Cammilla di Raniero di Galdo Pannocchieschi, il suo nome di battesimo era Lotta. Sposò il marito, Cosimo de' Medici, nel 1415 (anche se non è certo) ed ebbe due figli maschi: Piero nel 1416, all'età non più freschissima di venticinque anni, e Giovanni nel 1421. A loro fu sempre legata da affetto molto tenero, come provano le sue lettere ancora conservate, e ne curò l'educazione; parimenti era molto legata alle due nuore, Lucrezia Tornabuoni e Ginevra degli Alessandri. Restò sempre il punto fermo della famiglia: né l'esilio di Cosimo né lutti poterono piegarla. Le morirono, nell'ordine, il nipote Cosimino primogenito di Giovanni (1459), Giovanni stesso (1463), Cosimo (1464), Piero (1469).

(3) La congiura, come accade spesso in questi casi, ha confini non molto chiari tutt'oggi. Purtroppo non sono riuscita a consultare l'unico studio prodotto al riguardo, La congiura dei Pio signori di Carpi contro Borso d'Este marchese di Ferrara duca di Modena e Reggio di Carlo da SanGiorgio (1864), ma a grandi linee si capisce che dovette andare più o meno così: Galeazzo Maria Sforza aveva interesse a indebolire Borso; Piero de' Medici, storico alleato degli Sforza, aveva a propria volta qualche vantaggio da trarre, contando che Ercole d'Este (successore di Borso) aveva servito Firenze come condottiero in quegli anni. I Pio da Carpi, a quanto si apprende, erano una famiglia che ribolliva di gelosie intestine. All'origine di tutto ci sono tre fratelli: Galasso, Alberto e Gilberto. Ebbero prole e qui serpeggiò il male. I figli di Galasso (tra cui il nostro Giovan Ludovico) tendevano verso Milano e Firenze, quelli di Alberto e Gilberto erano fedeli a Borso. Chiaro che la situazione fosse propizia per lo schieramento allineato tra Milano e Firenze. Giovan Ludovico fu designato come colui che avrebbe dovuto coinvolgere Ercole d'Este, che recitò a pennello la parte di quello che ci sta, che appoggia la congiura, per poi andare a denunciare tutto al diretto interessato, il fratellastro Borso appunto. I congiurati furono arrestati il 17 luglio, Giovan Ludovico quasi subito spedito in piazza per la decapitazione; i suoi fratelli probabilmente non erano stati coinvolti nel complotto, ma a Borso questo interessava poco e li imprigionò tutti. Aurante fu privata di ogni bene in suo possesso.

In chiusura riporto una lettera trovata per caso spulciando tra le carte dell'Archivio mediceo. Non vi nascondo che, leggendola, mi è venuta un po' di pelle d'oca.

A Lorenzo de' Medici

Magnifice frater amantissime etcetera. Nuy le habiema preso gran piacere e consolatione de la parentela havite strecta con casa Ursina in torre per vostra legiptima sposa Madona Clarize nostra sorela, che poti far conto havere acquistato dopo casa Ursina la casa di Pilgys (=Pio) la quale ne potite fare altrotanto conto, e disponere quanto nuy faresemo di la vostra in sino a meterce il proprio nostro sangue. Sicché hora siate una medesima cosa, el proferire è superfluo. Il stado e nuy siamo a vostro comando e a vuy se aricommandema. Ex Carpo sancto die 12 Januarij 1469.

Joannes Ludovicus

Aurantes Consortibus

de Pys de Sabaudia

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