Una vacanza tra le ortiche

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-Muoviti, David! Il treno sta per arrivare!- gridava la sorella, Elizbieta Mazur, la quale piroettava nel corridoio silente per ammazzare il tempo. La treccia castana di lei schioccava sul suo nuovo abito di raso, come una frusta per le penitenze . Il ragazzo, dalla sua stanza disadorna, poteva sentirla in tutta la sua energia e la sua vitalità. Con le mani ancora sommerse dalle camicie sporche, David gridò:-Sto arrivando!-
La sorella e la treccia sembrarono tacere, come se per un accordo lei e l'acconciatura odierna avrebbero dovuto sempre fare le stesse cose. Mentre infilava la sua copia della Torah, il giovane ripensava alle loro vacanze che stavano per concludersi, come in un ciclo di romanzi di fantasia. I due fratelli, entrambi gemelli di sedici anni, provenivano da Varsavia, la città illuminata e visitata da rabbì, scribi e studenti per discutere della Yom Kippur o della Kasherut. Era la patria- con i suoi palazzi illuminati dai colori cangianti, con il cielo sempre terso ed ingenuo e con le strade bagnate dal sangue di un'anima morta, dal fango o dalla pioggia umida- dei fratelli Singer e sogno utopico del protagonista del racconto Il mago di Lublino. Entrambi i giovani erano i figli di una famiglia estremamente devota all'ebraismo e ai suoi principi. La loro madre, Ester Cohen, era una donna di mezza età dal capo rasato sempre soffocato da uno scialle nero, la quale teneva sempre in mano un suo libro di preghiere che solo lei possedeva. Era rigida e disciplinata. Andava ogni sabato alla sinagoga delle donne, digiunava fino a mezzogiorno e i suoi piatti erano kosher. Puri. Adatti ad ogni pranzo o cena che si presentasse a shabbat. Nessun desiderio anticonformistico era passato nella sua mente sempre satura di canti ancestrali o di preghiere arcane quanto le rughe delle sue mani. Se avesse voluto pulire la casa in un giorno festivo, si sarebbe impiccata. Il loro padre, Bulak Mazur, era un rabbì di età avanzata, il quale girava fluttuando per tutta la città con le sue peyes o con i suoi filatteri che dondolavano nella brezza del vento. Era stato un cantore molto famoso, grazie alla voce mascolina che vibrava e riecheggiava in tutte le strade di Varsavia. Le donne, prima di andare dal macellaio, si complimentavano con lui e lo veneravano. Ne era compiaciuto, oh se ne era compiaciuto! Durante la cena del sabato, si vantava con gli altri uomini del suo passato di cantore e sperava sempre, nel suo inconscio romantico e decadente, di poter tornare a far trillare le parole squadrate della Torah. Ma a causa della morte di suo padre e dei debiti che avevano sommerso lui e sua madre, una vecchia strangolata dalle mani della malattia e della sciatteria della senilità, aveva deciso di partire da Morritz, paesino assonato e quieto della Polonia, per diventare un rabbino. Passando le ore, la giovinezza e la salute a studiare su vecchie pergamene scritte da profeti venuti prima di lui, aveva ottenuto ciò che aveva sempre desiderato: predicare la parola di Yaveh e di Colui che avrebbe parlato per mezzo suo. Era stimato da tutta la città e, soltanto con il suo consenso, si poteva pregare o fare altre iniziative religiose o teologiche che erano. I due fratelli, Elizbiěta e David, erano diversi sia fisicamente che psicologicamente. Il ragazzo aveva un corpo robusto e plasmato dai muscoli creati dalla virilità e dal tempo. Ogni volta si potevano vedere dagli abiti formali per il Barmiztvah di qualche cugino o dalla divisa della scuola che frequentava. I capelli ribelli e scuri si muovevano in sintonia col movimento del cranio e del corpo, come uno schiavo col suo padrone. Il viso squadrato era punteggiato da occhi piccoli, acquosi che si posavano inquieti su ogni frammento di vita. La bocca sottile era sempre serrata e invisibile, pronta a liberarsi dalla costrizione di un bacio con un componente del gentil sesso. Le gambe, robuste e dorate come le braccia e le mani tozze, correvano per una direzione imprecisa, verso un campo di fiori creato dalla sua immaginazione futurista e vivace. Era sempre stato uno spirito ribelle. Ogni sera barava le preghiere e si prendeva gioco dei Santi, ovviamente di nascosto dai genitori e dalla sorella, la quale, sentendo tali blasfemie, arrossiva imbarazzata. Il sabato, invece di riposare o accendere le candele, andava con il suo gruppo di amici per fare una mano di whist o per inseguire le galline. I suoi calzoni sporchi e la sua blusa intrisa di sudore, rappresentavano la sua noncuranza nei confronti della vita e del mondo. Amava bere vodka ogni sera, frequentare bordelli diversi e far riecheggiare parolacce e bestemmie verso il cielo. Ma era coraggioso e se qualcuno avesse osato far del male alla sua dolce sorella, avrebbe ucciso il colpevole con le sue stesse mani callose. Infatti la sorella, a causa della sua delicatezza, era eguale ad un giglio delicato, sempre esposto al vento e al pericolo. I capelli castani erano legati in trecce rigide, mai lasciate respirare nell'olezzo quotidiano, da essi aleggiava l'aroma di giunchiglie appena coltivate. Il viso, sottile e scarno, era rosato e sempre increspato da fossette disegnate dal suo sorriso da Gioconda. Gli occhi, neri e infuocati come quelli di David, erano cheti e sempre illuminati dal raggio della luna o delle stelle, poiché da essi nessuna irrequietezza da letterato maledetto, osava sfiorare quelle iridi profonde quanto uno stagno. La bocca, carnosa e rossa, era sempre stata il piccolo desiderio lussurioso di ogni adolescente, un desiderio da baciare e possedere. I piccoli seni cercavano di nascondersi attraverso i corsetti, gli abiti stretti e lo scialle cucito da sua madre. Le gambe, le braccia erano sottili e delicati, quasi sempre minacciati dalla violenza fisica di qualche imbecille ubriaco o perverso. A differenza di David, Elizbiěta era devota a Dio. Come la madre, digiunava ogni giorno e pregava tutte le sere, nonostante alcune di esse mettesse uno stato di torpore pesante e tentatore. Il sabato la si poteva vedere nella sinagoga delle donne assieme alle amiche della signora Mazur, sempre silenziosa e dolce. Con le amiche, non era mai uscita di casa senza il consenso dei genitori e passava il tempo a cucinare e a pulire la casa, come se fosse già stata una massaia sposata ad un marito anziano e sedentario. Amava scrivere poesie, sistemare fiori e comprare nuovi coltelli col manico di madreperla per le feste solenni. Nonostante disaccordi comuni e innovativi, i due fratelli si volevano bene e realizzavano ogni istante della loro adolescenza che non si sarebbero mai separati. Avevano condiviso gioie, dolori, rabbie, spasimi e smorfie. L'uno ascoltava le inquietudini dell'altro. Erano come madre e figlio o padre e figlia. Forse erano come amanti, anche. Nessuno lo sapeva, ma la devozione profonda che li univa avrebbe dato vari definizioni alla loro unione.
Accadde che un'amica di David, Maddalena, una gentile italiana, aveva deciso di portare il ragazzo ad un albergo nelle praterie selvagge e sature d'erica dello Yorkshire. Siccome Elizbiêta aveva paura di rimanere da sola, aveva implorato sua madre e suo padre a venire con David, per stargli accanto e per aiutarlo in qualsiasi cosa. Così per due mesi, i due fratelli avevano passato il tempo a passeggiare nella brughiera sempre bruciata dal vento cocente della Gran Bretagna, a giocare a carte con ragazzi e signori sconosciuti e a sorseggiare brandy alle dieci in punto della sera. Per un poco, la piccola Elizbiěta si era divertita e aveva riscoperto il fascino selvaggio e misterioso della trasgressione e delle azioni peccaminose mai punite. David era rimasto compiaciuto di ciò e aveva considerato la sua sorellina "coraggiosa". Aveva detto a tutti che la sua dolce consanguinea era diventata una donna. Ma ora stavano per ritornare a Varsavia e si ritrovavano nel punto della nostra storia. Dopo aver fatto i bagagli, i fratelli stavano per uscire dall'albergo quando una ragazza sui vent'anni si precipitò in mezzo alla reception. Aveva un'aspetto stravolto. Capelli spettinati sfuggivano al cuoio capelluto della sua padrona e gli occhi della poveretta erano vitrei e inquieti. La sua sottana era strappata e la camicetta era sporca. In quel momento si era accasciata e si stava dimenando, con la bocca satura di saliva e grida forsennate. La piccola Elizbiěta era pallida per la paura e David, virilmente, cercava di trattenere la misteriosa giovane. Dopo quelle convulsioni, la ragazza si addormentò.
Mentre era assopita su uno dei divani della sala centrale, il direttore e i fratelli discutevano concitatamente.
-Non so cosa sia successo a quella poveretta, è da stamattina che si comporta in quel modo.- disse l'uomo, prima di affondare il viso nel fazzoletto giallo. David strinse sempre più le labbra sottili ed esangui.
-È inquietante, ciò. Dovremo restare qui, per vedere quello che possiamo fare.- replicò il ragazzo, fermo. Elizbiěta, nel sentire ciò, si fece più livida. Quindi sarebbe rimasta in quell'albergo per affrontare la Geena che stava per incombere? Che cosa avrebbe detto ai genitori? Se fosse morta, avrebbero pianto per un anno. David, come hai potuto? Tu che causi svenimenti e crisi di pianto a nostra madre. Tu che  fai arrossire nostro padre per la collera. E se quella donnetta fosse una gentile? Che cosa direbbe la gente? I pensieri si susseguivano confusamente nel cervello e non la risparmiavano. Oh, com'era complicato tutto ciò!
-Dovremo chiamare un rabbino.- sussurrò il direttore dell'albergo, il signor Holmes.
-Non ci sono ebrei qui, signore. Questa situazione dipende solo da noi.- tagliò corto il ragazzo, sbrigativo. Era ufficiale. Non potevano lasciare quella ragazza in quelle condizioni. Dovevano salvarla dal male.
-Magari è posseduta da un dibbuk, da uno spirito maledetto.- disse Elizbiěta, sperando di attirare l'attenzione su di sè. I due uomini si girarono, increduli.
-Un dibbuk? Sei sicura di quello che dici, sorella?- chiese David. La ragazza annuì, energicamente. Se non potevano tornare, almeno poteva usare le sue conoscenze per aiutare quella poveretta.
-Dovreste esserne sicuri! Dopotutto siete ebrei, giusto?- disse il direttore. David era disgustato da come quell'uomo si era lavato le mani dalla responsabilità di aiutarli a curare quella anima innocente. Siete ebrei. Quelle due parole rimbombavano nella sua testa e lo facevano rabbrividire per l'irritazione. Dovete fare questo perchè siete ebrei. Non dovete andare in quel posto perchè siete ebrei. Non dovete mangiare tale cibo perché siete ebrei. Solo perchè scorrevano in loro sangue ebraico, perchè non potevano avere gli stessi diritti dei gentili?  Perché? Mentre pensava a ciò, Elizbiěta lo trascinava nel corridoio scuro e illuminato da fiaccole dell'albergo, fino a trascinarlo nella stanza della malcapitata posseduta. Era una camera minuscola, dalle pareti bianche che asfissiavano lo sguardo e il letto a muro angusto. Non c'era nessun altro mobile. Era come la camera di un mentecatto. I fratelli fecero sdraiare sul materasso la ragazza, la quale alzava e abbassava la schiena come un gatto. David, con lo sguardo cercava delle cinghie per trattenere la ragazza, mentre la sorella sfogliava la sua piccola Torah per trovare un mezzo per scacciare il dibbuk che dominava l'anima della posseduta. Le dita tremavano, a volte si fermavano e venivano imperlate dalle lacrime spaventate della ragazza, la quale tremava per la paura e l'ansia.
David, dopo un po', riuscì a trovare delle cinghie appese ad un finestrino minuscolo, pervaso da raggi cerulei di un sole pallido. Le prese e legò con esse i polsi della poverina. Lo spirito intanto sembrava sprigionare la sua forza non solo dal corpo della paziente ma cercava di esplorare la stanza della vittima. Il letto, inerme, fluttuava a mezz'aria e le pareti bianche vibravano come se un diapason fosse risuonato vicino a loro. Le cinghia che trattenevano i polsi e le caviglie della vittima volevano staccarsi dalla pelle dell'anima che erano costrette a trattenere. Si alzavano verso l'alto, indomite. Elizbiěta mormorava le formule yddish piagnucolando per la paura che le stava consumando le viscere, mentre David stava spingendo la paura nei meandri più silenti della sua psiche di maschio. Intanto la ragazza urlava parole incomprensibili, miste ad un ebraico contorto e ad un polacco ancestrale, dimenticato dai primitivi estinti. I ragazzi, a volte, si guardavano preocupati. Dovevano sbrigarsi o il dibbuk avrebbe ammazzato sia loro che la vittima. Il dibbuk, con la sua presenza velata, estraeva dalla bocca della ragazza la saliva trasparente e, assieme ad essa, i denti sporchi e storti. Elizbiěta piangeva forte e David imprecava sottovoce. Ad un tratto il corpo della ragazza si squarciò. Sangue e organi fluttuavano dallo stomaco spalancato e venivano gettati verso la parete bianca. Ogni pezzo di muro si staccava lentamente e veniva lanciato da una forza invisibile verso la testa di uno dei gemelli.
-Non piangere, sorellina. Andrà tutto bene.- mormorò David con dolcezza, mentre cercava di rassicurare la sorella, la quale era pervasa da tremiti convulsi e da spasimi violenti.
Andrà tutto bene.
Andrà tutto bene.
Andrà tutto bene.
Non stava andando tutto bene. Elizbiěta, stanca di quell'incubo, si era gettata verso il finestrino, diventato sempre più grande, e si era gettata. Il ragazzo, allarmato, corse verso la direzione in cui la ragazza si era uccisa e vide il cadavere. La treccia, scomposta, giaceva asimmetrica nel lago di sangue vivido. Il volto era deformato da una smorfia di pianto e spavento, gli occhi, vitrei osservavano qualcosa di inesistente, posato come una piuma nel sogno che Elizbiěta avrebbe voluto avere. Il corpo, seminudo, era chiazzato da sangue secco e fango.
David, in lacrime, si girò lentamente. Troppo tardi.
Il corpo della ragazza posseduta si era gettato su di lui, uccidendolo.





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