27 - SAMARCANDA (1)

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«Se siamo fortunati, stasera potremmo avere altri quattro scrigni con noi!» Alberto non smetteva di analizzare il suo foglietto, mentre Roberto guidava la Ford Taunus attraverso la vallata dello Zena. Avevano superato la bolla presente al Botteghino, constatando, dalla grandezza ormai ridotta della sfera immobile sopra le teste degli sventurati, che la sentinella aveva quasi finito l'estrazione. E la stessa cosa avevano notato in quella presente nel parco della chiesa del Farneto.

«E se non siamo fortunati?» chiese Roberto, proprio mentre oltrepassavano la bolla. «Diciamo la verità. Quante possibilità abbiamo di trovarli tutti?»

«Le stesse che avevo io di trovare te e Veronica. Ma vi ho trovato, insieme, nella stessa casa, nello stesso momento.» Lo fissò. «Dobbiamo avere fiducia e speranza, amico mio. Altrimenti è meglio se la finiamo qui.»

Roberto sospirò. «Volevo solo essere realista. È che sono preoccupato; forse non dovevo lasciare mio figlio. Quei cosi stanno finendo di estrarre. Cosa succederà dopo?»

«Cercheranno gli altri, mi viene da dire.»

Roberto lo fulminò per un secondo, prima di ripuntare gli occhi sulla strada. «Grazie tante! Mi sei di conforto!»

«Tranquillo, hanno Veronica. A quanto mi avete detto, la ragazzina li ha già fronteggiati e respinti. Come te, no?»

«Non sappiamo ancora cosa sia successo, in realtà. Cazzo! Sono stato troppo avventato. Dovevo rimanere con lui.»

«Ehy, ehy! Cosa sono questi repentini cambi d'idea? Abbiamo un compito da svolgere, ricordi? E se va tutto bene, già stasera potremmo essere a buon punto. Le persone che cerchiamo... sono come noi. Hanno il nostro stesso potere, intendo. Anche loro sono scampati alle bolle, ne sono sicuro.»

«Uno però vive all'Isola d'Elba e l'altra è americana. Come li troviamo? Come li raggiungiamo?»

Alberto piegò il foglietto e se lo infilò in tasca, estraendo nello stesso momento il cellulare che gli aveva dato Franco.

«Con calma, Roby! Ci penseremo quando ci arriveremo. Per adesso concentriamoci sui primi obiettivi, ok?»

«Ah, giusto. La tizia di San Lazzaro che è morta!»

«Roberto, che ti prende? La mancanza dei "Ginepri" ti destabilizza tutto in un colpo?»

«Scusa, hai ragione. Sono solo un po' agitato. È che fantasticare su una cosa e poi trovarsi realmente a farla... sono due cose diverse.» Trasse due lunghi sospiri, poi lo guardò con la coda dell'occhio. «Dimmi di te, dai. Chi sei? Da dove vieni? Cos'hai combinato? Perché qualcosa hai combinato, vero?» Alberto chiuse gli occhi e sbuffò. «È così terribile la tua storia?» lo incalzò Roberto. Non ottenne risposta. «Senti, passeremo del tempo insieme. Quanto, non lo sappiamo. Mi sto fidando ciecamente di te, e per farlo ho appena abbandonato mio figlio. Penso di meritarmi la verità, no? Se è vero che per sconfiggere quello stronzo dobbiamo creare una squadra e imparare a fidarci l'uno dell'altro, credo che sarebbe parecchio sbagliato iniziare con la mancanza di fiducia tra noi due!»

Alberto si girò a guardarlo. «Hai ragione, e te lo avevo promesso. Ma non è una bella storia. Posso dire di essere un uomo diverso adesso, rispetto a quello che ha fatto le cose che sto per raccontarti, ma so che non è una giustificazione. Inoltre, ho appreso da poco nuovi risvolti a dir poco agghiaccianti.»

«Dalila?» Alberto lo fissò stupito. «Vi ho visto stamattina appartarvi per parlare.» Roberto gli fece l'occhiolino. «Qualsiasi cosa tu abbia fatto, adesso sei qui a rischiare la vita per salvare il mondo. Insomma, non mi sembri una persona così cattiva. Su, spara!»

«Va bene...» Alberto sospirò, nuovamente. Ma proprio nel momento in cui stava per iniziare le sue confessioni, il telefonino che teneva stretto tra le mani, cominciò a trillare. Lo guardò a occhi spalancati, quasi credendo di sognare.

«Rispondi, su!» lo spronò Roberto, al colmo dell'eccitazione.

«Quel vecchio scienziato pazzo... Pronto? Franco! Ce l'hai fat... Come?... Cazzo! Ok... Ne ho già trovati due... Esatto! Una sta venendo lì con altre sei persone. Ho detto loro di raggiungere la villa. Io e l'altro scrigno siamo alla ricerca degli altri. Sì, dimmi... COSA? Francesca è... Pronto? Pronto? Merda!» Fissò lo schermo avvilito, poi abbassò il braccio. Sentiva le lacrime in agguato dietro agli occhi, ma non era il momento di piangere e riuscì a ricacciarle indietro.

«Quindi? Ce l'ha fatta il tuo amico!»

«In realtà no. Ha fatto in tempo a dirmi che avevamo solo qualche secondo... il massimo che è riuscito a ottenere. E se non riesce lui a ripristinare le linee, mi sa che nessuno può farlo.» Si grattò la testa, nervosamente.

«Ma adesso l'aveva fatto?»

«Solo per un attimo.»

«Se c'è riuscito per un attimo, magari poi ci riesce...»

«Roberto, non lo so! Sono qua con te, non là. Aveva il tono di voce abbastanza demoralizzato. Comunque, sa che i nostri lo raggiungeranno ed è già una buona cosa.»

«Che succede? Sembri scosso?»

«La mia ragazza... Credevo fosse stata presa dalle sentinelle, invece è là con lui.» Una lacrima, imperterrita, si ripresentò, e stavolta Alberto la lasciò passare. «Dio, che voglia ho di rivederla!»

«Sono felice per te.»

«Dovrebbe esserci lei qui ora. Avevamo pianificato di fare questa cosa insieme.»

«Io non ho intenzione di sbaciucchiarti, se è questo che hai in mente!»

Alberto rimase qualche secondo impassibile, poi scoppiò a ridere. Roberto si unì a lui. «Sono contento di essere con te Roby. Sembri un tipo in gamba.»

«Spero di non deluderti, quando ce ne sarà bisogno.»

«Manca molto?»

«No, meno di dieci minuti. Senti, la tua storia me la racconti un'altra volta. Pensiamo allo scrigno ora. Abbiamo un piano?»

Alberto fissò fuori dal finestrino. Era sollevato per aver evitato, almeno per il momento, le proprie confessioni, e felice nel sapere che la sua Francesca stava bene ed era al sicuro; ma provava pure una profonda delusione, temendo che Franco avesse fallito nel tentativo di ripristinare le linee telefoniche. «No! Non so nemmeno chi troveremo, se troveremo qualcuno. Questo è l'indirizzo del numero che chiamò Francesca mesi fa. Rispose un tizio dicendo che Marisa Vertani era morta. Dobbiamo scoprire chi fosse presente mentre lei spirava.»

«Potrebbe essere morta da sola...»

Alberto alzò lo sguardo. «Mi auguro proprio di no!»


Franco fissava il telefono con lo sguardo sconfitto.

«Non arrenderti, zio. Se sei riuscito a usarlo una volta, ci riuscirai ancora.»

Il vecchio alzò gli occhi su Francesca, seduta davanti a lui al tavolo circolare, posto al centro della sala di controllo all'interno della torre che sovrastava la FDS.

Tutt'intorno a loro correva l'ampia vetrata, schermata da un vetro annerito che impediva di vedere all'interno; e, sotto alle vetrate, un'enorme consolle, anch'essa circolare, con decine e decine di monitor, leve e pulsanti di ogni sorta. Al centro del tavolo passava un grosso tubo argentato, collegato, in alto, all'antenna che troneggiava sul tetto e che scompariva in basso, sotto al pavimento. Quasi metà tavolo era occupata da una grande tastiera connessa al tubo. Avevano deciso, subito dopo colazione, di rifugiarsi lì, nel punto più alto e meno accessibile dell'FDS, essendo raggiungibile solamente con un ascensore azionabile esclusivamente con la chiavetta fatta a cilindro presente nel mazzo che Franco portava sempre con sé. L'unica copia, l'aveva Monica, nel suo. La donna aveva preparato e portato su, due sporte di cibi in scatola e una cassa d'acqua, nel caso, l'eventuale assalto, si fosse protratto più del dovuto.

Franco scosse il capo. «Questi pochi secondi sono tutto quello che ho potuto spremere. Quell'Ismel ha fatto un buon lavoro; ci ha zittiti, e ci ha zittiti per bene.»

«Ma come hai fatto adesso...»

«Adesso ho usato questo...» Teneva in mano una sorta di scatoletta, completamente nera, sulla cui superficie svettavano tre piccole antenne, che parevano fatte dello stesso materiale. «È un congegno creato da me, tanti anni fa. Cerca e trova ogni possibile canale, segnale, linea telefonica, tutto quello che serve per poter comunicare, che sia un cellulare, una radio, la tv... Tutto. L'ho chiamato "Diogene". È infallibile, te lo garantisco. L'ho potenziato e l'ho acceso ieri pomeriggio...»

«E non...»

«Non ha trovato nulla, se non questa misera porticina che ho appena usato. E che si è chiusa per sempre!»

«Ma se ha distrutto ogni via, Ismel intendo, come è possibile che tu sia riuscito a chiamare Alberto? Anche se solo per qualche secondo? Forse potremmo riuscire...»

«Alberto aveva un telefono costruito da me, un telefono diverso da tutti gli altri, uguale in tutto e per tutto a quello che ho usato per chiamarlo. Entrambi i dispositivi viaggiano una linea che usavamo all'epoca della fabbrica, una linea che nessuno poteva intercettare perché è ben nascosta e criptata. Forse è per questo motivo che era ancora attiva e sono riuscito a usarla. Non so dirtelo con certezza. Dicono sia un genio, ma non posso competere con gli extra-terrestri ancora.» Sorrise. «So solo che, usandola, l'ho rivelata del tutto. Ora anche quella è andata. Non so come abbia fatto, ma quel tizio non solo ha oscurato ogni tipo di comunicazione; ha fatto in maniera di bloccare anche qualsiasi tentativo facciamo per ripristinarle. Sospetto che abbia usato mezzi non terrestri, quindi impossibili da scoprire e annullare! Siamo completamente muti. E io ho fallito.»

«Non dire così, zio. Hai fatto quello che hai potuto. Qualche informazione l'hai ottenuta, mi pare.»

Franco sollevò la testa. Gli occhi, seppur velati di tristezza e rassegnazione, emettevano un tenue luccichio. «Sì! Mi ha detto che ha già trovato due scrigni ed è alla ricerca degli altri con uno di loro.»

Francesca batté le mani. «Bene! Bravo amore!»

«Inoltre...» Il vecchio schiacciò un pulsante alla sua destra. Da un piccolo altoparlante uscì la voce di Monica. «Cosa c'è?»

«Raggiungici subito, per favore.»


Masi e René ci misero poco più di quattro ore ad arrivare in cima alla "Vetta del Lupo"; il capitano, a parte un po' di fiatone, pareva avesse appena fatto una passeggiata al parco; il suo compagno, invece, arrivò stravolto e dovette restare due minuti buoni piegato sulle ginocchia per recuperare fiato. Era comunque piacevolmente sorpreso delle evidenti differenze che c'erano state con la precedente scalata, quella fatta in compagnia dei due fratelli, nel tentativo di riportare il detenuto AR396 all'abbazia. Quella volta aveva impiegato molto più tempo, fermandosi più di una volta e arrivando in cima completamente distrutto. Stavolta aveva fatto tutta una tirata; era stanco, certo, ma nella norma. E mentre ansimando guardava il suo capitano, in piedi appoggiato a un albero, sorrideva.

«Dopo questa curva?» chiese Masi, indicando il sentiero che svoltava a destra, davanti a lui.

«Sì, capitano, ma stiamo attenti. È pieno di telecamere. L'altra volta è così che hanno saputo del nostro arrivo.» Quasi non avesse parlato, René lo vide avviarsi a passo svelto e sicuro, e, svoltato l'angolo, sparire. «Porca troia!» mugugnò il tedesco, affrettandosi a seguirlo.

Lo raggiunse proprio al limitare dello spiazzo che sovrastava l'intera vallata, dove si era fermato.

«Capitano! Dobbiamo stare attenti o scopriranno subito che siamo qui.»

Masi gli lanciò un'occhiata divertita, di puro disprezzo. «Che cazzo te ne frega, idiota! Non possono contrastare i nostri poteri. Lascia che provino pure a difendersi; anzi, sarà più divertente per noi. O hai paura?»

«Io? Paura di un vecchio e di due troie? Una delle quali, per giunta, vecchia e grassa come un maiale?»

Masi ridacchiò. «La vecchia, grassa come un maiale, ti ha messo sotto la volta scorsa, però.»

«Mi ha preso alla sprovvista. Ed è stata aiutata dall'uomo che lei, capitano, si è fatto sfuggire da sotto il naso.» Si rese conto di quello che diceva solo quando ormai gli era uscito dalla bocca. Non vide nemmeno il braccio partire; il pugno di Masi lo colpì in piena faccia, facendolo ribaltare all'indietro.

«Pezzo di merda! Come ti permetti?» gli ringhiò contro, afferrandolo per il bavero e preparando un nuovo colpo.

«Mi scusi, capitano, mi è uscita senza volerlo.» piagnucolò René, cercando di coprirsi la faccia con la mano destra.

Un suono, proveniente dal basso, pose fine alla tenzone. Masi mollò la presa e si voltò, mentre l'altro, asciugandosi il sangue dal labbro che si stava già gonfiando, si appoggiò all'altra mano per sollevarsi quel tanto che bastava per osservare.

Qualcuno aveva spalancato il grande portone della rimessa e stava uscendo, lentamente, con la locomotiva. La macchina curvò, seguendo i binari e, posizionatasi sul lungo rettilineo che usciva dalla valle, acquistò progressivamente velocità. Davanti alla porta della baita c'era Francesca, la donna che era stata il loro direttore, la donna a cui per anni avevano obbedito e che, inspiegabilmente, era riuscita a scivolargli via dalle mani, quando ormai credevano di averla afferrata per bene. Il loro padrone si era infuriato per questo; aveva ordinato loro di catturarla e portarla da lui, ma Masi non era riuscito a tenere a freno i suoi impulsi. Ismel aveva concesso loro (ma principalmente a lui) una seconda possibilità; non avrebbe tollerato più nessun errore. Era stato chiaro su questo.

Vederla laggiù, indifesa e indebolita, ma apparentemente tranquilla nonostante tutto, faceva ribollire il sangue nelle vene al capitano. René lo sapeva e lo teneva d'occhio, tenendosi pronto a intervenire se Masi avesse sgarrato. Ismel lo terrorizzava e non voleva deluderlo ancora una volta.

Francesca alzò la mano e salutò il conducente della locomotiva che, in un attimo, sparì dentro la gola. La donna rientrò in casa.

Masi fece due passi avanti, fissando la vallata intensamente.

«È da sola, capitano?» chiese René, avanzando pure lui e guardandosi intorno per cercare le telecamere che l'avevano tradito la prima volta. Erano ben nascoste, ma riuscì a individuarne due.

«Non credo! C'è anche il vecchio. È malato, è' rischioso spostarlo. No. C'era solo la grassona sul treno.»

«Ma... e dove va?»

«Che cazzo te ne frega! A noi interessano la donna e il vecchio. Sono gli ordini del nostro padrone e loro sono là, soli e indifesi. Piuttosto, sei stato già là dentro. Racconta!»

«Cosa?»

«Cosa hai visto, imbecille! Dove potrebbero nascondersi! Se hanno armi! Pezzo di idiota!»

«Non ho visto molto a parte la fabbrica piena di roba strana, e la stanza dove ho passato la notte, legato. C'è una botola là dentro che sbuca in una camera da letto della baita. È da lì che siamo passati. Altro non so.»

Non aveva ancora chiuso la bocca quando l'antenna fatta a stella, in cima alla torretta che sovrastava la fabbrica, cominciò a girare su sé stessa, lentamente, emettendo un ronzio ovattato, flebile, ma tale da coprire ogni altro suono proveniente dalla vallata.

«Adesso che succede?» René strabuzzò gli occhi, mentre Masi li strinse, accigliando lo sguardo.

Nello stesso istante in cui la velocità con cui l'antenna stava vorticando aumentava, dal terreno, davanti al complesso, cominciarono a spuntare diversi pali neri, allineati a circa due metri l'uno dall'altro, a una decina dalla fabbrica e dalla baita. I due uomini vedevano solamente quelli nello spiazzo sotto di loro, ma Masi, che intuiva cosa stava succedendo, immaginò che dovessero essercene altrettanti dall'altro lato. Dalla punta dell'antenna, che sembrava aver raggiunto la velocità massima, cominciarono a irradiarsi piccoli raggi, che si collegarono, come fossero fili argentati di ragnatela, ciascuno a ogni palo, mentre ancora si stavano sollevando dall'erba. Poi, d'un tratto, il ronzio cessò e i pali si fermarono. Alti all'incirca tre metri, neri come la pece, riflettevano la luce del sole. Ci fu un sibilo, come lo sbuffo di un treno quando si ferma, poi, da quello all'angolo sinistro (rispetto alla posizione di Masi e René) saettarono fuori altri raggi, orizzontali, che lo unirono a quello più vicino. L'operazione si ripeté per ogni palo finché l'intero perimetro fu completamente recintato. Sembrava di vedere il tendone di un circo, trasparente. René era a bocca aperta, incapace di formulare qualsiasi commento e fissava Masi che, stringendo forte i pugni, digrignava furiosamente i denti. "Se pensano di scamparla in questo modo, hanno fatto male i conti." pensò, rendendosi subito conto, però, di non essere stato lui a formulare il pensiero.


Veronica era seduta nell'erba, nello stesso punto dove, solo un'ora prima, si era baciata con Andrea; con le ginocchia al petto tenute strette dalle braccia e il mento appoggiato, guardava il ragazzo scavare, aiutato da Camilla. I corpi di Dalila e Giancarlo giacevano a fianco, nella loro forzata attesa di essere seppelliti, per sempre.

Se per portar fuori il corpo della donna erano bastati Andrea e Camilla, per il vecchio erano stati necessari anche Veronica e Laura. Quest'ultima aveva aiutato scura in volto e con le lacrime agli occhi; aveva insistito fino alle urla per partire subito, correre dietro a "quell'infame" e riprendersi Marta, prima che potesse farle del male. Sia Veronica che Andrea l'avevano rassicurata sul fatto che, sicuramente, l'aveva presa solo come ostaggio, da vigliacco qual era. Per quanto fosse consapevole che in quel momento la bambina era sicuramente spaventata a morte, Laura doveva capire che Dalila e Giancarlo andavano seppelliti. Le aveva preso le mani, dolcemente ma con fermezza, e incurante dei sessanta e forse più anni che le separavano, l'aveva zittita. «Non lascio mia mamma a marcire su questo pavimento! Non voglio nemmeno discutere. Prima li sotterriamo e poi andiamo da Marta.» La vecchia aveva taciuto con gli occhi gonfi di lacrime. Aveva aiutato a portare fuori il corpo di Giancarlo, poi si era messa a raccattare e a infilare dentro alle borse tutto quello che potevano portarsi dietro. Lo shock provocato dalle morti di Dalila e soprattutto di Giancarlo, oltre al rapimento di Marta, sembravano averle fatto dimenticare Dio. Nessuna preghiera fu detta sulle tombe improvvisate.

Veronica fissava i due ragazzi che lavoravano. Avrebbe voluto aiutarli, ma Andrea le aveva detto di sedersi e lasciare fare a loro, accompagnando le parole con una fugace carezza sulla spalla della ragazzina. Qualcosa di simile all'odio era fiammeggiato per un attimo negli occhi di Camilla, un odio rancoroso, velato di tristezza profonda. Veronica l'aveva visto e ne era rimasta turbata. I pensieri vorticavano nella sua testa, agitati come una mosca rinchiusa in una piccola scatola di vetro; rimbalzavano, cadevano, tornavano, ognuno con ferocia, per imporsi sugli altri. Il bacio con Andrea, lo sguardo di Bito, la piccola Marta, gli occhi di Camilla. E poi il corpo di Giancarlo, immobile di fianco a lei; il volto di suo papà, rinchiuso nella bolla. Ma il più impetuoso, il più forte, quello che faceva più male, era Dalila. Una somma di pensieri accorpati tutti in uno, dal momento in cui l'aveva vista, ferma, davanti alla porta di casa, poco prima dell'arrivo della sentinella (sembravano passati mesi!), a quando era rimasta immobile, colpita dal raggio di Bito. Le immagini scorrevano nella sua mente come le pagine di un libro sfogliate a ventaglio, tormentandole il cuore che sentiva pesante, nel suo battere accelerato. Era calda, ma di un calore tenue che le procurava una gradevole sensazione di benessere e non la faceva sudare. Ed era una cosa assai strana vista la temperatura che c'era nell'aria. Era l'energia che aveva dentro, che si palesava quando provava forti emozioni, ma mai, fino a quel momento, nello stesso modo. Ma se si sentiva rilassata fisicamente, diverso era il suo stato d'animo. In quel momento, provava rabbia, paura e tristezza, ma in mezzo a tutto riusciva a riconoscere i palpiti dell'amore, per la prima volta nella sua vita. E la somma di questi contrasti la confondevano, tanto che passava da momenti di forti palpitazioni, mentre fissava i muscoli delle braccia di Andrea che si tendevano mentre affondava la vanga nella terra, a una sorta di cupa disperazione nel vedere la forma del corpo di Dalila, sdraiato nell'erba, coperto da un telo. Guardava gli occhi del ragazzo, scoprendo i fugaci sguardi che anche lui le lanciava e ripensava a quelli del suo papà, vuoti e spenti nella bolla. Improvvisamente era sparito anche il benessere fisico, sostituito da sgradevoli sensazioni. Cominciò a percepire un leggero dolore al basso ventre, ma non capiva cosa lo provocasse. Alzò la testa e si ritrovò Camilla, ferma, a pochi centimetri da lei. Aveva abbandonato la vanga vicino alla fossa, mentre Andrea continuava a scavare, apparentemente ignaro che lei non lo aiutasse più. Aveva in mano un barattolo di plastica, completamente bianco e sorrideva. Ma non era un bel sorriso. «Te lo vuoi scopare? Lui è mio, lo capisci? Mi costringi a chiudertela con la colla, puttanella!» e intanto le versava il liquido bianco, denso come crema, dritto in mezzo alle gambe, dove con orrore Veronica scoprì di non indossare più nulla, né i pantaloni, né le mutandine. Cercava di ribellarsi ma non riusciva a muoversi, mentre l'odore di colla le riempiva le narici sentendola fluire tra le cosce, entrarle nella vagina dove sembrava seccarsi all'istante. Provò a chiedere aiuto ad Andrea, ma o lei non riusciva a parlare o lui la ignorava. E Camilla rideva, rideva, rideva...

Aprì gli occhi! Il calore non c'era più, e la solita afa le mordeva la pelle, ora tutta sudata. Andrea e Camilla stavano ancora scavando e lei si sentiva bagnata tra le cosce. Si toccò con la mano, sicura di trovarsela sporca di colla; ma quello che scoprì furono dita bagnate e appiccicaticce. Capì e, senza dire nulla, si alzò, correndo via. «Veronica! Dove vai.» La voce di Andrea le corse dietro, ma lei non rispose, né si girò. Si rifugiò in bagno, dopo aver fatto lo slalom tra le macerie della sala. Abbassò i pantaloni e vide una chiazza rossa sulle mutandine. Il viso di sua mamma, la sua vera mamma, comparve davanti ai suoi occhi. "La mia bambina è diventata finalmente donna!" Nel turbinio di emozioni contrastanti che la stavano tempestando, scoppiò a piangere, singhiozzando, ora disperata, ora contenta.


Mezz'ora dopo erano pronti per partire. Seppelliti i corpi, Andrea si era chiuso in bagno con Camilla per aiutarla a medicare la bruciatura sulla spalla e per darsi una veloce ripulita. Veronica aveva sentito un ago pungerle il cuore, soprattutto vedendo lo sguardo compiaciuto di lei, quando erano usciti. Laura aveva caricato le borse sulla Polo di Roberto, aveva recuperato il fucile dalla camera di Giancarlo, non senza una furtiva lacrima di dolore per quell'uomo per cui aveva iniziato a provare una certa simpatia, l'aveva messo nel bagagliaio (per quanto potesse essere utile, non lo voleva avere vicino), poi si era messa al volante, attendendo impaziente i tre ragazzi, dando due piccoli colpi di clacson nella speranza di velocizzare le loro operazioni.

Prima di salire in macchina, Veronica diede uno sguardo triste alla casa, pensando al corpo di Dalila che sarebbe giaciuto là sotto, per sempre. Rivolse un affettuoso pensiero anche a Giancarlo, poi salì e lasciarono per sempre i "Ginepri".

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