1. American Dream

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Capitolo 1
American Dream

"Mr. Darcy: Signorina Elizabeth, ho lottato invano, ma non c'è rimedio... Questi mesi trascorsi sono stati un tormento, sono venuto a Rosings con lo scopo di vedervi, dovevo vedervi, ho lottato contro la mia volontà, le aspettative della mia famiglia, l'inferiorità delle vostre origini, il mio rango e patrimonio, tutte cose che voglio dimenticare e chiedervi di mettere fine alla mia agonia...

Lizzie: Non capisco.

Mr. Darcy: Vi amo con grande ardore... Vi prego, concedetemi la vostra mano. "

"I passeggeri del volo 424 diretti a Los Angeles con scalo a Parigi sono pregati di avviarsi verso l'imbarco"

Sentii una voce ovattata uscire dall'altoparlante dell'aeroporto. Misi in pausa il film che stavo vedendo per la millesima volta, posai tutto nello zaino e mi avviai al gate.
Vidi decine di persone passarmi accanto con fretta, come se temessero di perdere l'aereo.
Quella era una cosa che non riuscivo a spiegarmi. Esisteva davvero gente che stava più di un'ora, letteralmente, in fila in piedi davanti al gate aspettando che aprisse quando potevano stare comodamente seduti in attesa dell'apertura. Davano forse qualche premio? Assolutamente no. C'era pericolo di non trovare posto? Assolutamente no, di nuovo! In voli come quelli i posti erano già assegnati, ma nonostante tutto era più divertente arrivare per primi.
Scossi la testa dopo che l'ennesima famiglia mi superò con foga e con tutta la calma del mondo, nonostante la follia attorno a me, mostrai il mio biglietto all'hostess.
Tirai quasi un sospiro di sollievo quando entrai in aereo. Allacciai le cinture e chiusi gli occhi. Non avevo paura di volare ma farlo da sola per la prima volta e per un viaggio così lungo, mi metteva agitazione. O forse la mia ansia era dovuta alla nuova vita che stavo per affrontare.

Milano-Parigi-Los Angeles

Quattordici ore di volo e l'unica cosa di cui realmente avevo terrore era perdere le mie valige.
Mi ero portata letteralmente armadi sani, vestiti che probabilmente arrivata lì non avrei indossato nemmeno una volta.
Infilai le cuffiette nelle mie orecchie, presi una chewing per far sì che la pressione non le otturasse e feci partire la playlist dei Coldplay.
Viva la vida.
Presi dal mio zaino la brochure della UCLA e cominciai a sfogliare i suoi fogli quasi sbiaditi tante erano state le volte in cui la lessi negli ultimi mesi.
Studiare all'Università di Los Angeles era ciò che più sognavo da quando ho memoria. Pensare di varcare quelle immense aule, passeggiare tra i vialetti con grossi libri tra le braccia e rilassarsi sui prati verdi tra una lezione e l'altra mi faceva stare bene.

All'età di 13 anni dissi ai miei genitori, una sera a cena, che non appena avrei conseguito il diploma di maturità mi sarei trasferita a Los Angeles per studiare interior design proprio alla UCLA. Mio padre, Gianluca, non sembrò stupito dalla mia affermazione, infondo lo sapeva bene che quello non era il mio posto nel mondo. Mia mamma invece diede di matto. Cercò per giorni di convincermi a pensarci bene e che fosse ancora presto per prendere una decisione del genere, soprattutto perché secondo lei a 13 anni si è ancora troppo piccoli per capire cosa fare della prima vita. Ma, quando vide che da parte mia si stava solamente alzando un muro nei suoi confronti che stava per far sgretolare il nostro rapporto ci rinunciò, sperando sempre in cuor suo che potessi cambiare idea.
Ovviamente questo non avvenne.
Passai i 5 anni successivi a raccogliere qualsiasi informazione utile sull'università, a vedere i nuovi corsi, i nuovi professori. Probabilmente conoscevo più io quel luogo che chi effettivamente lo frequentava.

Quando aprirono le iscrizioni, scrissi quella domanda quasi tremando. Ero sicura delle mie capacità e quasi certa che non avrebbero fatto problemi nell'ammettermi.
Avevo dedicato tutta la mia vita in funzione di quella domanda e se qualcosa fosse andato storto, a oggi, non saprei nemmeno immaginare quale sarebbe stata la mia reazione.
Mandai l'iscrizione a ottobre.
Passai i due mesi successivi a controllare ogni singola busta ci fosse nella cassetta delle lettere.

E poi la lettera di ammissione.
Il giorno del mio 18esimo compleanno difficilmente potrò dimenticarlo.
Non erano tutti lì per me. Diciamo che quelli realmente interessati erano davvero pochi.
Mamma e papà mi diedero quella busta con le lacrime agli occhi.
Vidi che fosse già stata aperta ma poco mi importava in quell'istante. Strappai l'involucro di carta che conteneva sul dorso il timbro della University of California, Los Angeles e lèssi il contenuto.

"G.le Elisabeth Ferrari Collins, la presente per comunicarle che la University of California, Los Angeles, UCLA, è lieta di averla con noi per i prossimi anni e che la sua domanda di ammissione è stata accettata."

Piansi.

Ricordo ancora l'abbraccio della mia amica ma anche qualche occhiataccia rifilatami da quelle streghe di compagne di scuola che avevo.
<<Chissà quanto avrà sborsato la nonnina.>> avevano sussurrato abbastanza forte da farmelo sentire.
Non mi curai di loro.
Quando feci l'iscrizione avevo fatto anche domanda per una borsa di studio che mi venne pure accettata ma che mia nonna, Eleanor, rifiutò per vergogna.
<<Una Collins non ha bisogno della borsa di studio per andare all'università.>> mi disse una sera al telefono. Inutili furono le mie spiegazioni.

E quindi eccomi qui. Appena atterrata a Los Angeles, con le mie tre valigie tutte sul carrello, per fortuna, e un mega caffè americano di Starbacks in mano mentre aspettavo che i miei genitori accettassero la chiamata su FaceTime.

<<Alla buon'ora eh! Vi siete già dimenticati di avere una figlia dall'altra parte del mondo??>> dissi divertita non appena risposero.
<<Ellie. Come stai? Com'è stato il volo? Il caldo? Le valigie le hai tutte? Eleanor ti ha mandato qualcuno?>>
<<Victoria, smettila! Sta bene guardala!>> sentii mio padre rimproverare la moglie e sorrisi, perché tutto sembrava tranne un vero rimprovero.
L'amava più di ogni altra cosa, era evidente agli occhi di tutti. Nei miei 18 anni ho visto in lui lo stesso sguardo innamorato di sempre, pure durante qualche futile discussione.
Si, potevo urlare a gran voce che nella mia vita desideravo un matrimonio come il loro, pur sapendo che forse, a oggi, ne esistevano davvero pochi amori così.

<<Mamma sto bene! Fa caldo, ma lo sopporto. Le valigie sono tutte integre e qui con me e la nonna dovrebbe avermi mandat->> mi interruppi strizzando gli occhi nell'osservare la figura di un uomo paffutello vestito per bene con in mano un foglio con su scritto Miss. Collins.
<<Mamma, papà, è appena arrivato George. Andate a dormire tranquilli! Ci sentiamo più tardi.>> prima di chiudere sentii mia madre dire "pover uomo", riferendosi al signore che mi aspettava davanti ad una Tesla grigia brillante. Risi e raccattai tutti i miei bagagli dirigendomi verso di lui!
<<George!>> sorrisi alla sua vista e gli feci cenno con la mano.
George era un uomo alto, impostato e con il viso più buono che abbia mai visto.
Lavorava con nonna Eleanor da 25 anni, mi vide letteralmente crescere.
In tanti momenti della mia vita avrei desiderato la sua pazienza perché credetemi, per avere a che fare con mia nonna ce ne voleva da vendere.

Vidi la sua buffa figura fare un saltello e alzare sino ai capelli brizzolati i suoi occhiali scuri.
<<Signorina Elisabeth? La ricordavo più piccola! E con un accento più italiano!>> sorrise alla mia vista e mi tolse subito dalle mani le valigie!
<<Oh George, saranno pure passati 7 anni ma non puoi dimenticare che odio essere chiamata così.>> vidi il suo viso arrossarsi leggermente per l'imbarazzo.
<<Mi perdoni signorina Ellie. Allora che dice? Andiamo? Sua nonna la sta aspettando.>> annuii sbuffando leggermente, tanto che George se ne accorse e sorrise, mentre mi chiudeva lo sportello della macchina.
Durante tutto il viaggio verso Beverly Hills, scrutai fuori dai finestrini scuri il panorama. Quante cose erano cambiate in questi sette anni. Decine di palazzi nuovi, negozi e grandi catene tutte a distanza di pochi metri. Abbassai il finestrino nonostante l'aria condizionata accesa e mi feci avvolgere da quell'aria calde e frizzante della California. Mi erano mancati i colori, gli odori.
Mi erano mancate le persone che ti sorridono senza conoscerti, che non ti guardano come se fossi una pazza con la testa fuori dal finestrino a far svolazzare i miei capelli lunghi e castani, ma come una ragazza di 18 anni piena di vita.
Amavo l'America, mi sentivo a casa.

Varcammo il grosso cancello bianco con decori oro di casa Collins dove davanti davanti la porta di ingresso vidi lei ad aspettarmi: nonna Eleanor.
Mia nonna era una delle donne più importanti della città di Los Angeles, conosciuta anche nel resto della California. Avvocato ormai in pensione poteva vantare la nomea di non aver mai perso una causa in tribunale nella sua vita, su quelle familiari invece potevamo scrivere libri interi. Testarda, saccente e con una spiccata dote di persuasione era riuscita in poco tempo a racimolarsi il rispetto delle più nominate famiglie Californiane, il tutto condito dal matrimonio con mio nonno Steven, ex rettore della Berkeley.
Scesi dalla macchina e la scrutai nel suo perfetto completo Chanell.
<<Elisabeth cara, quanto sei cresciuta.>> mi accolse a braccia aperte dandomi due baci sulle guance. Quello era il massimo affetto che probabilmente potevo ottenere dalla nonna.
<<Ciao nonna! Sei sempre più bella!>> lei amava essere lusingata.
Si stupì probabilmente del mio accento.
<<Wow! Non pensavo che tua madre continuasse ad insegnarti la lingua, dato che ha rinnegato tutto.>> disse l'ultima frase con astio, ma la ignorai.
Effettivamente, negli ultimi anni, le nostre conversazioni avvenivano via messaggio o via email. Non riusciva a rispettare le ore di differenza tra America e Italia e per evitare mi scriveva raramente concise email per sapere come stavo.
Qualcosa cambiò quando le dissi dell'ammissione, come se fosse felice che un pezzo della sua famiglia tornasse a casa.
Ma ovviamente era solo una mia sensazione, sia mai mostrasse debolezze.
<<Mamma non ha smesso un attimo di parlare inglese con me, nonna.>>
<<Almeno questo! Ad ogni modo, ho fatto preparare un rinfresco a bordo piscina! Seguimi.>> mi tirò quasi per un braccio e vidi le donne di servizio sorridermi mentre si accingevano a recuperare le mie valigie.

Il giardino di nonna era impeccabile, come sempre. Una grande piscina avvolta dal prato verde perfettamente tagliato, splendeva sotto i raggi del sole. Sulla destra, oltre le sdraio, si trovava il patio coperto da leggere tende di seta bianca che svolazzavano grazie alla sottile corrente frizzante. Al di sotto un lungo tavolo di legno bianco apparecchiato alla perfezione per un brunch di almeno 10 persone, peccato che eravamo solo in due.
<<Signorina Elisabeth, posso versarle del succo?>> mi chiese la cameriera sorridendomi dolcemente.
<<Oh ti prego, Ellie va bene. Chiamami solo Ellie.>> lei continuò a sorridermi come se non le interessasse quello che le avevo appena detto e mi versò in un bicchiere la bevanda.
Quando sentii la pesante presenza di nonna Eleanor dietro di me mi girai con un filo di timore.
<<Allora bambina cara, ho organizzato una splendida giornata! Tra poco andremo dai Bennett, la moglie non vede l'ora di conoscerti. Poi alle 16:00 in punto abbiamo appuntamento dal parrucchiere perché alle 17:00 dobbiamo andare alla fondazion->> la mia testa improvvisamente si offuscò e cominciai a sentire la voce di mia nonna che ripeteva cose sconnesse tra di loro.
<<Nonna. Nonna. Nonna. NON->> si fermò al mio ennesimo richiamo <<ti prego, ho bisogno di riposare. Il fuso orario mi sta già dando alla testa e non ho intenzione di svenirti qui sul patio.>>
Eleanor strinse la bocca non appena capì che le avevo rovinato i piani della giornata. Generalmente nessuno si opponeva alla volontà della nonna. Sforerai uno dei miei migliori sguardi languidi sperando di poter addolcire il suo cuore di pietra e, fortunatamente, anche se poco convinta annuì.
<<Va bene. Va a riposarti.>> mi liquidò velocemente con una carezza sul viso.

La stanza che mi aveva riservato la nonna per quelle poche sere era la stessa di sempre. Il lettino singolo accanto la porta dava su un enorme vetrata che si affacciava alla piscina.
Sulla destra ancora la cesta stracolma di vecchi giocattoli. Mi stupii quasi a vederli ancora lì.
Presi una vecchia bambola, Betty, e sorrisi al ricordo di quante volte la portai con me in giro per tutta la città. A lei raccontai i primi segreti.
Me la portai a letto e la strinsi.

Profumo di casa.

Mi buttai su quel letto pesantemente affondando la faccia sul cuscino.
Presi il telefono e mandai un messaggio ai miei genitori: "Qui tutto bene. La nonna.. è sempre la nonna ;) e Betty è ancora qui con me! Ora crollo, il fuso orario si fa sentire. Vi amo tanto."
Sorrisi appena inviai l'sms e chiusi gli occhi.
Crollai in un sonno profondo con ancora il sorriso sulle labbra. Ero felice.

Spazio autrice.

Allora che ne pensate della nostra Ellie?
Spero che questo primo capitolo vi metta un briciolo di curiosità e continuare a leggere la mia storia.

Un bacio, Gi.

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