Sunset Boulevard

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Sto fissando il soffitto quando la luce calda dell'alba entra dalla grande finestra sull'oceano.

Le minuscole particelle di polvere volteggiano lente nell'aria mentre il sole inizia a illuminare la stanza. Tutto è calmo: le onde si infrangono cadenzate sulla battigia, i gabbiani volano e si tuffano in acqua alla ricerca di qualche preda e le cicale friniscono leggere. La natura inizia a svegliarsi pigra e lenta, pronta a iniziare una nuova giornata.

Se dovessi usare una parola per descrivere quello che mi circonda userei: quiete.

Quiete... l'esatto contrario di quello che si agita in me da due giorni. Sono due notti che non dormo e sono altrettante quelle in cui mi sono ritrovata a ripercorrere lo stesso vicolo dove due giorni fa ho visto un uomo morire. Dove ho sentito parlare di una corte e ho visto lo strano graffito di una maschera d'oro.

Che cosa significano? Cosa è la Cohors Miraculi? Perché non se ne può parlare, ma poi ci sono strani simboli che ne rivelano almeno il nome? Ho provato a cercare altri graffiti nella stessa zona, tra i vicoli bui dietro ai bar, ma nulla.

Sempre e solo quella singola maschera dorata, messa lì in un angolo abbandonato e quasi invisibile agli sguardi di chi passa. Se mi fossi imbattuta nel disegno per caso, non gli avrei mai dato peso, visto che non è un graffito particolarmente elaborato, ma dopo quello che ho visto e sentito, voglio capire cosa si cela dietro.

Non me ne do pace, sento l'elettricità scorrermi nelle vene e i miei pensieri turbinano veloci e si impigliano continuamente in quella scena e in quella voce.

Roca, profonda, furente: chi si nasconde dietro a quel timbro? Cosa avrà mai fatto l'altro uomo per meritarsi di morire freddato in un vicolo buio di Los Angeles?

Domande su domande che sicuramente hanno risposte da cui, se avessi ancora un po' di buonsenso, dovrei stare alla larga.

Eppure, eccomi qui, ad arrovellarmi, non dormire la notte e passare per le strade più losche della città.

Un leggero colpo alla porta mi distrae dalle mie elucubrazioni e una testa bionda vi fa capolino.

«Buongiorno raggio di sole, sorgi e splendi», Niall spalanca la porta e mi rivolge uno dei suoi dolci sorrisi, gli stessi che mi dedica da quando siamo bambini. «Pronta per il grande giorno? A che ora devi essere lì?».

«Buongiorno Niall», gli rivolgo un sorriso tirato e il mio amico fa una smorfia, mentre si avvicina e si siede sul bordo del letto. «Alle dieci».

«Vedo che il sorriso da Joker continua a essere presente», mi lancia un'occhiata in tralice e io mi stringo nelle spalle. «Ma hai dormito? Hai una faccia!», i suoi occhi chiari si soffermano su tutto il mio viso.

No che non ho dormito, penso. Ma poi prendo un cuscino e glielo butto addosso.

«Sempre delicato, eh? Non ti hanno mai detto che non è gentile rivolgersi così alle signorine?», gli rivolgo un'occhiata divertita.

«E dove la vedi una signorina? Perché a me non sembra che tu possa rientrare in questa categoria», sogghigna furbo. «Dai su alzati che ho preparato la colazione», si dirige verso la porta e sparisce in cucina.

Mi alzo, stiracchiandomi, e vado verso il bagno. Guardo il mio riflesso allo specchio: Niall non aveva tutti i torti, non ho una bella cera, la pelle è un po' tirata intorno agli occhi e due mezzelune scure colorano la mia pelle pallida.

Se la notte dormissi anziché andare in giro avresti una faccia migliore!

Scuoto la testa e rilascio un sospiro. Mi lavo il viso e cerco di darmi una parvenza umana: sciolgo i capelli stretti nella treccia e provo a dare loro una forma. Intreccio i ciuffi per togliermeli dal viso e lascio le lunghezze sciolte sulla schiena.

Mi trucco appena, cercando di coprire le occhiaie e dopo aver finito di lavarmi e vestirmi, vado in cucina dove l'aroma di caffè si mischia a quello di brioches appena sfornate.

«Hai comprato le brioches?», chiedo stupita al mio amico, che mi porge una fumante tazza di caffè nero bollente.

Annuisce prendendo un sorso dalla sua tazza, «Sì ho fatto una corsa all'alba lungo la spiaggia e ho visto questa panetteria gestita da una ragazza bellissima e quindi ho pensato bene di entrare, presentarmi e prendere delle brioches», fa un ghigno furbo e poi un'espressione compiaciuta. «E poi, caso ha voluto, che avessi con me una penna e le lasciassi il mio numero», prende un altro sorso. «La vedo domani sera».

Alzo le sopracciglia e lo guardo da sopra la tazza, «Cioè, fammi capire, siamo qui da quanto... meno di due giorni e hai già fatto conquiste?».

Niall è sempre lo stesso, in ventisette anni di vita, non è mai stato seriamente fidanzato. Ha avuto un milione di ragazze, una più bella dell'altra, ma non è mai stato per davvero con nessuna di loro. Non che non lo metta in chiaro subito, anzi. Su questo è sempre stato molto sincero e tutte le ragazze con cui è stato, eccetto alcuni particolari casi che speravano di essere le prescelte, hanno accettato di buon grado la cosa e tutto è sempre filato liscio.

«Ovvio, devo far sapere in città che Niall Horan è sulla piazza», mi scocca un occhiolino e io scuoto la testa.

«Sia mai che qualche ragazza non lo sappia per tempo!», ironizzo e faccio un morso al croissant, che mi si scioglie letteralmente in bocca.

«Cazzo Niall, ma sono straordinari! Ti prego esci con questa ragazza per tutta la vita».

Il mio amico ride e fa schioccare la lingua, «Vedrò che posso fare. Ma tanto sai che sono troppo bello per una donna sola».

Alzo gli occhi al cielo, nonostante quello che dice sia totalmente vero. È davvero un bellissimo ragazzo, con quegli occhi blu e il sorriso perfetto, ma io non posso che vederlo come il ragazzino a cui colava sempre il naso e aveva le ginocchia sbucciate ogni due giorni.

«Signori e signori ecco a voi Niall Horan, il ragazzo più modesto di tutti gli Stati Uniti».

«Il ragazzo più modesto e sexy, vorrai dire», mi corregge prima di lanciare uno sguardo all'orologio che porta al polso.

«E anche in ritardo se non ci muoviamo. Forza finisci la brioche che ti accompagno al lavoro che poi devo schizzare al primo meeting con il cliente, forse oggi riuscirò a dargli un volto!».

Bevo l'ultimo sorso di caffè, mastico la brioche e lavo velocemente le tazze. Corro poi in camera a prendere la borsa, controllando di avere con me il cellulare e l'agenda.

Non sono nervosa, per nulla, il che è strano perché se fossi ancora la me stessa di prima probabilmente avrei lo stomaco chiuso e l'ansia alle stelle, mentre ora sono tranquilla e rilassata.

Non che sia un male, ci mancherebbe, ma la me di qualche tempo fa sarebbe stata eccitata e in fibrillazione nell'iniziare a lavorare in una delle più belle gallerie di Los Angeles, niente meno che sul Sunset Boulevard, una delle vie più icone della città degli angeli.

Invece ora l'unica cosa che desidero avere sia un riempitivo per le mie giornate, per permettermi poi di cercare quello che voglio la notte.

«Amalia, sei pronta?», mi richiama Niall e io mi affretto a seguirlo fuori di casa, chiudendomi la porta alle spalle e salendo sulla decappottabile.

Niall esce dal cancello, immettendosi in una delle strade che si snodano per la città. Ci muoviamo tra file e file di palme, terra bruciata dal sole e l'oceano cristallino. Guardo scorrere la vita intorno a me: c'è chi corre lungo i marciapiedi, chi si allena sul lungomare e chi invece passeggia tranquillamente con un caffè in mano e gli occhiali da sole calati sul viso, godendosi la giornata.

Passiamo vicino alla scritta di Hollywood e Niall alza la radio quando sente uno dei suoi pezzi preferiti. Dovrei essere elettrizzata, spensierata ed eccitata per tutto quello che fino a qualche tempo fa era il mio sogno, e invece guardo con un misto di nostalgia e tristezza quello che sto vivendo, come se fosse una cosa passata e che non mi riguardasse più così da vicino.

Accostiamo finalmente accanto a un edificio completamente fatto di vetro. Si sviluppa su due piani e delle grosse arcate incorniciano le immense finestre che permettono già dalla strada di vedere alcune opere esposte.

Quadri di ogni forma e colore si mescolano con sculture astratte, in un ambiente che, dove non è vetrato, è completamente bianco. Avevo già visto online la struttura, ma vederla dal vivo fa tutto un altro effetto.

«Però, mica male questo posto!», esclama Niall. «Sei o non sei la più grande stronza fortunata ad avere un amico come me?», si vanta poi e io gli do un colpo sul braccio.

«Un amico sempre più modesto, aggiungerei», lo prendo in giro, ma poi mi volto e gli sorrido, questa volta impegnandomi davvero, perché è grazie a lui se sono qui e non sono finita del tutto in un baratro di disperazione. «Grazie, Niall, per questo e... per tutto».

I suoi occhi azzurri si scaldano e un sorriso dolce gli si apre sul viso, «Vai Mali, fai vedere di che pasta sei fatta», mi scocca un bacio sulla guancia e io mi sento di nuovo per un attimo quella di prima, pronta ed eccitata per una nuova avventura.

«Ci vediamo stasera», lo saluto scendendo dalla macchina e facendo qualche passo sul marciapiede.

Sento la macchina allontanarsi e io faccio un respiro profondo prima di andare all'ingresso e suonare il campanello.

Pochi istanti dopo una figura longilinea, vestita completamente di nero, si avvicina alla porta sorridendomi, la apre e mi rivolge un sorriso, «Oh ciao! Tu devi essere Amalia», gli occhi azzurri del ragazzo sono gentili e un accenno di barba gli copre le guance. «Io sono Louis, il proprietario di questa bellezza».

Louis Tomlinson, uno dei galleristi d'arte più in voga del momento, compiuti da poco i trent'anni, a ventidue è stato indicato dal New York Times come l'astro nascente dell'arte contemporanea. Ha gusto, stile e vede il potenziale nei nuovi artisti ancora prima che questi si facciano in qualche modo pubblicità. È un genio fatto e finito e in questo momento sta rivolgendo a me i suoi affilati occhi azzurri, con un sorriso cordiale sulle labbra e una mano tesa, pronta a stringere la mia.

«Esatto», annuisco con una piccola scintilla di emozione nella voce. «Sono Amalia, è davvero un piacere conoscerla, Signor Tomlinson, e grazie mille per la possibilità che mi sta offrendo».

«Oh, tesoro, lascia il lei fuori da questa galleria e il signor Tomlinson era mio padre. Per favore chiamami Louis», mi stringe la mano e mi sorride ancora.

«Okay, Louis», gli concedo annuendo.

Mi conduce poi all'interno della galleria, dove passando intravedo diverse opere. Tutto è studiato nei minimi dettagli, dalle luci, ai pannelli, alla disposizione cromatica dell'allestimento. Proseguiamo poi lungo un breve corrido che finisce su uno studio immenso, anch'esso interamente di vetro, in cui si impone una massiccia scrivania nera e diverse sedie di metallo.

Louis si siede e mi fa segno di fare altrettanto. Apre poi un fascicolo in cui c'è il mio curriculum e il mio portfolio. «Sono molto contento di iniziare a lavorare con te, ho visto il tuo portfolio e curriculum, davvero impressionanti. Laureata a pieni voti, periodo di studio all'esterno e doppia laurea tra Firenze e Roma, con uno studio congiunto con Uffizi e Musei Vaticani», fa scorrere i suoi occhi chiari sulle carte e snocciola tutto quello che ho fatto e che a me sembra ormai un'altra vita.

Annuisco cordiale e cerco di stamparmi in faccia un sorriso quando alza lo sguardo e mi dice, «Sarai perfetta per l'esposizione e l'asta che gestiremo nei prossimi mesi».

«Grazie».

«No, grazie a te», sorride e poi inizia a parlarmi del lavoro, della retribuzione, di quello che si aspetta da me e di come dovrò lavorare.

«Vorrei che tu ti lasciassi ispirare dalla città, dai suoi artisti e ti perdessi in essa alla ricerca di qualcosa che vale la pena di essere esposto», continua a spiegarmi. «E poi vorrei che mi aiutassi a gestire i clienti, le loro richieste e soprattutto preparare con me la prossima asta che intendo fare».

Annuisco e prendo appunti su quanto continua a spiegarmi e un'antica fiammella di entusiasmo sembra di nuovo crepitare in me.

«Bene, credo sia tutto», dice dopo un'ora di spiegazioni e informazioni. «Adesso che ne dici di fare un giro per la galleria e familiarizzare un po' con gli spazi? Ti consiglierei di iniziare dall'ingresso e muoverti in senso antiorario fino alle scale e poi di salire al piano superiore», dice alzandosi e scortandomi alla porta. «Ho un incontro con un cliente ora, ma nulla di importante e quindi non ha senso che tu venga, ma da domani mi seguirai come se fossi la mia ombra», mi rivolge un occhiolino e poi esce con me.

Recupera prima però una ventiquattr'ore e mi segue nel corridoio per poi aprire la porta di ingresso e uscire, «Non aspetto nessuno, ma se dovesse arrivare qualcuno che mi cerca digli che non tardo troppo. Tu intanto goditi la galleria», mi sorride un'ultima volta e poi esce, lasciandomi sola.

Il silenzio della galleria è piacevole, la luce filtra dalle ampie vetrate e io mi prendo un attimo per osservare i giochi di luce sul pavimento. Dopo qualche istante, faccio come mi ha detto Louis: vado all'ingresso e inizio il tour. Vengo subito colpita dalle scelte fatte nell'allestimento: quadri antichi si mescolano con oggetti di design contemporaneo andando a creare un contrasto che risulta però armonioso. Riconosco alcune delle opere e rimango sbalordita quando vedo alcuni pezzi dal valore inestimabile.

«Cavolo, chissà come ha fatto a ottenerle ed esporle qui», mi dico tra me e me quando scorgo una matita di Leonardo Da Vinci, vicino a un'anfora moderna. Salgo poi le scale e mi accorgo che il motivo del piano terra si ripete anche lì sopra. Guardo i dipinti che a una prima analisi daterei tra XVII e XVIII secolo e uno in particolare colpisce la mia attenzione. Non mi sembra di averlo mai visto eppure il tratto è inconfondibile.

«Non è possibile», dico tra me e me. Riconosco i colori, le forme, il tratto e l'uso della luce... tutte caratteristiche che mi fanno pensare a un unico e solo artista: Caravaggio.

Eppure, mai nella mia carriera mi sono imbattuta in questo dipinto. Rappresenta un sobborgo, sembra la periferia di Parigi a un primo sguardo, e un gruppo di mendicanti è attorno a un fuoco. I volti scavati, le membra sottili e un senso di malessere e malattia permea la tela.

Lascio scorrere lo sguardo su tutto il dipinto, cercando di capire se in qualche maniera possa davvero dire che si tratti di un dipinto dell'artista, magari andato perduto e poi ritrovato.

Mi fa strano però, Caravaggio era solito dipingere soggetti perlopiù religiosi, e questo... beh, non è proprio vicino alle sue rappresentazioni.

Sono talmente immersa nell'osservazione dei dettagli che non mi rendo conto dei passi che si avvicinano alle mie spalle, fino a quando una voce non arriva alle mie orecchie.

«La cour des miracles», dice solenne in francese e io, a quelle esatte parole, non posso che voltarmi con il cuore in gola.

La corte dei miracoli?

Un paio di occhi verdi, incastonati in un viso cesellato, sono già fissi su di me e quando i nostri sguardi si incrociano, un sorriso pigro e lento si apre sul volto dello sconosciuto alle mie spalle, andando a rivelare due fossette che gli scavano le guance e che sono in netto contrasto con la linea tagliente della mascella.

Non so per quale motivo, ma un brivido mi percorre la spina dorsale e il cuore inizia a battermi furiosamente nella cassa toracica.

Adrenalina. Pura e semplice adrenalina.

«Salve, io sono Harry W. Styles», si scosta un ciuffo castano dalla fronte. «E quello che sta osservando con tanta ammirazione è il mio prossimo investimento».


***

Ciao! Sono di nuovo qui! Strano, eh?

Eppure oggi avevo un po' di tempo e avevo voglia di andare avanti con questa storia, che spero che vi stia intrigando almeno un po'.

Avete qualche congettura? Che cosa è secondo voi La corte dei miracoli? E chi è questo nuovo e tenebroso personaggio?

Fatemi sapere che ne pensate;)

A presto!

A. x

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