Capitolo 10

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Non m'importa ora di fingere

Il mio sguardo lo sai leggere

Ci sono cose che non sai nascondere

Ci sono cose tue che non so piangere

Magari io sapessi perdere

Senza mai dovermi arrendere

- Tiziano Ferro


Trascorse due giorni nel silenzio e nel buio assoluto della propria camera, a riflettere. Irina gli aveva portato cibo e acqua, che se ne stavano sul comodino come una minaccia. Sembravano voler testimoniare che ciò che aveva osservato Adam era vero, eppure lui si rifiutava ancora di crederci.

Non aveva mai conosciuto bene persone che soffrivano di anoressia, ma ricordava che una delle ragazze con cui era stato si obbligava a vomitare per non ingrassare. Ai tempi l'aveva trovato disgustoso e infinitamente stupido, una stranezza da cui stare lontano, da guardare dall'alto verso il basso. Adesso vedeva la cosa in maniera diversa.

Il timore di ingrassare era la causa più diffusa dell'anoressia, ma di certo non era il suo caso, dal momento che lui desiderava l'opposto. Com'era diventato così, quindi? Era un effetto della depressione – o, come l'aveva chiamata Adam, principio di depressione – oppure era il contrario?

Accidenti. Ne sapeva meno di niente. E Adam sapeva troppo. Ma non poteva chiedergli delucidazioni o avrebbe incoraggiato ciò che stava facendo. E non era ciò che voleva.

Si era sentito esposto, come fosse stato immobilizzato ed esaminato in ogni centimetro del proprio corpo, senza più segreti. Ne era la prova il fatto che quel ragazzo aveva scoperto cose di cui nemmeno lui era a conoscenza.

Contemplò il vassoio che aveva portato Irina, da cui aveva già preso dell'acqua un paio di volte. Non aveva idea di quanto fosse passato, non riusciva a scandire le fasi del giorno perché le persiane erano chiuse, e la fame e il sonno che non funzionavano a dovere non lo aiutavano a stabilire il trascorrere delle ore.

Le pesanti definizioni che aveva letto tornarono ancora una volta a pesare sul suo animo tormentato, perciò cercò di mandare giù qualcosa per dimostrare a sé stesso che non aveva alcun problema. Inutile: fu costretto a strisciare fino al bagno.

Nel water fu rigettato tutto il suo dolore fisico e mentale, impreziosito di qualche lacrima salata. Per un lasso di tempo indefinito rimase lì, rannicchiato con la testa tra le ginocchia e il pavimento freddo che gli mordeva la pelle nuda, finché gli occhi non gli si chiusero e nuovi incubi fecero la loro apparizione nel suo tremulo riposo.

*

Era tornato a scuola la mattina del terzo giorno, dopo essersi reso conto che non avrebbe potuto continuare così. Doveva fare qualcosa, altrimenti sarebbe finito davvero a esplorare i disagi di cui quei maledetti libri parlavano.

Pur essendo finalmente uscito, non aveva voluto vedere nessun componente del proprio nucleo familiare, e si era sforzato a restare appiccicato a Grant così da non avere disturbi.

In questo modo trascorse anche le giornate seguenti. Grant divenne la sua ala protettiva senza nemmeno accorgersene, e dopo i primi tentativi Mya capì che aveva bisogno di spazio e non provò più ad avvicinarsi a forza.

Non si arrese; insistette e nel giro di una settimana fu in grado di mantenere qualcosa nello stomaco, anche se con gran difficoltà. Ma non aveva altra scelta che forzarsi, necessitava di sostentamento per camminare di nuovo.

In compenso, i suoi allenamenti procedevano. Assimilando quel poco che riusciva, il suo corpo rispondeva bene e, sebbene fosse faticoso e a volte apparisse impossibile, mosse qualche passo verso la propria libertà, spinto più dalla disperazione che altro.

Sua madre lo scrutava. Sapeva che non poteva nasconderle che aveva allontanato Mya, e in realtà non era neanche sua intenzione: era stata lei, d'altronde, a cederle quella cartella, che invece avrebbe dovuto custodire.

Fu un venerdì pomeriggio, tornato da qualche ora da scuola e pronto a iniziare la sua terapia segreta, che si ritrovò Louise alla porta. Ormai non voleva vedere la maggioranza degli abitanti della villa, quindi fu quasi sollevato che fosse lei e non qualcun altro.

«Posso entrare?» gli chiese, sorprendendolo.

La guardò senza riuscire a focalizzarla bene per via della troppa luce che arrivava dal corridoio, esagerata per i suoi occhi finora abituati all'oscurità della stanza.

Si scostò e la lasciò passare, poi si premurò di lasciare fuori la luminosità fastidiosa. Nonostante ciò, il suo tentativo di ridurre il disturbo fu vano: nel giro di pochi istanti Louise scansò le tende e spalancò le persiane.

Alec gemette mentre l'ambiente veniva inondato dal vento frizzante del pomeriggio, che gli pizzicò la pelle. Fece per lamentarsi, ma quando, tra le ciglia abbassate, scorse la donna venirgli incontro, si zittì.

«Era proprio il caso di aprire qui» osservò la madre, una punta di rimprovero nella voce.

Borbottò qualcosa in risposta, togliendosi dal cono diretto della luce per ripararsi in un angolo più sopportabile. Si domandò cosa volesse Louise a parte rompergli le scatole. Aveva già qualche idea, ma non sembrava aver in programma di sgridarlo per il suo distacco da Mya. Appariva tranquilla, fin troppo, quindi non sapeva cosa aspettarsi.

La signora Callaway scostò la sedia dalla scrivania e vi si sedette con eleganza. «Questo disordine non va bene, Alec» lo riprese, ma senza austerità. «Se uscissi dalla camera, almeno Irina potrebbe sistemare.»

«Non mi va» replicò distogliendo lo sguardo. Rabbrividì per l'aria che entrava nel suo rifugio. Non vedeva l'ora di tornare al buio di prima.

«Alec» iniziò lei, più seria. Eccola che iniziava. Alec si preparò alla ramanzina che lo attendeva, ma quando la capofamiglia Callaway proseguì rimase stupito. «Io e tuo padre siamo preoccupati per te. E anche Mya lo è.»

«Al diavolo Mya!» gli sfuggì. Ora si metteva pure a compatirlo, dopo ciò che aveva fatto.

Per un attimo ebbe paura di distruggere il piano con quelle parole, poi ricordò a sé stesso che non stava più fingendo, era tutta realtà. Alla fine decise che non gli interessava più di come sarebbe andata, tanto qualsiasi cosa fosse accaduta lui avrebbe comunque perseverato nell'intento di andarsene.

«Non parlare così, Alec! Quella ragazza sta davvero soffrendo per te, ha dimostrato di tenere a te così tanto da mettersi in una posizione scomoda, e tu continui a non farci caso!»

«Me ne accorgo, cosa credi?» esplose, la mente rivolta più verso Adam che Mya. Ce l'aveva con lei per aver ficcato il naso dove non doveva e aver rimediato quella cartella, ma il vero artefice di tutto era stato suo fratello, ed era questo che lo feriva giorno dopo giorno. Perché non aveva saputo lasciar perdere e accettarlo per com'era? «Me ne accorgo» ripeté, «ma allo stesso tempo, vorrei che le persone mi stessero accanto per ciò che sono qui e ora, non per ciò che c'è scritto su un pezzo di carta.»

Louise gli indirizzò un'espressione dolce, avrebbe osato dire... materna. Ma lui la conosceva bene, quindi non si lasciò ammorbidire.

«Lei non ha fatto niente di male, figlio mio.»

Aprì bocca, ma non seppe replicare. Si rese conto che in realtà aveva già perdonato Mya, la furia che lo spingeva era generata da Adam. Ma non poteva dirlo a Louise, anche perché ciò non significava che volesse tornare a stare con lei. Non in quel momento, non con ciò che gli vorticava nella testa.

«È stata lei a chiederti quel fascicolo. L'ha fatto senza il mio permesso, senza neanche dirmelo. Lì dentro erano contenuti dati che avrebbero dovuto restare personali» disse, più calmo di prima.

Louise annuì, sbalordendolo. Era in attesa della sua sfuriata, ma questa sembrava non arrivare. «Sì, è vero, sono dati strettamente riservati. Ma lei è la persona a te più vicina, colei con cui dovresti condividere tutto. È ora che superi quel fatto, e chi meglio della tua futura moglie può aiutarti? Non ci sarà mai nessuno pronto a sostenerti come lo è lei, dalle un po' di fiducia.»

Rimase spiazzato. Proprio lei gli stava dicendo tutto ciò, che di sicuro non amava Stephen e non l'aveva mai amato. Era così evidente che se n'era accorto sin da piccolo. Però, a pensarci, non si erano sposati per quello? Pe sostenersi a vicenda? Forse anche per loro era stato più facile così, esattamente come lui aveva ipotizzato riguardo il suo matrimonio con Mya. E forse, anziché l'amore, li legava una specie di "accordo" non scritto di sostenimento reciproco. Anche se gli risultava difficile immaginare suo padre chiedere qualsiasi cosa e sua madre accorrere.

«Perché mi parli così? Io... non ho niente da superare. E non ho di certo bisogno di aiuto» stabilì mentre scuoteva il capo. Aveva sempre agito da solo, aveva superato ogni problema da solo. E questo, comunque, non era un problema. Solo una macchia facente parte del suo passato. Non importa quanto si sforzava, questa si allargava fino a sporcare anche il suo presente. Ma se lui poteva fare qualcosa per fermarla, l'avrebbe fatto, ecco perché si era adirato quando Adam aveva tirato fuori la sua cartella clinica. Era qualcosa che apparteneva al passato, che non doveva vedere nessuno.

«Oh, Alec. Abbiamo sempre evitato di parlare dell'incidente perché so che ti fa stare male, quindi non ti forzerò e chiuderemo qui l'argomento. Però c'è qualcuno con cui puoi aprirti, qualcuno di cui devi fidarti, perché quella è la persona che ami e che ti ama, e credimi, è una fortuna immensa averne una così al proprio fianco. Non c'è nulla di male nel ricevere aiuto ogni tanto, fa parte della vita e della coppia che siete. Arriverà il momento in cui anche tu aiuterai lei, ti sembra forse una brutta cosa?»

Non c'era niente da fare, non riusciva a focalizzarsi su Mya, continuava a rigirare tutto su riflessioni riguardo a Adam. Attribuì ogni parola al Brass sbagliato, ma non poté farci nulla: la sua mente andava da sola. Se Adam lo aiutava, la cosa lo infastidiva. Lui non aveva mai ricambiato, però gli sarebbe piaciuto.

«No» rispose puntando lo sguardo a terra.

«Bene.» Louise parve soddisfatta, come se il suo discorso avesse raggiunto il risultato sperato. Forse era proprio così: pensare a Adam e a come aveva sempre desiderato fare qualcosa per lui l'aveva portato a rivalutare un po' la situazione, anche se l'ira non era scemata. Ma avrebbe dovuto ascoltare le sue motivazioni.

Alec alzò gli occhi e li puntò su di lei, che si stava alzando dalla sedia, come se il suo compito lì fosse concluso. La loro conversazione era stata tanto pacifica da risultare quasi surreale, ma per la prima volta si era sentito a suo agio con la donna che l'aveva messo al mondo, quindi che volle richiamarla.

«Mamma?» Louise si voltò incuriosita. Era raro che la chiamasse così. Era raro che si rivolgesse a lei in modo così diretto, in realtà. «Che cosa accadrebbe se io non volessi sposare Mya?»

Non sapeva perché le avesse porto quella domanda. Gli era sfuggita e si era pentito immediatamente di non essere riuscito a controllarla, ma ormai il dado era tratto e non poteva tirarsi indietro. Rimase a fissarla, un po' intimorito.

«Oh, Alec. Non fare così, litigate temporanee capitano. So che a quest'età non è facile, ma pensare subito di rompere non è la soluzione. Vedrai che tutto si sistemerà.»

Alec si morse un labbro per impedirsi di perseverare, ma una fiammella viva nel suo petto lo spinse a parlare comunque. Non era mai stato davvero a conoscenza di ciò che sarebbe successo, desiderava conoscere a fondo le rinunce a cui stava andando incontro con la sua decisione di non combattere. «Sì, ma... vorrei sapere cosa accadrebbe. È solo un'ipotesi.»

La donna si irrigidì e ogni disagio provato con lei in passato tornò a pesare su di lui. Capì di aver sbagliato a insistere quando sentì il tono severo che conosceva bene.

«Alec. Io e tuo padre abbiamo bisogno di voi per il bene della nostra famiglia. Abbiamo fatto tanti sacrifici e ora è giusto che voi li ripaghiate; per il vostro bene e quello dei vostri futuri figli.»

Si fissarono per un attimo, poi Alec cedette e abbassò la testa. «Certo.»

Louise si rilassò ed emise un sorriso. Tagliò la distanza tra loro e, soddisfatta della sua risposta, gli poggiò un bacio sulla fronte.

«Ci vediamo a cena» si congedò prima di andarsene, lasciando Alec con i brividi generati da quel contatto freddo.

*

Abbassò le palpebre e si concesse un po' di relax prima di iniziare con la vera fatica. L'aria riscaldata gli accarezzò il torso nudo mentre l'acqua gli lambiva le caviglie, che si muovevano a malapena nel liquido ondulato.

Alla fine, aveva raggiunto la piscina per continuare lì la "terapia", desiderio che spesso aveva espresso ultimamente, ma che si era negato per non rischiare di incontrare Adam, il quale si allenava lì ogni giorno. Ormai non glene interessava nulla. Non sapeva più cosa provare nei suoi confronti, ma se non altro il discorso con Louise era servito a placare la sua ira. Non che la donna l'avesse convinto con le sue parole, ma l'aveva almeno aiutato a capire che non doveva agire come se fosse invincibile, perché gli altri non l'avrebbero fatto. L'illusione di stare bene e non avere problemi gravi era una frottola che raccontava solo a sé stesso, a cui gli altri non avrebbero creduto.

Non poteva biasimare Adam per aver ficcato il naso nei suoi affari poiché, da un punto di vista oggettivo, stava solo cercando di aiutarlo. E non importava se lui non condivideva quella visione delle cose. A quanto pareva, le persone tendevano ad avere una concezione molto più positiva di lui riguardo ciò che avevano intorno. Possibile che vedesse tutto solo nero?

Scosse il capo per scacciare quelle riflessioni, altrimenti non avrebbe mai iniziato a muoversi. Si trattava di congetture che sarebbe stato meglio esaminare più in là, adesso aveva bisogno di svuotare la testa e dedicarsi solo allo sforzo fisico.

Si tenne scrupolosamente vicino al bordo per tutto il tempo perché non era sicuro di essere in grado di rimanere a galla. Nonostante le precauzioni, riuscì a fare avanti e indietro per la vasca con parecchia facilità, sostenuto dalla presenza carezzevole dell'acqua. La sua mente tornò a quando affrontava quelle difficoltà insieme a Adam, e un dolore al petto lo obbligò a fermarsi. Quel fastidio sembrava strettamente collegato al ragazzo al quale pensava sempre più spesso, e non poteva fare nulla per non avvertirlo ogni volta.

Sebbene non avesse timore di incontrarlo, ciò non successe. Da una parte ne era sollevato: che avesse capito di star sbagliando non stava a significare che già l'avesse perdonato. E in caso di un incontro non avrebbe saputo cosa dirgli.

Valutò la doccia della palestra, ma non si sentiva ancora pronto per lavarsi in un posto che non fosse la sua stanza. Si ritirò così nella sicurezza delle proprie abitudini, ma venne disturbato subito dopo essersi rivestito.

«Alec, ti aspettano presto stasera per festeggiare la signora Eleanor.» Era Irina, che senza neanche aprire la porta gli aveva dato quella comunicazione dal corridoio come se lui ne fosse già a conoscenza.

Non ebbe nemmeno il tempo di chiederle spiegazioni, quindi dovette affidarsi alla memoria. Ricordò vagamente Louise che gli accennava del compleanno in vista di sua suocera, informazione che aveva rimosso. Erano immagini e suoni che sembravano appartenere a una vita fa, quando le cose con Adam erano più facili. Non era passato tantissimo, ma a lui parevano mesi, dopo ciò che aveva vissuto.

«Ci mancava solo questa» borbottò. Venne sfiorato dalla scomoda idea che non le aveva comprato un regalo, ma subito si disse che di certo avevano pensato Louise e Mya a provvedere.

Quando arrivò di sotto, non erano ancora tutti presenti. C'erano le due donne capifamiglia che parlottavano tra loro sedute al solito posto, e poco lontano la figura di Adam, in piedi e vestito di tutto punto. Cercò di focalizzarsi sulla conversazione tra Louise ed Eleanor, ma presto si accorse che erano rivolte proprio al più giovane dei Brass.

«Oh, che tesoro che sei, Adam!» gli stava dicendo la madre con un sorriso. «Non c'era bisogno che ti vestissi così, voleva essere una cena informale in famiglia.»

Alec alzò un sopracciglio. Effettivamente non gli era stata annunciata alcuna festa, ma in villa Brass ogni occasione era buona per sfoggiare le proprie ricchezze. Invece erano lì, la sala per le cene vuota di spettatori, davanti a una tovaglia meno decorata del solito. Persino i bicchieri non erano i calici di cristallo, bensì più sobri cilindri in vetro comunque altrettanto scintillanti.

Le ruote si fermarono all'abituale postazione che occupavano durante i pasti e, quando bofonchiò un breve augurio, le due lo notarono. «Alec, tu non ci provi neanche a vestirti in modo più composto, non è vero?» lo riprese Louise, ma non ribatté. Non aveva voglia di stare a discutere su quanto Adam fosse meglio di lui, specialmente se si trovavano così vicini, lui con la felpa e l'altro in giacca e camicia. Tutta quella eleganza era appena smorzata dall'ultimo bottone aperto del colletto, che lasciava intravvedere il pomo d'Adamo.

Distolse l'attenzione da lui e scosse la testa mentre sentiva dire a Eleanor che non c'era niente di male nello stare comodi, che voleva che la serata andasse così e che avevano preso la pizza apposta.

«Pizza?» domandò, notando solo in quel momento che sulla tovaglia di seta mancavano tutte le forchette, forchettine e altre forchette che di solito venivano usate per le diverse portate. I Brass non avevano mai messo una pietanza simile in tavola. Non l'avevano mai nemmeno menzionata, in realtà, a tal punto da far sembrare che non fossero a conoscenza della sua esistenza.

Alec la adorava; o perlomeno l'aveva amata in passato, quando prenderne un morso non appariva così difficile come ora. A casa Callaway spesso si ordinava la pizza per passare una serata in spensieratezza tra chiacchiere e allegria. Una delle tante cose che aveva perso quando aveva abbandonato Phoenix.

«Che c'è, Alec, non ti piace?» udì chiedere da Eleanor.

«Impossibile, è uno dei suoi piatti preferiti. Non è vero?» rispose Louise per lui, senza togliergli tuttavia l'incombenza di parlare.

Annuì in direzione delle due donne, avvertendo gli occhi di Adam, dietro di lui, appiccicati al collo, che lo studiavano.

Decise che avrebbe smesso di scappare e si voltò per incrociare i due zaffiri. Come aveva sospettato, erano puntati su di lui. Nonostante ciò, Adam non pareva starlo esaminando. Ammorbidì la propria espressione non appena poté, e Alec si sentì avvolto dal suo calore sebbene mancasse il solito sorriso compreso di fossetta. Avrebbe tanto voluto vederla, quindi valutò di sforzarsi a sorridere per far capire all'altro che non ce l'aveva più con lui; tuttavia, in quell'istante arrivò Iris, e il loro legame di sguardi venne interrotto.

La ragazza li scrutò a fondo entrambi, poi si sedette accanto a Adam e gli prese la mano con una disinvoltura che Alec non avrebbe mai raggiunto. Ma lei stava fingendo, e questo rendeva le cose più facili... oppure no? Aveva notato che, nonostante la sorella pretendesse di sapere tutto da lui e non l'avesse ancora lasciato in pace per quella storia di Adam, lei dal canto suo era piuttosto solitaria quando si trattava di esternare i propri sentimenti. Se non l'avesse conosciuta da sempre avrebbe ipotizzato che Adam le piacesse davvero. Ma d'altronde, come poteva Adam non piacere?

Gli andò di traverso l'acqua a quel pensiero, e fu costretto a tossire e attirare l'attenzione di tutti. Adam lo guardò serio e poi sciolse la presa di Iris per compiere il casuale gesto di prendersi della birra. Da quel momento non intrecciò più le dita alle sue.

Tale fatalità lo sconvolse, inducendolo a riflettere che non fosse un caso, e che quindi lui era, per il giovane Brass, trasparente come il cristallo del lampadario che pendeva sopra le loro teste, al quale si interessò improvvisamente.

Passò gran parte della cena a lanciare occhiate di sottecchi alla coppia che seguiva lui e Mya, e al contempo captò altrettante occhiate provenienti da Iris. Non riusciva a capire quanto fosse prevedibile da Adam e quanto dagli altri perché non sapeva più se era lui a essere scontato o Adam a conoscerlo troppo bene. In ogni caso non gli piaceva stare nel dubbio.

Quando tutti gli altri ebbero quasi finito, lui si sentì pronto a dare un morso alla fetta che giaceva nel suo piatto, ormai fredda. La studiò a lungo, poi la prese e se l'avvicinò alla bocca.

Uno scoppio echeggiò nella sala, basso e lontano, fino a illuminarla di un tenue verdognolo. Ne seguì un altro, e Alec fece appena in tempo a girarsi verso l'ampia vetrata per scorgere un fuoco d'artificio prima che questo svanisse nel cielo.

Al silenzio attonito si sostituirono schiamazzi, risate e esclamazioni stupite.

«Sorpresa!» esordì Louise, che insieme a Stephen aveva apparentemente preparato quel regalo.

Eleanor fece per dire qualcosa, commossa, ma Mya e Iris la interruppero, tirandola per le braccia per andare a vedere lo spettacolo di fuori. Anche Adam si unì alle incitazioni, e Alec restò immobile sperando di passare inosservato. Alla fine non riuscì nel suo intento: aveva fissato la fetta rimessa giù finché non se n'erano andati tutti.

Finalmente solo, sospirò e decise di lasciare lì la cena, ci avrebbe provato la prossima volta.

«Secondo me non dovresti sprecare l'occasione: non accade spesso qui di avere la pizza.»

Trasalì, colto alla sprovvista, e alzò immediatamente il viso, imbarazzato per essersi lasciato andare davanti a qualcuno quando credeva di non avere gente attorno. Si era sbagliato: Adam era rimasto lì, e stava occupando il posto di Stephen, di fronte a lui.

«Se lo avessi saputo prima, comunque, avrei chiesto a Irina di farla ogni tanto.»

Lo fissò muto e vide contrapporsi alla sua figura le brucianti parole che quelle stesse mani avevano appuntato riguardo lui. Voleva dimostrargli che non era così, che era in errore, che era stato come tutti gli altri quando davano giudizi affrettati.

Distolse lo sguardo con indifferenza e prese la pizza dalla porcellana fredda come se niente fosse. Evitò di soffermarsi troppo su di essa e tappò il naso perché sarebbe stato più facile, quindi puntò solo a masticare la piccola porzione e mandarla giù. Fu difficile come ingoiare sassi.

Si sentiva osservato, ma non osò ricercare la futile conferma di un presentimento che di per sé era già una consapevolezza. Si avventò con voracità sulla fetta che aveva tra le dita, non per fame, bensì per ira. Un'ira scatenata dall'impotenza che avvertiva crescere nel petto. Ormai era una questione aperta anche con sé stesso.

Gli bastarono altri due morsi per percepire il familiare stimolo a rigettare tutto, ma non si arrese. Chiuse forte gli occhi e inspirò a fondo, deciso a finire ciò che aveva nel piatto. Non si accorse dei passi finché non li ebbe vicinissimi, e rialzò le palpebre nello stesso momento in cui Adam gli portava un palmo sulla guancia.

«Ora basta» decretò con dolcezza. Prese ciò che gli restava nella mano e lo gettò in mezzo agli scarti. «Un passo alla volta.»

Alec non si oppose solo perché stava impiegando ogni energia per evitare di perdere contro il suo corpo. Rimase inerme anche quando sentì Adam muovere la sua sedia per posizionarvisi davanti, alla sua stessa altezza, senza interrompere il tocco. Aveva un'espressione preoccupata, segno che gli leggeva qualcosa di allarmante in volto, ma stava cercando di nasconderla. Era molto abile a celare i suoi sentimenti, ma non con lui, non più.

«Lasciami» disse. La sua voce flebile venne coperta dallo scoppio di un nuovo fuoco d'artificio, che illuminò il viso di Adam di un colore caldo, ma il ragazzo parve capirlo ugualmente.

«Ti dà fastidio?» chiese il giovane Brass, riferendosi al contatto che c'era tra loro.

«Tu mi dai fastidio» precisò, con ben poca convinzione. In realtà aveva deciso che avrebbe smesso di allontanarlo, ma in quel momento si sentiva debole, perciò non voleva nessuno intorno.

«Mi dispiace» replicò Adam, ma dal tono che aveva sembrava non gli dispiacesse affatto, congettura che trovò conferma nel suo seguente gesto: si avvicinò ancora di più, fino a protendersi verso di lui, e lo tirò per le spalle perché lui facesse lo stesso. Lo strinse forte a sé, tanto da accecargli la vista per qualche attimo, e lo circondò con il suo profumo di agrumi e fiori.

Alec provò dapprima a divincolarsi, ma poi il tepore di quell'abbraccio gli intorpidì i muscoli, che si opposero al suo volere. Rimase quieto e immobile a captare il battito del cuore di Adam più veloce del suo.

E, senza che se ne accorgesse, la nausea era lentamente scemata fino a sparire del tutto, sostituita dalla beatitudine che una così semplice situazione poteva scatenare in lui.

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