Capitolo 9

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Cantami, o diva, con la lira

Grazie

L'ira funesta, funesta

Carenza cognitiva delle masse patetiche

Autocelebrativa, poetica decadenza

Grazie alla tua benevolenza, grazie

Quasi quasi andavo di violenza

- Rancore


Quando aprì gli occhi, per un attimo si sentì spaesato da ciò che vide. La quiete lattiginosa che precedeva l'alba illuminava il volto di Adam quel tanto che bastava per fargli comprendere che non si trovava in uno dei suoi sogni, bensì nella realtà.

Cazzo. Aveva fallito, si era avvicinato a quel ragazzo ed era stato sconfitto, incapace di negarsi i suoi stessi istinti. Però... Adam non aveva fatto niente di avventato la sera prima, sebbene il loro abbraccio non potesse proprio definirsi normale.

Si portò le mani al viso, chiedendosi come sarebbe finita quella storia, poi scattò seduto. No. Non avrebbe dovuto porsi domande simili. Lui era già a conoscenza di come sarebbe andata, se l'era imposto, impresso nella mente, e sarebbe stato impossibile fare altrimenti. In villa Brass non avrebbe mai avuto una vita soddisfacente, qualunque scelta facesse. Quindi l'opzione che rimaneva era una sola.

Si girò verso Adam e ammirò l'ombra proiettata dalle ciglia sugli zigomi, le labbra rosee appena schiuse e l'espressione beata che gli valorizzava i lineamenti. Una fitta al petto gli tolse il respiro. Non era giusto, ma non seppe resistere al desiderio di allungare un dito percorrere con delicatezza il profilo della sua guancia, del suo naso, e poi della bocca, che si piegò in un sorriso accennato. Un soffio caldo gli sfiorò i polpastrelli e il suo cervello gli inviò l'immagine di sé stesso in un universo parallelo in cui Adam carezzava la punta del suo indice con il calore della propria lingua umida...

Oddio, gemette tra sé e sé, distaccandosi immediatamente dalla fonte di quei pensieri impropri. Non aveva avuto incubi quella notte, ma pareva che questi stessero provvedendo a tormentarlo da sveglio.

Capì che di aver bisogno di allontanarsi quando il rigonfiamento che premeva contro i boxer tornò a infastidirlo. Scostò le coperte per constatare la gravità della situazione. Perché doveva finire sempre così?

Sospirò e si guardò intorno, individuando la sedia a rotelle a una distanza che non avrebbe raggiunto solo sporgendosi. Sbuffò. Quante probabilità aveva di alzarsi senza cadere per la debolezza, come ultimamente gli accadeva sempre più spesso?

Condusse un piccolo esame del proprio corpo e decise di provare dopo aver constatato che Adam dormiva della grossa, per fortuna. Si mise seduto con poca difficoltà, poi raccolse le forze e si protese in una posizione semieretta.

Quasi ci cadde sopra, ma riuscì a sistemarsi senza svegliare il giovane Brass. Cosa avrebbe fatto ora? Andarsene gli sembrava da ipocrita dopo aver chiesto esplicitamente di restare la sera precedente: non poteva ritirare tutto ogni volta che succedeva qualcosa di simile; Adam non era un giocattolo con cui passare del tempo quando ne aveva voglia e da buttar via quando non gli serviva più. Non che si sarebbe mai stancato di lui, ma c'erano momenti in cui aveva modo di essere più lucido e comprendere che era meglio stargli lontano. Ma, ancora, doveva darsi una regolata. Non avrebbe potuto evitare di farlo soffrire, ma poteva diminuire la sua sofferenza allo stretto indispensabile.

Nonostante ciò, si sentiva un idiota a starsene lì impalato, tuttavia rimase comunque bloccato per l'indecisione.

Mentre ci rifletteva, gli occhi gli caddero sul divano dove per la prima volta aveva dormito con Adam a fianco, e il cuore gli si strinse in una morsa al ricordo. Distolse lo sguardo per focalizzarlo sulla scrivania poco distante, elemento che lo incuriosì. La stanza di Adam era sempre stata immersa in un ordine maniacale, ma su quel tavolo in legno stondato erano stati lasciati libri e fogli sparsi, dettaglio alquanto strano.

Stuzzicato nell'interesse, si dimenticò della scelta da compiere e si avvicinò a quell'angolino trasandato. Nella penombra del crepuscolo, non riuscì bene a distinguere i caratteri dei tomi che riposavano su quel piano, ma capì che manoscritti di quella grandezza non erano i volumi scolastici a cui era abituato.

Accese la lampadina senza nemmeno pensare che avrebbe potuto dar fastidio, era troppo interessato, per qualche motivo, a qualsiasi cosa avesse impedito a Adam di mantenere il suo solito contegno.

Psicopatologie, Disordini e terapie e infine Disturbi del comportamento alimentare gli si pararono davanti, con le lettere più o meno grandi dei titoli che quasi ballavano su quella carta lucida. A forza di fissarle, quasi gli lacrimarono gli occhi per via del led troppo bruciante.

«Comportamento alimentare» soffiò tra le labbra. Inevitabilmente ricordò di quando Adam gli aveva detto che i disturbi legati all'alimentazione erano gravi e da tenere sotto controllo. Sii forte, l'aveva incitato quella volta. E lui non lo era stato, o perlomeno aveva avuto una ricaduta così mastodontica che si trovava in condizioni peggiori di prima. Non ci aveva mai riflettuto su, aveva davvero disturbi del comportamento alimentare?

Il suo respiro accelerò quando si rese conto che la sua situazione e ciò che aveva di fronte non potevano essere un caso. A scuola non conducevano di certo studi di quel genere, e da quanto ne sapeva Adam voleva diventare fisioterapista, quindi quei libri non c'entravano niente con il suo futuro. Ma allora perché? Era forse possibile che il giovane Brass stesse conducendo ricerche su di lui?

Con mani tremanti, prese i fogli. Erano bianchi, ma dietro si scorgeva in trasparenza qualcosa battuto al computer. Prima di voltarli, però, si accorse che sotto di essi vi era un altro testo, che inizialmente non aveva notato per via delle dimensioni ridotte. Era aperto a una delle prime pagine, e una scritta in grassetto, un titolo, recitava: Anoressia e Bulimia.

Anoressia...

Aveva sempre saputo, da quando era a villa Brass, di aver perso l'equilibrio alimentare che chiunque dava per scontato, e negli ultimi tempi solo vedere il cibo gli induceva un voltastomaco che non riusciva a sconfiggere; ma chiamare tutto ciò anoressia era qualcosa a cui non aveva mai pensato, forse per ingenuità o forse perché così spaventato dalla stessa congettura che la sua mente si rifiutava di formulare quell'ipotesi.

Come per confermare quei ragionamenti, lo stomaco gli bruciò così forte da mozzargli il fiato, ma non fu questa scoperta ciò che lo sconvolse di più. I suoi occhi si posarono su un post-it giallo contenente qualche appunto a matita vicino al paragrafo, e riconobbero in un istante la calligrafia elegante e limpida di Adam: "Rifiuto verso il cibo, nausea, anoressia", fattori con cui si identificava con facilità, sebbene avesse difficoltà anche solo a leggere quell'ultimo termine; "Segni di sitofobia e afefobia", non aveva idea di cosa fosse la prima, ma la seconda l'aveva udita dai sui medici dopo l'incidente, e anche stavolta non poteva trattarsi di un caso; "Disturbo post traumatico da stress", forse era paranoico, ma di nuovo lo rimandò all'incidente, che gli aveva lasciato un vero e proprio trauma; "Insonnia e incubi", erano due dei sostantivi che lo caratterizzavano per eccellenza, e fu anche per questo che lesse la seguente diagnosi con più attenzione; "Apparente principio di depressione". Depressione... una parola molto, molto pesante, che schiacciò la mente di Alec già sconvolta da ciò che l'aveva preceduta. Una definizione che spesso aveva sentito nominare, talvolta in modo improprio, ma che mai aveva pensato anche solo lontanamente di associare a sé stesso. Poteva davvero chiamare in una maniera così terribile quel senso di arrendevolezza che provava verso la vita, e, più nello specifico, la mancanza di voglia di viverla, quella vita?

Non ne sapeva molto di psicologia perché non gli era mai interessata, ma solo uno stolto non avrebbe ricollegato quel poco di comprensibile che c'era alla sua situazione mentale.

Tornò al foglietto e trovò, alla fine, una data, che avrebbe potuto benissimo essere lì per caso se solo lui ci avesse creduto; ma non si sarebbe preso in giro. Quelle cifre regnavano incontrastate su tutto il resto, silenti ma altrettanto minacciose: 19/12/2018.

«No...»

Gemette, e non udì più alcun rumore di sottofondo, né quello del proprio respiro accelerato. Percepiva solo la sua stessa voce, proveniente da un tempo ormai passato, che rivelava a Adam la data dell'incidente.

Rose è morta. Il diciannove di dicembre, lo stesso giorno in cui ho camminato per l'ultima volta sulle mie gambe. Dopo che io l'ho derisa, umiliata, fatta a pezzi... lei mi ha salvato la vita ed è morta.

Una frenesia improvvisa lo animò e si ritrovò a sfogliare le pagine immacolate del libro tanto velocemente da spiegazzarle. Ormai era sicuro che quel foglietto contenesse dati su di lui, ma non voleva crederci, aveva bisogno di una conferma. Quando non ne reperì alcuna, chiuse il volume, ma da sotto la copertina uscì un piccolo fascicolo.

Tremante, Alec tirò via l'elastico e fece fuoriuscire il contenuto. Una cartella clinica, con tanto di radiografie e dati tecnici, fece la sua apparizione, e non gli ci volle che un battito di ciglia per capire a chi apparteneva.

La voglia di continuare a leggere gli scivolò di dosso come se una secchiata d'acqua gelida l'avesse lavata via. Quella era la sua cartella clinica, sua e privata! Avrebbe dovuto essere custodita da Louise, e invece era in camera di Adam. Ciò significava che Adam stava conducendo studi su di lui, senza il suo consenso o senza nemmeno dirglielo. Come se lui fosse una qualche specie di cavia da laboratorio per...

«Alec...»

Per un attimo il cuore gli si fermò nell'udire il proprio nome, ma subito dopo si girò di scatto, le palpebre spalancate. Adam era a metà strada tra il letto e la scrivania, una mano protesa verso di lui come per tranquillizzarlo. Aveva un'espressione cauta, neanche stesse avendo a che fare con un matto.

«Matto» sussurrò. «È questo che sono per te!» aggiunse, utilizzando un tono più forte.

Adam parve quasi rasserenato dal fatto che gli avesse rivolto la parola, e per qualche motivo la cosa lo ferì.

«Rispondi, cazzo!» urlò.

«Alec, abbassa la voce o ti sentiranno tutti» disse l'altro piano, facendo un passo verso di lui.

Avrebbe voluto urlare. Avrebbe voluto alzarsi e spaccare la faccia al ragazzo che aveva di fronte, anche solo per il fatto che gli aveva dato quell'ordine. Ma non fece niente di tutto questo. Si limitò a voltarsi interamente verso Adam e alzare il mento. «Stai conducendo ricerche su di me?» chiese tra i denti.

Adam gli si avvicinò di più e si mise in ginocchio a terra. Come al solito, dal suo volto non trasparivano molte emozioni, ma Alec lo conosceva troppo bene per non identificare il timore nei suoi occhi. Aveva paura per essere stato scoperto?

«Capisco come può sembrare a primo impatto, ma ti assicuro che sto solo cercando di...»

«Aiutarmi?» lo interruppe, e davanti al suo stupore scatenò una risata amara. «Fammi il favore di risparmiarmela. L'ho sentita troppe volte.» Adam fece per parlare, ma lui non gli diede l'opportunità. Fece ancora uno sforzo per controllarsi e si allungò in avanti, trovandosi a pochi centimetri dall'altro. «Sai invece a me come sembra? Potrei sbagliarmi, ma mi sembra che tu sia in possesso della mia cartella clinica senza il mio permesso! E mi sembra che potresti passare guai per questo!»

Adam non batté ciglio e lo fissò fino alla fine del suo sfogo dal basso, dopodiché si alzò in piedi, ma restò proteso verso di lui e gli afferrò le spalle. «Vuoi denunciarmi? Fa' pure, ma lasciami la possibilità di fare qualcosa prima che sia tardi.»

«Vaffanculo» eruppe senza aspettare che finisse. «Non sono una cavia da laboratorio. Ti diverti a fare il dottorino? Beh, io non sono il tuo paziente. Ne ho avuti fin troppi di strizzacervelli addosso, non tentare mai più di entrare nella mia testa! E ora togliti di torno.»

La presa del ragazzo si fece meno pressante, ma Adam non si mosse. Continuò a fissarlo con i suoi zaffiri e riuscì a farlo perdere per un attimo. Subito dopo, però, ripercorse l'indignazione provata quando aveva visto quegli appunti.

«Fammi andare via, Adam.» Era quasi una richiesta, tanto si sentiva sconfitto.

Il giovane Brass parve rassegnato, e finalmente lo lasciò andare. Alec gli rivolse un ultimo sguardo indignato prima di muovere le ruote lontano da lui. Ora sì che gli veniva da vomitare, e per colpa di quel post-it non poteva far a meno di dare un nome a quelle sensazioni, che fino a quel momento erano rimaste meno minacciose.

«Non dimenticare che non farei mai qualcosa per farti del male» pronunciò la voce ferma alle sue spalle.

Le sue mani esitarono, ma fu un istante così breve che probabilmente Adam non se ne accorse. Poi Alec diede la spinta finale e spalancò la porta per uscire di lì.

*

Improvvisamente tesa, Mya si tormentava l'unghia dell'indice con i denti da quando le aveva rivelato l'accaduto.

L'aveva incontrata davanti alla porta di Adam perché passando per andare a fare colazione lo aveva udito urlare. A quel punto era stato praticamente obbligato a rivelarle tutto, appena entrati in camera sua. Non gli era dispiaciuto, a dire la verità, condividere per una volta il proprio cruccio, specie perché in quel modo si sentiva molto più lontano da Adam e vicino alla vita che aveva scelto di intraprendere.

Ciò che aveva letto su quel foglio l'aveva sconvolto parecchio, e ora non sapeva più se considerarsi normale oppure no. Era a conoscenza di avere alcuni problemi con il mondo, ma non si era mai categorizzato come un ragazzo impazzito.

Nemmeno Adam l'ha fatto, però. Lui stesso trovò ammirabili i suoi tentativi di essere obiettivo, ma questi andarono in fumo non appena Mya aprì bocca.

«Devo dirti una cosa, Alec.»

La studiò più a fondo, interessato, e si rese conto che stava agendo come se gli avesse nascosto qualcosa anche lei. Si fece più accorto e la esortò: «Dimmi.»

Lei corrucciò le sopracciglia in un'espressione sconsolata e iniziò a fare avanti e indietro al centro della stanza. Alec non si mosse per non urtarla, ma la tensione animò i suoi muscoli.

«Adam mi ha chiesto una cosa, settimane fa» asserì lei. Si fermò e lo guardò come per constatarne la reazione, e quando lo vide ancora in silenzio si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Io ho acconsentito, ma devi capire che se l'ho fatto è perché credo in lui e tengo a te, e adesso stiamo insieme sul serio e ci sposeremo pure, forse! E visto che mio fratello ti ha preso così a cuore e vuole il tuo bene – e lui può davvero risolvere situazioni irrisolvibili – pensavo che...» Dopo aver straparlato, la ragazza perse tutt'a un tratto la voce e sospirò.

«Mya» la chiamò austero Alec. Aveva un brutto presentimento, ma sperava di sbagliarsi. Negli ultimi tempi aveva trovato in lei un rifugio dalle sventure che continuavano a tormentare la sua vita. Al suo fianco era tranquillo, non aveva niente di cui preoccuparsi né altre bugie da affibbiare. Non l'amava, certo, e non l'avrebbe mai amata, però era certo di potersi fidare di lei.

«Mi ha chiesto di chiedere a tua madre quel fascicolo. E io gliel'ho portato» sparò lei, di getto, per poi tornare a mangiucchiarsi il pollice.

«Tu hai fatto cosa?!» inveì Alec. Non ci credeva: la presenza di quella cartella in un posto in cui non avrebbe dovuto essere era colpa sua.

Mya spostò lo sguardo sul pavimento. «Ho detto a Louise che volevo sapere, che era mio diritto, e che volevo provare ad aiutarti a superare il trauma dell'incidente.» Ognuna di quelle parole lo ferì come una freccia diretta al centro del petto. Non poteva sentire parlare dell'incidente così all'improvviso, era un argomento che non avrebbe permesso a nessuno di affrontare, che gli altri non dovevano azzardarsi a sfiorare. E, soprattutto, non poteva sentire Mya rivolgerglisi come se lui fosse in qualche modo bisognoso di qualcuno. Si era sempre fatto vedere forte da lei, non riusciva a sopportare che gli dicesse cose simili.

«Perché l'hai fatto?» si ritrovò a urlare.

Mya spalancò gli occhi e fece un passo indietro, e la sua reazione spaventata gli fece più male. Strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nella carne, ma non avvertì dolore.

«Perché» pretese più calmo, senza dare alcun tono interrogativo alla domanda, in modo che risultasse più come un ordine.

Lei ebbe il coraggio di avvicinarglisi. «Perché» iniziò, titubante, «ho notato che tra te e Adam era successo qualcosa. Non sono stupida, e ho capito che il cambiamento di idea che hai avuto sul matrimonio c'entra qualcosa con lui, anche se non riesco a immaginare cosa sia...» La sua voce era addolorata, sembrava che tutta quella situazione la facesse davvero soffrire. Allungò lentamente una mano dal fianco per raggiungere il suo viso. «Ho pensato che lui potesse aiutarti, quindi ho voluto fare il mio per... non so, magari anche riavvicinarvi.»

Ancora quel termine... "aiutare". Non lo sopportava. Alec alzò lo sguardo dalle dita vicinissime alla sua guancia per fulminare Mya. Prima che la ragazza arrivasse a toccarlo, si scostò e le sue ruote intrupparono contro il letto, ma era abbastanza per sfuggirle.

«Io non ho bisogno di aiuto. Né ora né mai. E adesso vattene.»

Lei apparve sconsolata dalle sue parole, ma non desistette. «Mi dispiace molto se la cosa ti ha ferito, ma cerca di capire: volevo solo sistemare tutta questa faccenda! Tu e Adam...»

«I miei problemi con Adam non sono affari tuoi!» la interruppe, proteso in avanti, reggendosi sui braccioli. Pareva aver dimenticato il terrore provato poco prima. Alec non aveva alcuna intenzione di scatenarlo di nuovo, ma se non se ne fosse andata non avrebbe avuto scelta.

Il volto di lei si oscurò. «Non voglio vedere mio fratello soffrire» sentenziò.

«E invece dovrai» replicò, crudo.

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