XIX. Fidati di me

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«Andiamo fatina, ti porto in un posto.»

Seguo Ander trotterellando dietro di lui con espressione corrucciata. Ha minacciato di prendermi di peso se non l'avessi fatto con le mie gambe, per cui lo tempesto di domande.

Non ha risposto a nessun quesito, ha detto solamente che devo fidarmi di lui e mandare un messaggio a Melanie dicendole che non tornerò subito a casa dopo la scuola. Non voglio fidarmi di lui, ma il pensiero che possa posare le sue mani su di me mi terrorizza abbastanza da seguirlo mestamente, senza ulteriori rimostranze.

Giunti nel parcheggio si avvicina al posteggio, là dove la sua moto fa bella mostra di sé. Quasi ho dimenticato che ha una moto e la usa per la maggior parte dei suoi spostamenti, eccetto se deve accompagnare più di un passeggero.

Rivolgo un'occhiata scettica al veicolo e poi al casco che mi sta porgendo. Se davvero crede che ci salirò senza protestare si sbaglia di grosso.

La velocità è una delle cose che mi terrorizza di più da sempre. Persino le automobili diventano claustrofobiche quando si pigia l'acceleratore più del dovuto; le motociclette sono addirittura aperte e potrei volare giù da un momento all'altro.

«Non vengo con la moto» mi oppongo, incrociando le braccia sotto al petto e puntando i piedi. No, non voglio salire né sentire il vento che mi scompiglia i capelli e mi sferza il volto.

«Che c'è, hai paura?» domanda beffardo, infilandomi il casco. Prima che possa impedirglielo l'ha già allacciato sotto il mio collo e mi osserva con sguardo divertito.

«Ander, toglimelo» biascico trafficando con i laccetti. Sembrano incastrati e le mie dita fremono sul gancetto, incapaci di aprirlo. Sento l'aria mancarmi e il respiro divenire pesante –inspiro con la bocca e mi piego su me stessa per espirare.

L'espressione di Ander muta quando vede che non sto facendo i capricci -come ha detto poco fa quando non volevo seguirlo- bensì sto per avere davvero un attacco di panico.

«Aspetta, ferma, fermati» si abbassa alla mia altezza e blocca le mie mani mentre io sento i polmoni accartocciarsi e il respiro bruciarmi in gola.

Il petto esploderà da un momento all'altro se il cuore non arresta la sua maratona e sento tutti gli organi che stanno collassando su se stessi, impedendomi di stare diritta.

«Ti prego, fermati» biascica, mentre io continuo a tremare e scuotere la testa. Voglio che tolga questo casco immediatamente altrimenti potrei prendere a testate il muro pur di spaccarlo.

«Hilda, se non ti fermi non riesco a slacciarlo» soffia piano, carezzandomi le guance con le dita. I miei occhi sono sgranati e respiro affannosamente, ma cerco di calmarmi mentre lui dice a mezza voce: «Fidati di me».

Mi fido di lui, chiudo gli occhi e ingoio il groppo che mi è salito in gola. Mi concentro sui polmoni, provando a districarli dal groviglio in cui immagino si siano accartocciati, e tento di riacquistare il controllo del mio respiro. Serro le labbra e prendo boccate d'aria dal naso, poi esalo lunghi sospiri a labbra socchiuse, concentrandomi esclusivamente sul suono del mio cuore che ricomincia a pulsare a un ritmo consono.

Prima che possa rendermene conto Ander mi ha sfilato il casco e si mangia le unghie con aria preoccupata, biasciando delle scuse. Espiro ancora, finalmente a pieni polmoni, mantenendo il silenzio e verificando che tutti i miei organi siano ancora funzionanti e al loro posto.

«Scusa io... non credevo che ti saresti spaventata così» soffia appena, un sussurro flebile che tuttavia giunge forte e chiaro ai miei timpani.

«Già, neanch'io» replico seccata, conscia di aver avuto una reazione esagerata. Non sono claustrofobica, da bambina avevo dato dei sintomi simili ma il terapeuta da cui mi avevano portato ha asserito che non avevo problemi dopo un paio di sedute.

Il problema -me ne renderò conto solo successivamente- è che in presenza di Ander tutti i sensi si acuiscono, e con essi le mie sensazioni. La vicinanza di Ander... il suo tocco non mi infastidisce, brucia; i suoi occhi non mi scrutano, mi leggono dentro e le sue parole non mi scivolano addosso, si insinuano sotto la pelle e occupano ogni anfratto del mio cervello.

Lui mi osserva turbato, incerto sul da farsi, spostando lo sguardo dalla mia figura -ora immobile, non più scossa dai tremiti- alla sua moto parcheggiata.

Prendo un respiro profondo e strappo il casco dalle sue mani. La paura non mi farà fuggire ancora, ci sono conseguenze che ti piombano addosso nei momenti meno opportuni e io non voglio farmi trovare impreparata.

«Che... fai?» mi scruta di sottecchi, studiando le mie mani che lentamente fanno scivolare il casco sul capo e trafficano col laccetto.

«Mi fido di te» replico con un'occhiata eloquente, invitandolo ad allacciarmi il casco prima che cambi idea, «Ma ti avverto, non provare a correre su quell'affare o non ci salirò mai più, non avrai una seconda chance».

Le sue dita fremono sotto il mio collo aiutandomi con la chiusura mentre si morde le guance dall'interno per celare un sorriso. Mi aiuta a salire nella parte posteriore della sella, indossa il suo casco e mette in moto. Pare rifletterci qualche istante prima di togliere il cavalletto, poi si gira verso di me per rivolgermi un sorriso rassicurante e mi prende le mani, invitandomi a stringerle intorno al suo busto.

Inizialmente sono restia, ho ancora bisogno del mio spazio vitale anche se sono confinata su questo strumento del demonio; quando finalmente parte abbandono tutte le mie reticenze e mi stringo a lui. Ho abbandonato anche la dignità, ma poco mi importa di lei se è il prezzo da pagare per sopravvivere a questo viaggio.

Mi avvinghio totalmente alla schiena di Ander, stringo le braccia intorno al suo busto e intreccio le mani davanti al suo ventre, spalmata su di lui come una sottiletta. Avverto il riverbero di una sua risata sul petto ma non riesco a protestare, giro il capo per far aderire la guancia parzialmente coperta dal casco alla sua schiena e chiudo gli occhi.

Sento solamente il vento sferzarmi il volto e i capelli graffiarmi con cadenza regolare mentre cerco di non soffermarmi sul fatto che sono aggrappata ad Ander come un koala a una pianta di bambù e la sua pelle scotta anche sotto i vestiti.

«Fatina» la sua voce mi giunge ovattata mentre cerco di controllare il mio respiro, «Per me possiamo rimanere così tutto il tempo che vuoi ma... siamo arrivati».

Siamo arrivati? Davvero? E perché io non me ne sono accorta? Apro un occhio per accertarmi che sia la verità e vedo il sole brillare nel cielo, alto e immobile. Poi scosto appena il capo e noto il suo sguardo divertito.

Siamo seduti sulla sella della moto ma con una torsione è riuscito a voltarsi e ridere del modo poco dignitoso con cui mi sono aggrappata a lui. Mi stacco immediatamente avvertendo il calore fluirmi sulle guance di fronte a quell'evidenza.

«D-dove siamo?» biascico, scoprendomi la voce impastata. Arrossisco ancora mentre mi guardo intorno. In lontananza si vede San Francisco e il Golden Gate Bridge, c'è una distesa d'acqua a separarci per cui deduco che ci troviamo alla Baia, ma non riconosco questo luogo.

«Nel mio posto preferito» asserisce risoluto avvicinandosi per slacciarmi il casco. Li ripone entrambi sulla moto, poi mi prende la mano e si dirige verso le scalinate.

Ci inoltriamo in una struttura marmorea con un'architettura particolare: tubi che sembrano terminare direttamente nel mare, mattoni sovrapposti in maniera casuale, lasciando pertugi e anfratti. C'è un'atmosfera magica mentre l'acqua, sotto di noi, suona.

Passo una mano sulle superfici rifinite di quei terrazzini irregolari che amplificano il rumore del mare e lo trasformano in una melodia inedita. Imprimo ogni dettaglio di quel luogo magico mentre lo osservo con le labbra schiuse.

«Benvenuta al Wave Organ» sussurra con tono lieve, senza voler coprire il suono che ci avvolge. «Qui le onde urtano contro le tube sommerse e il mare diventa musica.»

Chiudo gli occhi per godermi appieno la melodia. Quando lo sciabordio dell'acqua giunge più forte alle mie orecchie, ecco che l'organo suona note basse e gorgoglianti –rombi di quel motore così docile e impervio che solo il mare può creare.

E quando le onde si placano si odono i sibili, suoni sottili e acuti che si insinuano nei timpani per riempirmi la testa, scacciando i pensieri. Sorrido, non penso. Riesco solo a respirare a pieni polmoni e lasciarmi inebriare da quel suono intenso che si stringe intorno al cuore e lo modella a suo piacimento –le pulsazioni che seguono il ritmo della melodia.

Non ne avrò mai abbastanza, qui dove il mare incontra la musica potrei morire col sorriso e gioire dei miei ultimi istanti. Non apro gli occhi, apro i sensi. Allargo le braccia e rivolgo i palmi delle mani all'insù per toccare la brezza marina, annuso la salsedine e la assaporo lasciando che attraversi l'esofago e lo stomaco e mi completi. Voglio che il mare riempia gli anfratti liberi della mia mente, che penetri sotto la pelle, dentro le viscere, e mi avvolga. Voglio sentirlo addosso come il suono che produce, docile melodia in grado rendermi fragile e tersa come il cristallo.

Apro gli occhi solo quando sento le mani di Ander solleticarmi le guance -i pollici carezzano le gote, alcune dita sfiorano la mascella mentre altre disegnano cerchi roventi sul collo.

Apro gli occhi e brucio, brucio sotto il suo sguardo. Sto ancora sorridendo ma adesso il mio corpo e la mia mente sono pieni solo di lui, di Ander. Ander, pelle caramello e spalle larghe; Ander, fossette e sorrisi irriverenti; Ander, occhi furbi nocciola e miele.

E adesso vedo Ander, annuso Ander, assaporo Ander. Tocco Ander. I palmi delle mie mani fremono sulle sue braccia, caramello fuso sotto le mie dita tremule. Inspiro brezza marina e il profumo della sua pelle –quand'è che si è avvicinato così? Distanza di sicurezza, ti prego.

Poggio le labbra sulla pelle glabra del suo collo mentre mi stringe a sé come se avesse bisogno di me per respirare, come se solo spalmato sul mio corpo il suo diaframma gli permettesse di inalare aria ed espirare solleticandomi il collo.

E freme sotto le mie labbra, la pelle guizza e trema e avvampa e scalpita. I muscoli premono per uscire e le vene sporgono per far affluire il sangue -più sangue, di più, vi prego, sento che sto per collassare e ne ho bisogno, non voglio staccarmi mai.

Il mare si agita, impervio, sotto di noi. Gli schizzi urtano la costa e si infrangono sui nostri corpi, goccioline d'acqua gli solcano le guance e scivolano sul collo, insinuandosi sotto la maglietta, lì dove si perde il mio sguardo, lì dove si soffermano i miei occhi e dove le mie mani tastano la clavicola e i miei polpastrelli si inumidiscono.

E non so perché lo sto facendo ma sento il bisogno di catturare quell'acqua, devo spegnere il fuoco che divampa nel mio petto perché sto bruciando –Ander, lasciami, non vedi che brucio? Mi ridurrò in cenere! Lasciami, spazio vitale... Non mi lasciare.

Lui segue le mie mani concitate che toccano, brancicano, catturano le goccioline e ne anelano di più -più acqua, spegniamo questo fuoco, il mio cuore non regge, esploderà.

Ho di nuovo il respiro pesante ma questa volta non è la claustrofobia. Questa volta è solo colpa di Ander. Ander e le sue mani che mi bloccano i polsi ossuti –non mi toccare, Ander, non farlo. Ander e i suoi occhi che mi incatenano a lui –non mi guardare, basta, non posso reggerlo. Ander e le sue labbra che si avvicinano sempre di più –e ti prego, non farlo, allontanati.

Naufrago. Così mi sento quando posa la bocca sulla mia, delicatamente e senza pressione. Mi sfiora le labbra e trema nel mio respiro mentre io inalo la sua aria.

«Fidati di me» ripete di nuovo, ma ho smesso di ascoltarlo tempo fa. Non saprei dire con precisione quando, tra una carezza e un sospiro. Adesso riesco a solo a fissare i suoi occhi, iridi nocciola che il sole condisce di miele -oro colato per il mio animo Re Mida.

Infine mi bacia, socchiude la bocca e avvolge il mio labbro inferiore, succhiando e tirando e puntellando con i denti ciò che rimane della mia essenza –brandelli, lembi di pelle che ancora non si sono sciolti come burro fuso sotto il suo sguardo rovente.

E io tasto le sue mani che mi stringono e fremo nel suo abbraccio, puntello con la lingua le sue labbra e lascio che mi avvolga con la sua, di essenza –brandelli, lembi di pelle che ancora non si sono sciolti come caramello fuso solo sotto il mio sguardo glaciale.

Riprendo a respirare senza nemmeno sapere quando ho smesso.

Non avrei mai dovuto fidarmi.

Bene, che dire? Vi avevo promesso una gioia ed ecco a voi una gioia! Aspettavate un bacio da tanto tempo ed era ciò che meritavate, ma ovviamente non sarà così semplice, la frase finale non è a caso eh eh

Ander ha giocato bene: l'ha portata al mare, la brezza, la salsedine, Hilda è stordita e lui le ha dato il colpo di grazia. Non che lei abbia fatto o detto qualcosa per fermarlo, è perfettamente consapevole di ciò che sta succedendo e, vi dirò di più, un po' ne è pure contenta!

Ma non è completamente fuori di testa, nossignore, tra le righe è la stessa Hilda di sempre, che pretende spazio vitale ma poi diamogliela una tastatina ai pettorali di Ander, che "stammi lontano" però insomma fatti annusare ancora un po', che "non mi dovevo fidare" ma già che ci siamo ti limono per bene.

A proposito, vi piace questo modo di ribadire il contrasto tra le azioni, i pensieri e le volontà? Ero incerta inizialmente perché non sapevo come rendere al meglio l'immensa confusione che regna sovrana nella sua testolina, così ho pensato che solo con una incoerenza evidente sarei riuscita a spiegarla.

Adesso scappo perché non vedo l'ora di leggere i vostri commenti, aspetto questo momento da troppo tempo 🤩

Luna Freya Nives

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