XXIX. Salto nel vuoto

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Non so perché ho baciato Ander, l'ho fatto e basta. In quell'istante mi pareva la cosa più giusta da fare. D'altronde, cos'avrei potuto dire? «Tranquillo Ander, la tua ex è una stronza e ti ha trattato malissimo ma tu sei un persona buona, non ti giudico per esserti fatto abbindolare da quella strega»?

No, decisamente. E non sono del tutto certa che insultare Veronica – per quanto egli stesso non la sopporti e odi l'ascendente che ancora esercita di lui – sia la strategia giusta.

Un bacio, invece, rende tutto più semplice. Avrei potuto dirgli che io sono dalla sua parte, promettere di aiutarlo ad allontanarsi definitivamente da lei, o avrei potuto suggellare quella promessa con un bacio.

Ho scelto il bacio perché le parole non sono il mio forte – non lo sono mai state in effetti, il mutismo selettivo è sempre stato la mia arma. Siccome con lui non funziona, e avendo urgente bisogno di rassicurazioni, baciarlo è stato il giusto compromesso.

Peccato non aver messo in conto l'incendio che è divampato nei miei visceri quando le sue labbra si sono schiuse sulle mie: incerte, stupite, felici. Ho percepito distintamente le fiamme raggiungere i polmoni e intossicare la mia aria, renderla rovente, per poi espandersi in ogni margine del mio corpo e infuocarmi dall'interno.

Ander ha decisamente apprezzato i miei metodi – forse anche troppo dato che le sue mani si sono arpionate sui miei fianchi dopo i primi istanti di paralisi iniziale – ma si è forzato di staccarsi per ultimare il suo racconto.

Sembra più tranquillo adesso, quasi rilassato oserei dire. È voltato completamente verso di me, con una gamba piegata sotto il sedere e l'altra che penzola dal divano, un braccio poggiato sulla spalliera per donargli equilibrio e l'altro teso verso di me, con le sue dita che hanno acciuffato nuovamente le mie e si sfiorano con delicatezza.

«Veronica è capace di sfiancarti, si prende tutto, persino ciò che non sei disposto a concederle e che credevi di aver riposto al sicuro, in una cassaforte indistruttibile sigillata da un portone a doppia mandata in un rifugio antiatomico. Ma la cosa peggiore è che è in grado di farti credere di essere stato tu a volerlo» sorride, mesto, e anche se un alone di tristezza veleggia nell'aria ho l'impressione che non sia più in grado di scalfirlo. Non come prima, almeno.

«Per colpa sua ho litigato con Natalie e, di conseguenza, anche con tutti gli altri. Aaron mi ha quasi preso a pugni, per fortuna Ben e Jonas mi hanno salvato» ridacchia, grattandosi il capo con la mano libera.

Non riesco proprio a immaginarmi Aaron che tenta di aggredire il suo amico, nemmeno se Ander stesso l'avesse provocato. Insomma, è grande e grosso come un armadio e il suo fisico da giocatore di football può intimorire, mi sin dall'inizio mi è parso molto pacifico.

«È stata mia madre ad aprirmi gli occhi» confessa poi, leggermente in imbarazzo, «mi ha fatto notare che da quando stavo con Veronica ero cambiato: non parlavo quasi più spagnolo, nemmeno in casa, perché lei ne era infastidita; passavo sempre meno tempo con i miei amici – con quelli con cui non avevo litigato irrimediabilmente, almeno – e qualsiasi cosa facessi era sempre decisa da lei, io non avevo mai voce in capitolo» non sembra addolorato mentre lo racconta, evidentemente deve averlo superato. Tuttavia, è tangibile una nota di rammarico nell'inflessione assunta dalla sua voce.

«Poi mi ha detto che le campane si ascoltano in coppia e mi ha convinto a sentire la versione di Natalie per intero. Lei a quel punto aveva scoperto che Veronica e Frank avevano una storia parallela alle nostre e così mi sono deciso a lasciarla» termina in uno sbuffo. Fissa ancora i suoi occhi nei miei, questa volta senza cercare giudizio né comprensione. Mi guarda e basta, come se nei miei occhi diafani potesse trovare la risposta a domande che non si è ancora posto.

«Perché si infastidisce se la chiami Ronnie?» domando, interrompendo il silenzio. È un dettaglio inutile, probabilmente, ma non mi è sfuggita l'accezione derisoria con cui lo pronuncia Natalie, né la smorfia che deforma il viso della diretta interessata.

«Odia quel diminutivo e io la chiamavo così, inizialmente, per prendermi gioco di lei. Poi ho iniziato a chiamarla così solo nei momenti... intimi. Sai com'è, è più facile pronunciare Ronnie che Veronica quando sei concentrato su altro» borbotta in imbarazzo. Questa volta un lieve rossore divampa sulle sue gote, facendomi spuntare un sorriso involontario.

Ha un aspetto tenero, dolce, pare che si senta in dovere di giustificarsi con me del suo passato –un passato in cui nemmeno ci conoscevamo e la mia partenza non era stata ancora messa in conto. Sembra trascorso un secolo dal giorno in cui sono atterrata all'aeroporto di San Francisco carica di aspettative, la lettera della principessa Anya sul fondo del mio zaino e il medaglione stretto tra le dita.

D'istinto passo la mano libera intorno al collo, tastando il laccetto e percependo il ciondolo oscillare sotto la maglietta. Lo porto sempre con me, togliendolo solo per fare la doccia temendo di rovinarlo, e lo tratto con il timore reverenziale che si riserva alle cose preziose che si ha paura di danneggiare.

Ander segue il mio movimento con sguardo rapito, poi porta entrambe le mani intorno al mio collo e lascia che la collana fuoriesca dalla maglietta. Si rigira il ciondolo tra le dita, scrutandolo con interesse, poi lo apre e ne osserva ammirato l'interno.

«È la tua isola?» domanda, senza tuttavia distogliere lo sguardo. Il suo polpastrello sonda il ciondolo e tasta il rilievo della scritta mentre io mi appresto a rispondere.

«Sì, è un regalo della principessa» confesso arrossendo. Non avrei mai dovuto accettarlo, lo so io e lo sapeva lei, per questo mi ha proibito di aprirlo prima di essere in volo.
«Vuol dire la casa si trova dov'è il cuore»

«Ti manca casa?» domanda a bruciapelo, pronunciando le parole in un sussurro e a velocità tale che ci metto un po' per recepirle e comprendere che si aspetta una risposta.

Una risposta da cui è intimorito, me ne rendo conto perché adesso è tornato a mordersi le labbra e la sua gamba ha ripreso a picchiettare ritmicamente contro il divano.

Mi prendo del tempo per rispondere e l'attesa sembra sfiancarlo, ma ho bisogno di ponderare le parole da usare, diluire gli aspetti di me che voglio conosca e continuare a celare quelli di cui voglio tenerlo all'oscuro.

«Un po'» ammetto, e questa prima rivelazione sembra in parte sopire la sua agitazione. Vorrei limitarmi a dire solo questo senza rivelarmi troppo, poi mi sovvengono le parole della principessa Anya, il suo invito a brillare, mostrare la mia luce, e improvvisamente la mia lingua sembra sciogliersi.

«Mi manca guardare il mare quieto dalla finestra della mia camera, udire l'infrangersi delle onde contro gli scogli come sottofondo alla mia giornata, rifugiarmi nel mondo dei sogni sotto al mio fidato baldacchino e fare il bagno nella vasca dei miei genitori.»

Ander ascolta in silenzio la mia confessione, probabilmente stupendosi del fatto che anch'io sia in grado di articolare un discorso che vada oltre i monosillabi. Non credo di aver mai parlato così tanto di me. Non credo di aver mai parlato così tanto in generale. Lui sembra apprezzare, sorride e mi incita a continuare.

«Mi mancano i miei genitori» esalo, rendendomi conto solamente in questo istante che la loro assenza mi pesa più di quanto io sia disposta ad ammettere. «Non ci sentiamo spesso, mi mandano dei messaggi ogni giorno ma telefonano raramente, sono molto impegnati».

Ander mi scruta incerto, non pare comprendere il motivo per cui siano così distanti, quindi mi appresto a continuare. Gli racconto del Generale Maggiore Edna Berger e del Consigliere del Re Marius Kofler, di quanto mi reputi fortunata ad essere nata da loro e di quanto il paragone con loro mi abbia sempre fatta sentire piccola, scialba, bianca.

Sono un fiume in piena e mi domando da dove sia spuntato il coraggio. Non l'ho mai avuto, io sono una che fugge, lo sono sempre stata. E con ogni probabilità lo sarò sempre.

Ho sempre avuto troppa paura di rompermi per concedermi totalmente a qualcuno, non mi sono mai fidata completamente e per questo mi reputano schiva. Io lo chiamo istinto di conservazione, ma non mi aspetto che capiscano. D'altronde non hanno idea del considerevole numero di schegge che si possono formare dal cristallo.

«Mi mancano persino gli estenuanti allenamenti di difesa personale a cui mi sottoponeva mia madre» cerco di sdrammatizzare quando ormai i toni cupi sembrano aver avuto la meglio.

Ander solleva un sopracciglio e piega la bocca in un sorriso sbilenco, ha un'espressione corrucciata ma divertita quando ripete: «Difesa personale?».

Confermo con un cenno del capo, salvo poi mettermi in piedi per mostrargli alcune delle tecniche che mi ha insegnato mia madre. Non ho mai avuto bisogno di utilizzarle, tuttavia già conoscerle mi fa passeggiare più tranquilla, soprattutto se si considera il fatto che non sono esattamente alta – anche se qui a San Francisco ho rivalutato i miei standard – e che più magra di un chiodo.

«Quindi è lei che ti ha insegnato come uccidermi se tento di abbracciarti da dietro?» mi interrompe proprio mentre gli mostro il colpo congiunto di gomito e piede che gli ho riservato al compleanno della madre. Ho quasi dimenticato che è stato la mia cavia.

«Esatto» cerco di trattenere una risata al ricordo della smorfia di dolore che gli ha deturpato il viso per alcuni istanti. Ander sembra divertito dal mio gesto, quindi mi afferra un polso e mi fa capitolare addosso a lui, intrappolandomi in un abbraccio forzato.

Sono seduta sulle gambe, la mia schiena che aderisce al suo petto più di quanto avrei consentito a chiunque, e mi immobilizzo quando le sue labbra si poggiano sul mio collo.

È un tocco delicato, lo schiocco di un bacio è l'unico suono che rimbomba nell'ambiente, seguito da molti altri. Inclino il capo – un gesto incontrollato, quasi innato direi, frutto di quegli istinti primordiali che tanto mi terrorizzano – e percepisco il sorriso di Ander sulla pelle. I suoi denti sfiorano la cute e io rabbrividisco, spingendomi contro di lui.

Le sue mani vagano sulle gambe: non mi curo delle ginocchia ossute né dei fianchi spigolosi, lui sembra più interessato alle cosce che vibrano al suo tocco. Ricordavo di averle serrate e invece le trovo schiuse, pronte ad accogliere le mani di Ander che le stringono piano.

Sono i sentimenti di pancia che mi animano, non controllo il mio corpo perché loro hanno preso il sopravvento senza che me ne accorgessi. Non ho nemmeno l'illusione del dominio, sono consapevole di essere in sua balia e lascio che sia lui a comandare i miei movimenti, inerme. E io odio essere inerme.

Così nel mio petto divampa un nuovo sentimento: insieme al fuoco che mi accartoccia i polmoni e spinge il cuore al limite c'è il terrore più puro, quello che paralizza e scuote in contemporanea, trasformando i ricordi in scenari impervi e proponendone di nuovi.

«Hilda» è più un sospiro il suo, mi scuote perché pronuncia il mio nome. Non lo utilizza mai.

E così al terrore si aggiunge il panico, il fiato corto dal respiro mozzato, l'impossibilità di reagire, di capire cosa stia succedendo fuori da me mentre dentro sto impazzendo. È in atto una guerra, ghiaccio e fuoco si combattono e nessuno sembra uscirne vincitore.

Passiamo alcuni istanti in silenzio, continuando a non guardarci negli occhi. Lui non sembra respirare mentre io forse respiro per entrambi. Sto ancora ansimano per il tocco delle sue labbra sul collo quando parla di nuovo.

«Non scappare da me, Hilda, ti prego...»

Ander mi sta chiedendo un salto nel vuoto. Mi chiede di restare dopo aver ascoltato la mia storia. Ander conosce il mio passato e vuole impedirmi di fuggire, ma solo a parole. Le sue braccia non mi stringono più, sono avvolte intorno al mio busto con delicatezza.

Poggia il mento sulla mia spalla e solletica il collo con la punta del naso, in attesa. Almeno non ho bisogno di rifuggire i suoi occhi, non sarei in grado di sostenere il suo sguardo in queste condizioni; non con la decisione che sto per prendere.

Ander mi sta chiedendo un salto nel vuoto e io non sono pronta. Quindi mi alzo.

Buongiorno, alla buon'ora ☀️ Scusate il ritardo ma ho avuto un'esercitazione e avevo la testa altrove 🦋

Adesso penso sia giunto il momento di scappare in Messico prima che possiate uccidermi. Io vi adoro, davvero, ma Hilda mica è tanto sveglia... lei ha paura dei sentimenti e quindi fugge, che devo dirvi? Prendetevela con lei!
Io sono innocente, mi limito a riportare i fatti u.u

Vi chiedo solo di andarci piano con gli insulti perché questa signorina non ha ancora finito di fare cazzate, conservatene alcuni per dopo, fidatevi 😂 Ah, e ovviamente qualcuno per Ander, non è mai stato uno stinco di santo 💅🏻

Luna Freya Nives

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