Capitolo 1. Ryan

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Il ragazzo inglese

Tra gli studenti di quel prestigioso college inglese, un mormorio tranquillo segnava la fine delle lezioni; tra compagni, ci si guardava e rideva.
Era una giornata come un'altra.
Con le loro divise accollare, le cravatte porpora e le camicie fresche di tintoria, gli studenti faticavano a seguire (o ignoravano) gli ammonimenti monotoni della professoressa in questione.
C'era chi masticava la gomma, chi continuava a guardare l'orologio in modo impaziente...
Poi c'era lui, era triste, si teneva la testa tra le mani e guardava i fogli del quaderno immacolato.
Sembrava tenersi dentro un mondo intero; un mondo lontano dal college e dal suo giardino rurale.
Magari pensava ad una città, magari ad una casa o ad una persona...
Non di certo alla lezione.
Quando la campanella di fine giornata suonò, irrompendo e segnando l'inizio della baraonda a seguire, prodotta da quella classe quarta, lui non si spostò da lì.
Rimase immobile, a fissare le righe monotone del quaderno, stringendo con le dita affusolate, la cute del capello, trattenendo a stento le lacrime.
Appena si rese conto che era suonata, prese le sue cose, con più calma rispetto ai suoi compagni e uscì dall'aula con lo sguardo basso e il passo stanco di... Di non sapevo ancora cosa.

Io? Io sembravo uguale agli altri, non sorridevo né più né di meno, il mio aspetto goffo non era diverso da quello di molti miei coetanei; ma non mi piaceva il casino nelle orecchie e nemmeno quel fare fastidioso e arrogante dei miei compagni.

Giravo per il college con l'atteggiamento di un emarginato, di uno che non dovrebbe stare lì.

A mia madre e al suo nuovo marito non bastava tenermi lontano da mio padre, no... Loro per farlo arrabbiare mi avevano iscritto a quella dannata scuola privata.
I miei compagni erano tutti ricchi e con genitori facoltosi, io ero invece il classico allampanato di ceto medio.
I miei capelli neri sembravano una macchia di petrolio con una lunghezza fin troppo elevata per quel secolo. Avevo gli occhi color muschio e sul contorno dell'iride diventavano di un color nocciola.
Ero troppo alto per la mia età, troppo magro e con le mani troppo grosse.
Non mi piaceva lo sport, né fissare le ragazze sotto la gonnella purpurea e non ero nemmeno inglese.

Ero uno sfigato, né più, né meno; ma stranamente la definizione mi andava a genio, meglio essere me stesso che snob come quegli inglesi sboroni.

Ma ormai frequentavo quel college da quasi tre mesi e fino a quel momento mi ero guadagnato il premio di "ragazzo invisibile" o quando ero visibile, "testa bagnata".
Sì perché quelli che negli anni '50 avremmo chiamato "teddy boys", oggi li avevo in camerata e si chiamavano, Eliot, Sonny, Terry e Marlon, che se rimorchiavano qualche bionda di terza classe non mi filavano nemmeno di striscio, ma se rimanevano a secco, con il tubo di irrogazione diventavo il loro divertimento di riserva.

Poi alla fine di una lezione particolarmente tediosa e fastidiosamente rumorosa, osservavo Will Matthews con la testa fra le mani, sembrava che il suo mondo perfetto gli si fosse ritorto contro.
Will Matthews tra tutti gli sboroni, è il più popolare, il più ricco, quello che ad una festa portava l'alcool.
Lui sapeva dove trovare le cose, scherzosamente, lo si chiamava "lo spacciatore", o il "playboy" perché aveva sempre una bionda sottobraccio.
Negli ultimi tempi frequentava Tessa Richardson, la bionda con il cerchietto tra i capelli e la cravatta dai disegni più evidenti, la cheerleader che portava i nastri gialli e che era la migliore amica di Ronda Todd.

Ma era strano che stesse così... certo, non me ne sarebbe dovuto importare nulla, ma qualcosa mi portava a chiedermi cosa avesse, cosa lo tormentasse in quel modo.
Rimasi a fissare Will e la cattedra a intervalli regolari, con la penna blu tra le labbra e l'evidenziatore tra l'indice e il medio, oltre che la matita dietro l'orecchio.
Quando suonò la fine di quelle ore pomeridiane, tiravo su lentamente le mie cose ma Will non sembrava essersi accorto che tutta la nostra classe se ne era già - con la delicatezza di un elefante in un negozio di vetrerie - andata via. Ero tentato di dirgli qualcosa ma rimasi zitto e uscì strisciando lo zaino e la giacca sul pavimento scuro.

La mia camerata era terribile, 12 stanze, tutte da 4 e un bagno per ognuna oltre la doccia in comune: cercavo sempre di trovare l'orario meno affollato per farla, detestavo essere guardato.
A casa, non dividevo il bagno con nessuno, mamma e il suo nuovo marito avevano il loro, come io il mio. Ero figlio unico, preciso e spesso noioso, ma anche solitario. Non mi piaceva la gente ed essere un diciassettenne che non voleva nessuno intorno, a cui non piaceva farsi vedere o semplicemente parlare, veniva definito da questi inglesi, un atteggiamento da gay.
Non ero gay, non avevo nulla contro questo indirizzo sessuale ma ero solo il tipo di persona che voleva fare i cavoli propri, tanto a nessuno piacevo, quindi che senso aveva stare in mezzo a persone che non mi volevano? Certo, magari ero un poco paranoico ma avevo le mie idee ed ero convinto che sbagliare da solo, fosse meglio di essere deriso a vita.

Tornato in stanza, due dei miei compagni erano assenti e c'era solo Lucas, lo salutai con un gesto della mano e buttai lo zaino a terra prima di distendermi sul letto bitorzoluto a fissare il soffitto. Volevo tornare a casa, a Denver in Colorado. Volevo tornare a girare in bici per il quartiere, con l'aria fresca tra i capelli e il sole negli occhi.
Volevo tornare a casa.

-Ryan... Ryan!- mi chiama Lucas e lo guardo, disinteressato. -come ti è andata il test di francese?- mi chiede lui con un sorriso.

-bene, credo, ho preso B+ e a te?-

Stringe le spalle. -C+... Mi daresti una mano?-

Annuì. -sai cosa hai sbagliato?-

-I verbi, le coniugazioni-

Sospiro, guardando il soffitto. -comincia a leggerle ad alta voce, poi traducile e inseriscile in una frase di senso compiuto- e lui inizia fare come ho detto. Il soffitto è grigio e visibilmente storto, i puntini bianchi sono le gomme che intelligentemente i miei vicini hanno lanciato per aria, facendo a gara a quale rimaneva attaccata; poi ci si stupiva se non avevo mai i capelli puliti.

-senti Luke, tu continua a studiare, io devo fare una telefonata- dichiaro svogliatamente.
Lascio la camera trascinando i piedi dopo aver lasciato la cravatta e la giacca. Percorro la camerata e tutto il primo piano del college, fino alla segreteria dove la signora Fitz mescolava il tè nella sua tazza di topolino.

-Ryan caro, come posso esserti d'aiuto?- mi chiede mettendosi gli occhiali sulla punta del naso.

-vorrei fare una telefonata- e da dietro il vetro spesso mi fa passare il telefono fisso nero con la rotella. Compongo i primi numeri senza problemi, ma poi mi passa a fianco Freya Blackwood e con un sorriso, prende la cornetta.

-faccio presto, ti prego...- dice sbattendo le folte ciglia.

-scordatelo rossa, sono arrivato prima io- dico riprendendomi il telefono e piazzandomelo di nuovo all'orecchio. La signora Fitz mi guarda con un espressione della serie "dai, dalle il telefono" e prendo un profondo respiro. Poso la cornetta e gliela passo.

-5 minuti Blackwood, poi tocca a me- lei sorride.

-grazie Bennett, mi ricorderò la tua gentilezza..- mi dice sorridendo. Le lascio spazio e lei, sposta la chioma rossa sull'altra spalla, butta la gomma e compone il numero con le sue dita ossute, con la sua curatissima manicure rosa confetto.

-ciao Tiago, sono Freya, senti mi passi mamma, o anche papà, ho bisogno di parlargli... grazie Tiago- poi mi guarda con un sorrisetto. -sì, ciao mamma... sto bene, sì,sì sto bene, voi?- e alza lo sguardo facendo delle facce assurde, facendo sorridere anche me. -ah, ah... senti, verrai al weekend dei genitori anche se papà deve essere operato? ... ah, okay- ha l'aria triste. -sì-sì, non c'è problema sarà per la prossima volta; no non sono triste, va bene, non preoccuparti- sembra ancora più triste. -sì-sì le priorità... non preoccuparti mamma, ci sentiamo presto- mette giù.

-mi dispiace Freya- le dico cercando di essere gentile.

-non voglio la tua pietà Bennett, sto bene-

Stringo le spalle. -senti Freya non sarai di certo l'unica a non poter vedere i propri genitori, anche i miei non vengono quindi me ne resterò in camera, non è la fine del mondo...- ma lei sembra triste, tanto triste. -se, avessi voglia di compagnia, lo sai dove sto... la porta è aperta per regola generale e se vuoi vieni- poi indico il telefono. -vorrei il telefono...-

Annuisce e quando sta per andarsene si gira. -forse accetterò la tua proposta, grazie Ryan... davvero-

Detto questo prendo di nuovo il telefono e guardo la signora Fitz. -sei contenta?-

-sei stato bravo, sono fiera di ciò che hai fatto per una tua compagna- mi dice con un sorriso. La signora Fitz ricorda un pò una vecchia zia o una nonna, con i capelli in piega e gli occhiali a mezzaluna e quei completi di cotone spesso sempre color pastello e tantissimi anelli nelle dita.
Finalmente prendo il telefono e compongo il numero. Al terzo squillo mi viene risposto.
"pronto"

-Tony sono Ryan, c'è la mamma?-

"Ryan, potresti cercare di essere più gentile, magari chiedere come sto o come va la giornata"

-ma fammi il piacere... passami la mamma-

Sento un cambio d'aria e un "è tuo figlio". "Ryan..."

-sì mamma sono Ryan, chi vuoi che sia? Hai altri figli di cui non sono a conoscenza?-

"no-no ma non mi aspettavo una tua telefonata... come stai?"

-bene, ho preso B+ in francese ma vaffanculo, dimmi se hai sentito papà-

Lei sbuffa. "Ryan... sì l'ho sentito, ti saluta tanto e vorrebbe venirti a trovare ma con il lavoro e la nuova famiglia non riesce"

-beh almeno ti sei fatta dare il suo numero così lo chiamo-

"Ryan per favore... no, lo sai che non mi farò dare il suo numero e non te lo passerò, tu non parlerai con tuo padre, è un violento e non ti farebbe andare a scuola"

Alzo lo sguardo. -okay beh allora non abbiamo altro da dirci- metto giù e per poco non lo sbatto per terra.

-Ryan...- la signora Fitz mi guarda con aria triste.

-sto bene... vado- ma quando mi volto trovo ancora lì Freya. -hai ascoltato la mia telefonata Blackwood?-

Lei abbassa lo sguardo. -sì mi dispiace, e mi dispiace per tua madre-

Stringo le spalle. -è una stronza e questo già lo sapevo, non voglio la tua pietà, sono sempre Ryan anche dopo quella telefonata-

Lei fa un piccolo sorriso e mi offre una mano. -penso che tu possa piacermi, Bennett... vieni facciamo una pazzia-

Un pò giù, un pò arrabbiato, accetto la sua mano e comincia a tirarmi, mi tira lungo un corridoio e giù per una scala, poi subito a destra e sempre stringendomi la mano, usciamo da una porta e l'aria fresca del pieno pomeriggio mi si schiaffa in faccia.

-non pensarci, non pentirti... andiamo Ryan- e sempre con la sua mano incrociata alla mia, lungo il confine del college, poi fuori da una porticina secondaria. Siamo liberi...

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