IX

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

La manifestazione, che era contemporanea ad altre manifestazioni in tutta Italia, era filata senza incidenti o guai, ma il peggio doveva ancora venire, perché dopo la festa di piazza, c'era da tornare a scuola a sgombrare il campo e riassestare le aule e tutto il resto perché, in fondo, lunedì ricominciava la scuola, quella con bidelli e professori.

Ecco la sorpresa: il preside, frustrato per quella sconfitta personale e per certi cartelloni poco carini a suo indirizzo, si era barricato dentro la scuola, facendo chiudere a chiave tutte le porte, così i professori e i collaboratori scolastici erano dentro, e gli studenti erano fuori a protestare per un atto di una tirannia.

«Sfondiamo!» si era sentito dal mucchio, ma era una cosa scema, nonostante quello fosse stato il momento più sessantottino di tutta quella autogestione. E ancora più alti picchi di umanità si erano raggiunti quando il nostro glorioso professore di Fisica ebbe il coraggio di uscire, tacendo nonostante tutte le richieste e i cori, per appendere un foglio in cui si leggeva che lui e altri professori si dissociavano dal comportamento del preside, con le firme in calce.

I cori all'indirizzo del comportamento fascista del preside davano bene l'idea dello smarrimento di noi studenti: eravamo stati presi talmente alla sprovvista da questo suo asserragliarsi che non avevamo la più pallida idea di come reagire, e scaricavamo la rabbia nell'unico modo possibile, cioè riempiendolo di ingiurie.

La protesta saliva, più che per questo comportamento dispotico, per il fatto che centinaia di zaini erano dentro la scuola ma non erano proprietà della scuola, e ai relativi proprietari veniva negata la possibilità di recuperarli. Qualcuno giustamente aveva iniziato a battere le mani sui vetri delle entrate, da un momento all'altro ci si aspettava l'inizio dei veri e propri vandalismi.

Dieci minuti più tardi era comparsa una macchina della polizia facendosi strada sulla rampa di accesso all'ingresso. I poliziotti erano entrati nella scuola in un clima di attesa, facendosi spiegare le ragioni da un preside paonazzo.

La scuola, nonostante l'intervento della polizia, era stata riaperta solo alle ore 13.15, e questo perché il preside non era totalmente pazzo, ma assai furbo: appena usciti per andare alla manifestazione, aveva fatto sbarrare le porte sostenendo che chi non era in classe all'orario di inizio delle lezioni non aveva diritto ad entrarvi fino alla fine delle lezioni, per quello ci aveva tenuti fuori fino all'una e un quarto.

Ci aveva guardato tronfio per quella battaglia vinta, proprio alla fine dell'autogestione, di quei finali con colpo di scena che nessuno si aspetta.

Io comunque me ne ero tornato a casa con il mio bel numero di telefono in tasca. Non sapevo come usarlo, quando usarlo, e soprattutto non sapevo come presentarmi. avevo pensato di spacciarmi per un compagno, un sempreverde Marco o Matteo, che aveva bisogno di compiti. Avrebbe funzionato, ero ottimista.

Sulle domande dei miei riguardo la manifestazione ero rimasto sul vago, me l'ero sbrigata in fretta tappandomi in camera a mixare i soliti sottopiatti, tentando di registrarmi con i miei metodi rudimentali. Avevo iniziato a scrivere una lista di cose che mi sarebbero servite per essere 'meglio' di quello che ero in quel momento, ma la lista era lunga e i soldi erano zero. Non avevo più niente da vendere, però magari potevo rimediare qualcosa per natale.

Lunedi 13 dicembre 1993

Il weekend era passato senza sussulti, ma il lunedì mattina mi aspettava qualcosa che non avevo mai sperimentato e che al primo contatto mi era sembrato sgradevolissimo.

«Oh Cecchi, dove eri finito sabato? Sei andato a scopare con la tipa?».

«Ma se ero lì in giro, siete ciechi?».

«Ma va là, non c'eri, eri imboscato, sei andato a casa sua? È di Cesena?».

«Si, si. Cioè no! Non sono andato a casa sua!».

«Ma fa il classico? Come cazzo fa una del classico a mettersi con te?».

«E come fa tua mamma a non avere mai il resto quando devo pagarle i bocchini sulla statale?».

E questo aveva chiuso il primo incontro in maniera brutale, ma già si avvicinava il secondo.

«Cecchi ma la tua tipa non è primina, vero?».

Mi era venuto da rispondere qualcosa tipo «Ma che cosa ve ne frega?» poi una specie di film che mi vedeva protagonista in gloria mi aveva fatto essere più concreto:

«No, non è primina, fa la terza. Cioè la prima liceo».

«Scusa, fa la terza o la prima?».

«La terza» avevo tagliato corto, e lui aveva fatto una faccia divertita.

«Vai con una di terza sul serio?».

«Eh si» e mi sentivo gonfiare di orgoglio.

«Ma da quanto state insieme?».

«Un po'» avevo miseramente mentito.

«Allora scopate?» e la giostra era ripartita.

Nel vero senso della parola perchè al suono della campanella eravamo piombati nella stessa scuola che avevamo lasciato, con la differenza che i prof erano rimasti indietro di due settimane ed erano schizzati. Avevo subito cinque ore di spiegazioni intervallate solo brevemente e solo per lamentele da parte dei prof per quelle due settimane buttate al vento.

Quarto non si era visto, i nostri leader chissà dove erano, forse a parlare di Stalin con l'assistente di officina che veniva a scuola con il fazzoletto rosso legato al collo.

Per tutti, consapevoli o meno, quello era l'ultimo anno lì: il preside era rimasto muto fino a giugno per poi essere trasferito all'Istituto Tecnico per Geometri, al suo posto sarebbe stato spedito all'ITI un tapperotto obeso e buonista; quelli di quinta erano stati tutti diplomati e finiti a lavorare o all'università ma in ogni caso (come deve aver pensato il preside) a spaccare le palle altrove; l'assistente di officina era andato in pensione a fare la fine di mio nonno litigando al bar.

Io, quel pomeriggio, avevo chiamato la Greta e il mio stratagemma non era stato nemmeno necessario perchè mi aveva risposto lei in persona, avevamo parlato del rientro a scuola dopo l'autogestione, del weekend, del fatto che stavo provando a registrare dieci minuti di Chiodo Deejay, sperando che non le facesse troppo cagare. Avrei voluto vederla e le avevo chiesto se le andava che andassi a salutarla davanti a scuola la mattina dopo. Mi aveva dato appuntamento alla barriera. Così, tutto contento, mi ero rimesso ai piatti, ma puntando la sveglia per le dieci e mezza di sera.

Martedi 14 dicembre 1993

Le luminarie di natale erano offuscate dal tempo piovoso, ci eravamo visti per pochissimo perchè la pioggia mandava in tilt il traffico e lei era già praticamente in ritardo, le avevo promesso di essere lì anche il giorno dopo e mi ero diretto di pessimo umore verso la scuola.

Ero entrato in ritardo, e già entrare in ritardo quando c'era quella di italiano significava, per me, avere per tutto il tempo gli occhi puntati addosso. Figurarsi quella mattina in cui stava imperversando con l'elenco delle motivazioni sbagliate di quella autogestione, perchè non essendo in servizio lunedì, doveva per forza scartavetrarci i coglioni il martedì, tanto che il mio compagno di banco mi aveva scritto velocemente a matita sul banco UN BUONGIORNO A VOI E UN BUONGIORNO A ME che mi aveva strappato una mezza risata.

«Cecchi, non c'è molto da ridere, non trova?».

«Scusi prof».

«Avete avuto due settimane per ridere, per divertirvi, per giocare agli autogestori, adesso è il momento della serietà, di cui deficitate, come deficitate di altre cose, come il senso critico, la capacità di elaborazione. Facciamo un esempio».

Le avrei piantato un paletto nel cuore quando diceva «Facciamo un esempio».

«Stiamo facendo italiano, quindi è bene capire se siamo in grado di comprendere un concetto, sia esso scritto o orale. Lei Cecchi, è stato alla manifestazione sabato?».

«Eh... si».

«Non è convinto? Ci è stato o no?».

«Si».

«Allora mi potrà fare una specie di riassunto delle idee innovative che la vostra protesta ha apportato al dibattito sulla scuola italiana».

Erano seguiti momenti in cui avevo fatto quasi scena muta, la prof aveva spostato l'obiettivo su un altro poveraccio "a caso". Ma Casadei alla manifestazione non ci era neppure venuto, era stato nel suo letto, cosa che avrei fatto anche io se non avessi passato la mattina con Greta.

«Io prof non sono venuto alla manifestazione, non mi sono sentito bene la notte».

«Lottare per i vostri alti ideali vi debilita facilmente. Anche lei Cecchi non si sentiva tanto bene? Magari è uscito prima, aveva la gara di pallacanestro?» che già chiamarla pallacanestro lo odiavo. Ma mi era toccato fare scena muta, nuovamente, mi sembrava assurdo essere perculato da un'insegnante che non sapeva nulla di me e non poter nemmeno replicare dando il senso della mia splendida mattina con la mia ragazza.

«Questi minuti vi siano da lezione per capire che in questi quindici giorni avete un po' giocato a fare i grandi. Sarebbe già buona cosa se alla fine arriverete a capire che non usufruire del vostro diritto e dovere di studenti è stata una forma di protesta inutile che ha penalizzato solo voi stessi, e che non vi ha portato alla sintesi di nessun aiuto al dibattito sulla scuola. Avete solo perso tempo».

Avevo ripensato a quei giorni, alla scoperta del djing, alla scelta volontaria di liberarmi di cose mie per raggiungere qualcosa che desideravo, al perdere il senso del tempo facendo ciò che amavo, al modificarsi profondo delle amicizie quando affronti snodi della vita, al primo vero rapporto di vicinanza con l'altro sesso, al malessere per una bugia importante detta a una persona che non volevo perdere, all'ebbrezza dell'attesa, al dispiacere per il poco tempo assieme, al promettersi di mangiare assieme i cappelletti della Festa dell'Unità.

Non avevo perso tempo, anzi, avevo vissuto un condensato straordinario di tempo, attraverso cui mi sembrava di essermi trasformato in un essere diverso, speravo migliore.

Mi ero alzato, mi ero diretto alla cattedra, l'avevo guardata.

Avevo preso la sua stilografica, preziosa come la pelliccia appesa dietro di lei, o la borsa firmata, o la collana, o i braccialetti, gli orecchini, o qualsiasi altra cosa che aveva addosso e che non c'entrava molto con il suo stipendiuccio da insegnante di istituto tecnico. L'avevo scappucciata e sulla mia riga avevo segnato una A.

Assente.

Poi ero uscito, sotto la pioggia, non me ne fregava più o meno nulla, ero andato al negozio di musica dove avevo comprato il mixer, mi sembrava fosse successo secoli prima. Ci ero entrato e ci avevo passato un sacco di tempo, poi, una volta fuori, avevo aspettato la campanella del classico e trovata Greta, l'avevo abbracciata imbarazzatissima. E poi basta.

Mi ero ritirato alla fine del primo quadrimestre. Poco dopo la storia con Greta era finita. ero troppo pieno di me per avere una ragazza più grande, parlando di cose che non sapevo, e lei non poteva avere a che fare a lungo con uno che abitava a venti chilometri, aveva il coprifuoco alle undici di sera e per la maggior parte del tempo era in punizione come un qualsiasi ragazzino delle medie.

Non ho più rimesso piede all'ITI perché in quella scuola non mi sono mai trovato e non sento di esserle mai appartenuto. La mia amicizia con Molo si è profondamente modificata, passando dalla simbiosi a qualcosa di più simile all'amicizia tra due persone quasi mature, con i suoi alti e bassi.

L'anno dopo mi sono iscritto al Comandini, perché relativamente più semplice e perché era uno dei modi per terminare più in fretta l'odissea scolastica. I miei avevano continuato a non dirmi niente del fatto che ero uno scansafatiche anche quando ero riuscito a prendere il diploma dopo il triennio e mi ero messo a fare tardi praticamente tutte le sere aiutando Stanghellini alle feste, per poi dormire fino a pomeriggio, anche se sono tuttora convinto che lo pensassero e forse lo pensano ancora. Il mio ex compagno Molo si è poi diplomato all'ITI, col massimo dei voti ed ora è in Repubblica Ceca a lavorare per una ditta informatica.

La scuola pubblica italiana in effetti non è cambiata come speravano Baro e Trotsky, anzi è peggiorata, e peggiorerà ancora.

A gennaio del 1994, in piena crisi con Greta avevo smesso anche di giocare a basket, rinunciando a ciò che fino a sei mesi prima era praticamente la mia vita.

Ma ero convinto che sarebbe stata solo una parentesi, che avrei ricominciato magari a primavera, magari il settembre successivo.

Sto ancora aspettando di ricominciare.


Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro