VIII

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Venerdi 10 dicembre 1993

Uno degli argomenti di cui si parlava di più in quei giorni della seconda settimana era l'eventuale organizzazione nel caso l'autogestione si fosse trasformata in una vera e propria occupazione, con tanto di sacchi a pelo e robe del genere, che di per sé non sarebbe stata una cosa molto diversa da un campeggio fra quattro mura se non per l'eventualità dell'arrivo della celere per sgombrare a forza le aule.

Non ricordo cosa pensavo dell'occupazione, ma probabilmente non avevo intenzione di appoggiarla perché prendere le manganellate non era la mia massima aspirazione, soprattutto se dovevo dormire in sacco a pelo con i miei compagni che puzzavano di carburatore, mi sembrava più che sufficiente l'autogestione e, verso la fine, persino quel non far niente in classe iniziava ad annoiarmi a essere sinceri. avrei preferito essere altrove, tipo a casa sui giradischi o, al massimo, al classico.

Non parlavo molto con i miei compagni e men che meno con quelli più grandi, e figurarsi se mi mettevo a parlare con dei veri adulti per confrontarmi su similitudini e divergenze tra noi e quelli del '68. Di mio continuavo a pensare che certi comportamenti estremi sarebbero stati fermati in tempo, anche se di occupazioni ne davano notizia tutti i giorni anche i telegiornali, ma io rimanevo scettico, e coloravo il cartellone assieme ai miei compagni e un'altra classe di prima, l'unica classe che aveva tre ragazze tra gli alunni: era un certo piacere vedere una ragazza in classe, non mi succedeva dalla fine delle medie.

Una era strana, per quel poco di mondo che avevo visto nella mia vita, dicevano che fosse di origine belga, o avesse uno dei due genitori belga, o avesse vissuto in Belgio. insomma qualcosa che avesse a che fare con il fiamminghi e valloni. Era magra, bionda, occhi chiari segnati da occhiaie, così come chiara era la pelle. era tutta in nero, comprese le calze semicoprenti, la mini stretta e gli anfibi e Stava in ginocchio sulla sedia a lavorare, con il sedere per aria, e ciò che mi lasciava perplesso è che sembrava perfettamente in un altro mondo mentre la mini saliva a ogni suo ondeggiare.

In corridoio i tizi, dopo essere entrati con la scusa del cartellone ed averla trapanata per bene, si scambiavano commenti che i discorsi dal barbiere a confronto erano salmi dedicati alla Beata Vergine.

La seconda ragazza era un maschio, portava capelli mori piu corti dei miei, tozza, dalla carnagione piuttosto scura, e sotto la salopette aveva una felpa azzurra dei Miami Dolphins, una squadra di football americano che conoscevo perchè ogni tanto guardavo i notiziari sugli sport americani. Del giocatore di football americano lei aveva decisamente l'aspetto.

Delle tre era l'unica con cui avevo interagito, a dirla tutta, ci eravamo fatti anche qualche battuta sul basket, ma avevo capito che tifava Portland e quindi dove voleva mai andare, poteva sfottere solo i boscaioli, o al massimo i tifosi dei Sonics.

Per quanto riguarda la terza ragazza, beh, bisogna fare una specie di premessa: non ero politically correct, non ero sensibile verso il genere femminile, ma non voglio nascondere quello che pensavo solo alla luce di come sono cambiati i tempi. Pensavo semplicemente di avere a che fare con una troietta.

Più avanti negli anni ho capito che i maschi parlano di troiette quando hanno di fronte ragazze che non capiscono fino in fondo, che magari per carità veramente amano il sesso e si disinteressano delle convenzioni, ma soprattutto che non li hanno fatti partecipi delle loro abitudini sessuali.

Dopo dieci minuti avevo capito che si chiamava Daria. Nonostante fosse dicembre era in camicetta col seno in esplosione, jeans stretti a vita bassa, mutanda tutta fuori e io stavo male perchè a qualsiasi maschio le facesse battute sugli slip fuori lei rispondeva mettendo in dubbio la sua mascolinità, e io non capivo dove stava lo scherzo e dove stava la lucida ferocia, e soprattutto non capivo dove voleva arrivare. Le volevo fare una battuta per cui non esistesse diritto di replica, ma il tempo era passato e non avevo trovato nulla, le lanciavo qualche occhiata così di sfuggita, lasciandola al ping pong con un paio di ripetenti che si stavano divertendo un mondo a provocarla prospettandole serate di occupazione in cui ci sarebbe stato bisogno di scaldare le aule gelide con i propri corpi.

Unico diversivo a quelle mattine rarefatte era Casadei, che cercava disperatamente di dimenticare la profezia della prof di italiano sperimentando un petardo da lui rielaborato, che tuonava come se fossimo arrivati al Giorno del Giudizio. Ma il giorno del giudizio, almeno per noi piccoli studentelli, stava veramente arrivando: sabato, il giorno della manifestazione.

Sabato 11 dicembre 1993

Dalla scuola eravamo partiti in molti, anche perchè eravamo assieme a quelli della Ragioneria con cui condividevamo il cortile e l'Albero dell'Amore. Forse ci avevano gasato quei mezzi di informazione di cui invece uno studente deve imparare a diffidare, ma lo spazio tra le due scuole era gremito e i discorsi che gli impegnati di quinta si erano preparati sembravano calorosi, memorabili, da spellarsi le mani di applausi nei passaggi sentiti i giorni precedenti.

Che sia vero non lo so, non li ascoltavo del tutto, diciamo che mi accontentavo del tono di voce, magari neanche pensavo che i grandi dittatori erano stati anche dei grandi oratori. Ma cosa volete farci, avevo quattordici anni e di politica cosa potevo saperne? Non guardavo certo il telegiornale e i miei genitori risultavano asettici davanti alle decisioni del governo. come tutti si lamentavano delle bollette, specie di quelle telefoniche di cui ero il maggiore colpevole, ma per il resto non ho mai visto i miei rimanere svegli per vedere i risultati delle elezioni.

Mio nonno paterno invece ci teneva molto: si infervorava in attesa che il suo PDS, ex PCI, vincesse finalmente le elezioni per scalzare dal governo gli altri partiti di centro che chiamava con dei nomi tanto sconci quanto comici, e al bar lo sentivo da dietro il divisorio dei videogiochi che ululava quando trovava da discutere di politica. .

Per parte mia, l'unico contatto diretto e tangibile con la politica era il Festival dell'Unità che tutte le estati veniva a spaccare le orecchie piantando le tende nel campo sportivo non lontano da casa mia: con i loro gazebo coprivano a tappeto tutta l'area del centro, e se da un lato godevo nel vedere il campo da calcio occupato dal palco e dal ristorante, ci stavo male a non vedere più sgombri i nostri campetti da basket dove consumavo le Jordan.

E poi la sera, quando girava il vento e saliva la brezza di terra, le ugole d'oro che si susseguivano sul palco mi tormentavano le nottate, cosicché imparai ad odiare il liscio e soprattutto le orchestre di liscio. Ancora oggi potete farmi sentire la peggior immondizia musicale, potete darmi i più squinternati trapper da masticare, e per me saranno canti di cherubini in confronto alle orchestre di liscio.

L'unico lato positivo che aveva il festival dell'Unità era che in fondo si mangiava bene, anche se poi ci andavo con mio nonno che mi esibiva come una specie di trofeo ai suoi amici: ero l'emblema di una nuova generazione di sinistra che cresceva bene, a cappelletti e salsicce, la figura perfetta del «nipote futuro compagno».

Probabilmente avrei raccontato quelle cose anche a Greta, non appena l'avrei vista, e non avevo dovuto aspettare molto davanti alla piadinara chiusa. Era arrivata un po' titubante, ma aveva allargato il sorriso quando mi aveva visto, salutandomi e abbracciandomi.

Erano partiti fischi e «ohohooo» di qualche mio compagno, ma loro li conoscevo: li avrei cercati uno per uno e uccisi.

«Si, questi sono i miei compagni, purtroppo quando distribuivano i compagni io ero al bagno e mi sono toccati gli scarti».

Ero stato insultato variamente, non mi ricordo nemmeno che cosa ci eravamo detti, avevamo scambiato battute stupide, legate ai nostri difetti, finchè qualcuno aveva tirato fuori la storia che quella di italiano mi avrebbe lasciato in prima se non mi fossi dato una mossa. Ci ero arrivato un po' dopo che mi ero messo nei guai a dirle che avevo quindici anni.

Una volta rimasti soli, avevo subito provato a capire se per lei era una cosa grave, non mi sembrava avesse il volto scuro, ma va a capire le donne.

«Senti, scusa, è vero sto ancora in prima».

«Tranquillo Ale, ci sta che non ne volevi parlare».

Confuso, ero rimasto sul vago per vedere di capire meglio cosa intendeva: «No, è che a te veramente ci tengo, scusa per questa bugia, questa specie di bugia».

«Non ti preoccupare, non mi interessa se stai ancora in prima, però dai non farti bocciare la seconda volta, devi impegnarti!».

Seconda volta, ok, avevo capito, pensava fossi ripetente, la balla dei quindici anni era salva. Ero tutto contento, l'avevo baciata con trasporto, una volta e un'altra ancora, finché la marcia per la manifestazione era diventata solo uno sfondo tratteggiato appena, sul quale noi continuavamo a baciarci, a stringerci e a finire fuori dal flusso principale, appoggiandoci ai muri freddi, labbra contro labbra.

Eravamo finiti sugli scalini dei portici di Piazza Almerici, faceva freddo ma almeno non pioveva, continuavamo a parlare e baciarci, le avevo dato la cassetta fatta a mano, e lei la teneva nel mio walkman con le cuffie all'orecchio mentre guardavo la sua faccia entusiasmarsi o spegnersi a seconda dei pezzi che le piacevano o meno.

Eravamo finiti a parlare del mixer e dei giradischi, dell'arte del DJ, della commistione fra la musica che amava suo padre e la tecnica del loop e del campionamento. Le avevo promesso di registrarmi e di farle sentire come andavo mettendo comunque le mani avanti sul fatto che ero alle prime armi.

Ma continuava a girarmi per la testa un pensiero.

«Greta, bisogna che ti dica una cosa».

Non avevo sensazioni così negative da mesi, forse da anni, forse mai.

«Non sono ripetente, e quindici anni li faccio ad aprile».

Lei era rimasta un po' di sasso, «Hai veramente solo quattordici anni?» mi aveva chiesto.

«Si, mi dispiace, ti ho detto una cazzata perchè avevo paura che mi scaricassi. Cioè sedici te, quattordici io. Dai non mi sembrava una cosa fattibile».

Era stata a lungo in silenzio, avrei dato il mio mixer per sapere cosa le passava per la mente, non sapevo cosa dire e forse era meglio non dire nulla.

«Non la immaginavo così questa mattina. A dover pensare alla differenza di età».

«Lo so, dovevo dirtelo subito» ma poi avevo pensato che dirlo prima o dirlo dopo l'avrebbe comunque costretta a fare i conti con la mia età da bamboccio.

«Tu hai paura di questa differenza?» mi aveva chiesto.

Mi ero detto che quella risposta valeva tutto, era la palla in mano con un secondo e mezzo sul cronometro e sotto di uno. Prima di rispondere avevo chiesto mentalmente il timeout. Il mio timeout era comunque una lotta contro il tempo, era un non voler stare troppo a lungo in silenzio ma al tempo stesso confezionare una risposta che avesse un senso per lei e per noi due.

«Ci ho pensato, ne ho avuto paura. Ma ne ho paura solo quando non stiamo insieme, perché quando siamo insieme siamo, come dire, in equilibrio».

«Tipo equilibrista sul filo».

«Si beh, magari qualcosa di meno pericoloso».

Eravamo scoppiati a ridere, e forse la risposta che avevo confezionato non era poi così lontana dalla realtà. Comunque ci aveva salvato.

Quando avevamo visto i primi tizi risalire verso le scuole, ci eravamo alzati anche noi, di mala voglia, la guardavo continuamente per capire se fosse cambiato qualcosa in lei, e sinceramente non lo capivo perché non avevo esperienza in quelle cose. Ci eravamo abbracciati, avevamo camminato fino alla piadinara e poi lì davanti era arrivato il momento di staccarsi ma lei sembrava si aspettasse qualcosa.

Qualcosa cosa? Santi numi avevo iniziato a sudare sotto la felpa, cosa voleva? Cosa poteva desiderare? Offrirle una piadina? Una bibita? Un nuovo appuntamento magari, si magari quello!

«Ti va se ci rivediamo, allora?».

«Oh si, si si, hai carta e penna?».

Per cosa?! Panico.

«Si, ecco» avevo trovato tutto, ed ero lì con quelle due cose in mano.

«Se puoi, non chiamare dopo le sei, ok?».

Ale, che coglione che eri, mamma mia, lei voleva darti il numero, per organizzare gli appuntamenti, per essere dei veri morosi, e non sempre appesi al vedersi a scuola! Avevo segnato il numero e le avevo dato il mio, l'avevo baciata di nuovo e lei mi aveva detto «Lo avrei capito comunque adesso, che hai quattordici anni, mister deejay».


Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro