VII

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Chiodo non è che sia nato già grande, è stato un ragazzino, si è capito.

Così come si è venduto tutto quello che aveva, portandosi a casa tre scatoloni che avevano fatto incazzare come una iena sua madre, solo perchè si era fissato con l'idea di diventare DJ, così aveva preso anche quella specie di prima cotta molto seriamente, tanto da mettere quasi allo stesso livello le due cose.

Lei era Greta, e in realtà di anni ne aveva sedici. Fisicamente era uno scricciolino, pelle chiara, capelli lisci, sguardo che non ti fissa mai per più di qualche attimo prima di distogliersi. Il padre, jazzista dilettante, l'aveva avviata al clarino e lei bene o male stava imparando, dipanandosi con il liceo classico, guarda caso.

Riassunto. Lei, figlia di jazzista, sedicenne minuta, clarinettista, liceo classico.

Io, figlio di stronzi, quattordicenne troppo alto, fissato con la musica da discoteca, traballante all'ITI.

Che bello raccontare l'amore impossibile, in realtà non era stato così impossibile, a parte che le avevo detto che di anni ne avevo già quindici, proprio perché speravo di non perderla per la strada. Nel percorso tra il negozio e la stazione dei pullman avevamo parlato un sacco, complice forse quella cosa della musica, e devo essere onesto, avevo fatto i salti mortali per non sembrare un cretino che campava di Festivalbar.

Fino alla stazione avevamo continuato a parlare, anche dell'autogestione, delle vacanze di natale, e di quando sarebbe finita la scuola per tornare al mare, del mare, del caldo, di dove andavamo e cosa facevamo in estate. Dello Steccalecca e del Supermario e del fatto che avevo passato un'estate piuttosto complicata a fare bagnino, barista, cameriere e tutto il resto.

Mi chiedevo continuamente se fossi noioso o se me la stessi cavando, speravo nella seconda e lasciavo correre i minuti.

E i pullman, dato che era passato quello delle sei e venti per Cervia.

«Quello è il tuo pullman?».

«No, quello va dall'altra parte di Cervia, il mio arriva tra un po', non ho fretta, te non hai freddo?».

«No, tranquillo, sono ben imbottita».

Alle sette passate, quando ci eravamo mollati senza il coraggio di chiederle un numero, avevo iniziato a domandarmi come cazzo sarei tornato a casa perchè il pullman delle sei e venti era ovviamente l'ultimo della giornata e chiamare i miei voleva dire sentire lamentele a non finire per tutto il viaggio. Avevo optato per il treno, fino a Rimini, poi fino a Cervia, ciuffando una bici con il cestino, presentandomi a casa a un orario assurdo, con una pila di scatoloni e dovendo più o meno spiegare tutto ai miei.

Non era andata molto bene, diciamo. Era arrivata anche mia nonna a sentire cos'era successo dopo tutte quelle grida. Poi era arrivato anche mio nonno, allora mio padre si era un po' calmato, aveva spiegato a grandi parole quello che era successo, e mio nonno lo aveva liquidato in fretta:

«U i ni foss ad burdell ch' i'n t'ven a dmandé di baioc par tu dla roba e i s'arenza, dai va là andiv a let». e rivolto a me «T'ci propì un pataca»..

Ed era finito tutto, come se due frasi in dialetto fossero una formula magica. Io non mi ero nemmeno fatto la doccia, ero andato con i miei scatoloni in camera, un paio di cuffie scrause in testa, avevo assemblato il mixer ed i giradischi ed avevo iniziato a passare da un disco all'altro dei miei cinque vinili terribilmente usurati, comprati per due spiccioli da Stanghellini che probabilmente li usava come sottopiatti.

«Ale, io non voglio litigare di nuovo, ma ti rendi conto dell'ora?».

Mio padre mi aveva trascinato di nuovo nel mondo reale, sbuffando, stropicciandosi gli occhi, era in pigiama sullo stipite della porta di camera mia. Automaticamente avevo guardato la sveglia: mezzanotte e tre quarti, abominevolmente tardi per il Cecchi Alessandro del 1993. Il mio massimo tirare tardi era per guardare NBA Action su Telemontecarlo il venerdì sera, e anche per quello a casa mia ero sempre a rischio burrasca.

«Scusa, non me ne ero accorto».

E mio padre mi aveva guardato in un modo rassegnato che ancora oggi non saprei dire se fosse per me in generale o per quella cosa del mixer. Va da sé che non era andato oltre nel rimprovero, si era fatto andare bene quelle scuse e per me era già un mezzo miracolo.

Giovedì 9 dicembre 1993

Non mi faceva impazzire il classico, ero lì solo per lei, mi sentivo fuori posto e si vedeva tutto.

Mi sarebbe piaciuto rivederla, parlare un altro po', ma ero un maschio dell'ITI, e i maschi dell'ITI avevano un romanticismo sviluppato quasi come la vista di una talpa. Si diceva che anche la vista difettasse all'ITI a causa dell'abuso di porno in cassetta, ma credo che la scienza abbia smentito.

Da maschio dell'ITI, non avevo certo provato a rivederla mercoledì, perchè un uomo non deve chiedere mai, come quello del Denim, che bruciava sulla pelle rasata come la conferenza stampa del 6 ottobre. Ma sentivo che c'era qualcosa di particolare e avevo preso il coraggio a due mani piazzandomi davanti al liceo prima dell'apertura, cercandola.

Nonostante l'altezza non l'avevo vista, e già mi maledicevo pensando di essere un rincoglionito quando avevo deciso semplicemente di entrare e iniziare a chiedere:

«Conoscete una Greta di terza?» avevo iniziato a domandare in giro, e avendo ricevuto solo risposte troppo vaghe semplicemente avevo iniziato a girare per le terze, bussando, infilando la testa dentro, guardando rapidamente, dicendo scusa ed andandomene. Il piano era perfetto ma al lato pratico si era rivelato un fiasco, non c'erano Grete, e men che meno quella che cercavo io nelle terze, in tutte le terze. Possibile che fosse ripetente in seconda?

Avevo passato anche tutte le seconde, con lo stesso metodo, ma anche con lo stesso risultato. E alla fine ero quasi in lacrime. Magari aveva detto sedici ma cazzo ne so, ne aveva diciassette o stava per compierne diciassette o era andata a scuola un anno prima o salcazzo cosa avevo pensato e così, sul punto di bussare alle porte con i calci, avevo iniziato l'assurda operazione con le quarte, sperando di non trovare qualcuno che mi chiedesse perchè passavo di porta in porta come un Testimone di Geova.

Aperta la prima porta, mi ero trovato una classe di Puffolandia.

«Scusate» me ne ero uscito, e avevo ricontrollato la targa sulla porta: 4 A.

Ok tutto regolare, ma mi sembrava che qualcosa non quadrasse. Ma siccome Greta non c'era, ero passato alla 4 B trovando un'altra sezione di Puffolandia.

Ma come cazzo era che le quarte erano così che da noi quelli di quarta sembravano tizi usciti da WrestleMania?

«Ma voi siete la quarta B?».

«Si».

«Quarta, sicuri?».

Mi avevano guardato come si guarda un fratellino che ti chiede perché la Pimpa parla e il cane dei vicini si limita ad abbaiare. Poi avevo riconosciuto uno di Cervia, che aveva la mia età, e improvvisamente avevo realizzato che ero un coglione. Molti di voi avranno già capito il problema, ero in una quarta ginnasio.

Rinfrancato, ed aiutato a fare i conti, avevo ricominciato il giro con le prime Liceo, più convinto che mai, e alla sezione A l'avevo beccata subito. Il naso le era diventato subito rosso come due sere prima, mentre tutti gli altri iniziavano a domandare «Ma chi è?» e lei era schizzata fuori.

«Ma cosa fai qui? Sei dell'ITI!» aveva esordito, imbarazzata.

«Scherzavo, in realtà faccio il bidello qui, ho iniziato oggi l'incarico».

«Che scemo. Ma non puoi entrare in un'altra scuola!».

«Oddio, non è che ho incontrato tanta resistenza» avevo replicato, «Senti, non so, ce l'avete il bar interno voi?».

«Bar cosa?».

«Lascia stare, è che non volevo stare qui in mezzo al corridoio».

Era imbarazzata, alla fine aveva detto «In biblioteca» e l'avevo seguita.

Manco lo sapevo che esistessero biblioteche dentro le scuole, ma se da noi c'erano i trapani a colonna, era plausibile che da loro ci fosse una biblioteca. Non c'era praticamente nessuno e ci eravamo infilati in fondo a una scaffalatura.

«Senti... scusami ma l'altra sera ti ho tenuta al freddo, ma stavo troppo bene. È un periodo di casino ma con te il tempo è passato in un attimo. Vorrei... rivederti».

«Anche io Ale, sei... divertente, e... mi piaci» mi aveva risposto, non staccando gli occhi da me.

Se avessi veramente avuto l'età che le avevo detto, mi sarei attaccato a ventosa, forse se lo aspettava anche, ma giova ripetere che di bacini ne avevo dati solo in spiaggia e con zero impegno, ve lo posso assicurare. Lì si faceva sul serio, lo avevo sentito subito, e così avevo giusto appoggiato le labbra alle sue, pochi attimi, ridendo dentro. Ma chissà se erano stati veramente pochi attimi.

«Boccaccio in sezione Scienze, Boccaccio in sezione Scienze» avevamo sentito, rovinandoci il momento. Maledetto invidioso del cazzo, era una voce maschile, che non avevo individuato, ma che avrei tanto voluto per prenderlo a cinquine fino alla tombola. Lei era color divisa dei Bulls. Così eravamo usciti ma senza affrettarci, come dire che ce ne andavamo ma eravamo nel giusto.

«Che figura».

«Che guardoni, scuola di guardoni».

«No è che non si dovrebbe andare in biblioteca per... stare insieme».

«Ti va sabato di venire alla manifestazione con me?».

«Si, si, volentierissimo».

Ci eravamo dati appuntamento alla Piadina davanti alla Malatesta Novello alle nove. Ero gioioso, ero felicissimo, era la prima volta nella mia vita in cui uscivo da una biblioteca con quello stato d'animo. Quel pomeriggio prima di accendere il giradischi avevo setacciato le radio per farle una cassetta, si lo so, facevo ancora le cassette, i masterizzatori mica tutti ce li avevano, e poi mi ero speso tutto per i due giradischi ed il mixer.

Non è che potevo fare tutto io, eh.


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