VI

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Mercoledi 1 dicembre 1993

Il terzo giorno di autogestione ero andato al Comandini, mi aveva invitato proprio lo Zava, sosteneva che non ci fossero grossi problemi per entrare e uscire durante la giornata e che non sarei stato l'unico "ospite".

Era vero, c'erano dei tipi che avevo visto davanti a altre scuole, e che erano lì perchè c'era un ragazzo di quarta nella sezione degli impianti elettrici che si era inventato una specie di corso di Djing. Non era proprio un corso, era più una mini discoteca, ma questa cosa mi aveva lasciato senza parole: suonava roba più house della eurodance che piaceva a me, ma vederlo al lavoro così a due passi, con i due piatti, per me era magia.

Mi ero installato di fianco a lui, come una parte dell'impianto, a osservarlo come fanno i ragazzini di oggi con i tutorial su youtube. Dopo una sessione durata 25-30 minuti si era fermato a bere, e così avevamo iniziato a parlare di quella magia che lui sapeva fare e io no.

Alla fine, il problema per me era solo uno: il costo dell'attrezzatura.

Tornato all'ITI per l'intervallo, mi ero messo in un angolo a fare due conti per tirare su abbastanza soldi per l'acquisto. Chiedere ai miei era fuori discussione, era da settembre, più o meno, che non tirava una buona aria, da quando mi ero accorto che non mi consideravano "perfettamente riuscito". Si vedeva che erano delusi da me, e oramai avevo quattordici anni,troppo tardi per loro per cercare di mettere in cantiere un fratello che mi superasse per intelligenza.

Io però non credo di essere così stupido: il fatto che non sia riuscito ad esprimere la mia intelligenza a scuola non dovrebbe dare adito a nessuno di considerarmi una palla persa, e sono il primo che ha avuto la fortuna di conoscere un sacco di gente capacissima anche senza aver ricevuto una «Adeguata istruzione». Anzi, forse sono quelli ancora più capaci, perché arrivati a comprendere i fini meccanismi della vita senza il bisogno di leggere le risposte su un testo scritto.

Laurea da marciapiede, la chiamo io.

Ma i miei hanno sempre pensato in maniera diversa, forse perché essendo mio padre laureato e mia madre una brillante ragioniera, aspiravano a vedere il figlio arrivare almeno al loro livello, se non superarlo.

La mia incapacità ad adattarmi a quella scuola, allo studio, sommata all'autogestione di cui non capivo neanche i reali motivi, avevano distrutto i loro castelli di carta dei miei: loro non sapevano come invertire la rotta se non proponendo lezioni di recupero che io rimandavo al mittente dicendo che ce l'avrei fatta da solo, il cane si mordeva la coda e non diceva nemmeno cai.

Comunque, da quel momento avevo una nuova fissazione: comprarmi un impianto da dj. Avevo iniziato a fare l'elenco delle cose che potevo vendere per ricavare qualche soldo, diversi pezzi che avevo montato sullo scooter, un paio di palloni da basket, una divisa dei Bulls che, grazie alla mia altezza, avrei potuto rifilare anche a un sedicenne o diciassettenne. Ero fiducioso di farcela, specialmente se fossi riuscito a spillare qualche diecimila lire a mia nonna.

Giovedì 2 dicembre 1993

Diversi miei compagni, tra cui Molo, sarebbero andati al Motor Show domenica 5, e inizialmente anche io volevo andarci. Molo mi era servito per convincere i miei a sborsare i soldi del biglietto, che però erano stati immediatamente accantonati per il mixer.

Non era stato facile dirlo al mio più caro amico:

«Senti, ti ringrazio che mi hai dato una mano per la cosa del Motor Show, ma non posso venire».

«Ma come no? E allora cosa li hai convinti a fare i tuoi?».

«Devo mettere da parte dei soldi».

«E che devi fare, devi scappare?».

«No, macchè, devo comprare delle cose».

«Pezzi per il motorino?».

«No, no. Altro. Voglio comprare un giradischi e un mixer».

«Ma dici sul serio?».

«Si, ho avuto l'illuminazione, Molo. Voglio diventare un deejay».

«Ma smettila, hai visto due volte un coglione del Comandini cambiare due dischi e vuoi imitarlo».

«Sono serio, e non devo stare a discutere con te cosa mi piace, tanto il Motor Show lo faranno anche il prossimo anno».

«Sei un coglione, ma io non sono una spia, non dico niente ai tuoi. Che fai, ti alzi lo stesso alle sei e fai tutta la finta di venire?».

Quando avevo annuito, Molo si era fatto pensieroso. Aveva mugugnato qualcosa tra i denti e poi era tornato a guardarmi serio.

«Pensaci bene, è una balla troppo grossa per una stronzata. Se ti sgamano succede un casino.»

«No, fidati, andrà tutto bene».

Domenica 5 dicembre 1993

«Andrà tutto bene» me l'ero continuato a ripetere anche mentre me ne andavo in giro per Cesena domenica, e vi giuro che una giornata intera era stata lunghissima.

«Andrà tutto bene» me lo ripetevo anche mentre mi infilavo in stazione senza farmi vedere, aspettando gli altri per fare la scena di quelli che erano stati la Motor Show tutti assieme.

«Andrà tutto bene» me lo ripetevo ancora, anche in macchina, e poi a casa mentre mio babbo mi chiedeva come era andata squadernando qualche adesivo che Molo mi aveva preso a testimonianza del mio viaggio. .

Stavo facendo qualcosa di vigliacco ma avevo un motivo serissimo per farlo, non avevo dormito proprio benissimo ma alla fine era andata. Era andata bene.

I successivi giorni erano andati così: dalle otto all'intervallo stavo al Comandini a rompere le palle a Stanghellini, quello di quarta. Dopo l'intervallo, durante le 'lezioni', lgiravo per le classi con una specie di postalmarket fatto in casa con le polaroid di quello che avevo da vendere.

Fondamentalmente, io, come molti altri, continuavo a fregarmene di questo tentativo di dare un senso all'autogestione, senza apprezzare gli sforzi di chi teneva corsi improvvisati per non ridurre tutto a un farsi i cazzi propri. Ci avevo provato, però. Avevo provato ad andare a sentire un corso sulla musica, solo che stavano parlando di gruppi metal e grunge, generi di cui sinceramente non mi fregava nulla. Mi sentivo fuori posto in mezzo a anfibi, jeans stretti e camicie da boscaiolo, così dopo poco me ne ero andato.

Martedi 7 dicembre 1993

L'unico contributo all'autogestione che avevo dato era stato in vista della manifestazione indetta dalle scuola l'11 dicembre: c'erano da preparare i cartelloni di protesta, si richiedevano slogan non tanto 'intelligenti' quanto 'decenti', avevamo dovuto scartare a malincuore "Jervolino fammi un bocchino" o qualcosa del genere, ripiegando sulla sempre fascinosa immagine di una lapide con tanto di epigrafe "Jervolino RIP»". C'era anche uno striscione, lungo, diviso in più parti, ma non mi ricordo nemmeno cosa c'era scritto.

Lavoravamo al cartellone di buona lena, come dei bambini delle elementari per la mostra di disegni di fine anno. La direzione dell'autogestione aveva chiesto a tutti gli alunni di rimanere anche qualche pomeriggio, e io lo facevo volentieri nonostante detestassi quella scuola, perché alla fine stare a casa era peggio, con le domande su quando finiva quella cretinata dell'autogestione e su come stava andando.

In quei pomeriggi c'era un silenzio quasi irreale, come se, finito il normale orario di lezione, nessuno avesse più voglia di andare contro le regole scolastiche. Si sentivano addirittura le macchine passare sul cavalcavia.

Martedi, alle cinque e mezza me ne ero andato, era già un buio pesto, ma avevo camminato verso il centro con il mio zaino vuoto, arrivando davanti al negozio di strumenti musicali. Avevo un pacco di banconote in tasca, rimediate nei modi più assurdi compreso aver raccontato frottole sulla benzina dello scooter, sulla cancelleria della scuola, sui panini della merenda.

In dieci giorni avevo truffato quello che non avevo truffato nei precedenti quattordici anni di vita, mi ero venduto qualsiasi cosa di valore avessi a portata di mano, persino lo Swatch Red Knot che mi avevano regalato il natale precedente.

Il tutto per prendere quei due giradischi e quel mixer sognavo così tanto che ero entrato nel negozio quasi timoroso. Ma all'uscita, stracarico com'ero, avevo rischiato di distruggere tutto rovinando a terra.

«Ti aiuto?»

Ero già pronto a dire no, ma quel no, al suono di quella voce bellissima, me l'ero tenuto ben stretto. Ancora oggi mi chiedo se, tutto imbacuccato per il freddo, lei non avesse ben capito la mia età e fosse rimasta tradita dall'altezza.

«Hai la macchina qui?» mi aveva detto tenendo la scatola del mixer, la più leggera delle tre.

«No, devo arrivare alla stazione dei pullman».

«Cavolo, ne devi fare di strada».

«Lo so, ma ero così gasato di venire a prendere queste cose che non avevo pensato al loro ingombro».

«Fai così, appoggia una scatola qui, una la metti nel portapacchi e quella piccola nello zaino ci sta» mi aveva detto, indicando la sua bicicletta, una di quelle olandesi con il cestino che un maschio della mia età si sarebbe vergognato per sempre se l'avesse dovuta usare. Io avevo aperto lo zaino ed era arrivata una zaffata di odore di grasso minerale nonostante ci fossero si e no quattro gradi. Lei si era ritratta un attimo.

«Scusami, in questi giorni ci ho messo pochi libri e molti... ricambi».

«Si, conosco il genere».

E così ce ne eravamo andati verso la stazione, all'inizio con un po' di imbarazzo, un po' di silenzi tra una frase e l'altra, la punta del suo naso un po' arrossata e io che per un po' avevo dimenticato che da grande volevo fare il DJ.

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