17. I was made for loving you - Parte I

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Cari amici e lettori

Devo ammettere che ho adorato scrivere questo capitolo di BROKEN - Il passato tra noi.

Credo sia uno dei più importanti e dei più commoventi di tutta la storia (ma aspetto che mi diciate voi se siete d'accordo con me oppure no :D).

Ancora una volta la musica mi è stata di grande aiuto e ispirazione 

Senza di essa sarei perduta! 

Come sempre ci tengo a RINGRAZIARVI DI CUORE per tutte le visualizzazioni, i commenti, le correzioni, i suggerimenti e le stelline che lasciate.

Ognuna di queste cose è davvero importante per me ❤ 

Ma basta cianciare :D 

Vi lascio alla prima parte di questo capitolo, con la speranza che vi emozioni leggerla quanto ha emozionato me scriverla ❤ 

Vi auguro buona lettura

Vi adoro ❤❤❤

"Hold me close through the night

Don't let me go, we'll be alright

Touch my soul and hold it tight

I've been waiting all my life

I won't scar your young heart

Just take my hand

Cause I was made for loving you"

I was made for loving you - Tori Kelly ft. Ed Sheeran



Le strade del Destino

A mio figlio Marco,

affinché conosca la verità

e possa liberamente scegliere la strada del suo Destino.


Sin da bambina ho sempre saputo cosa sarei diventata da grande. Tutti i bambini lo sanno. Ciascuno ha una propria idea, ben definita, su ciò che vorrà essere una volta entrato a far parte del mondo degli adulti. E io non facevo eccezione. Sapevo di voler diventare una scrittrice. Ho imparato a scrivere a quattro anni. Riempivo ogni pezzo di carta che trovavo in giro per casa con parole a caso, scarabocchiate a grandi lettere sgangherate.

E mi piaceva. Adoravo lasciare la mia traccia ovunque potessi, mi faceva sentire libera.

Poi sono cresciuta e la mia voglia di scrivere non ha fatto che aumentare. Scrivevo sul mio diario segreto, sul giornalino scolastico, sulle panchine per strada. A volte affidavo i miei fugaci pensieri a piccoli bigliettini che abbandonavo qui e là, sull'autobus, sul tavolino di un bar, tra le pietre di un muro di un vecchio edificio. Mi piaceva l'idea di condividere un pezzetto di me con qualcun altro, un estraneo che non avrei mai conosciuto, che non avrei mai incontrato.

E poi un giorno, tornando a casa dall'università, ho trovato qualcosa scritto sulla panchina dove solevo sedermi per aspettare il pullman. Una panchina a cui avevo affidato più di un mio pensiero. E sotto l'ultima frase che avevo scritto, vidi dei numeri. Osservai con più attenzione. Potevano essere degli scarabocchi senza senso, ma a me non sembrava che lo fossero. La mia frase recitava:

Siamo tutti soli a questo Mondo.

Potremmo scegliere di vivere nel Deserto

o nella Metropoli più affollata del Pianeta,

e non farebbe differenza.

Non esisterà mai un denominatore comune.

E sotto le mie parole erano comparsi questi numeri:

2   31   73   127   179

Decisi di appuntarmeli su un foglio e quando fui a casa cercai di capirne il significato. Sfogliai il mio vecchio libro di matematica del liceo per giorni, prima di trovare una spiegazione. I numeri che avevo trovato non erano effettivamente numeri qualsiasi. Erano tutti numeri primi. Ed erano 5, altro numero primo. Non credevo che fosse un caso. I numeri primi sono numeri divisibili solo per sé stessi e per 1, quindi non hanno un denominatore comune.

Quello che avevo trovato era un messaggio. Un messaggio per me. Qualcuno aveva letto la mia frase, aveva condiviso la mia stessa emozione e l'aveva fatta sua.

Da quel momento in poi continuai a lasciare frasi e bigliettini su quella panchina, sperando che il misterioso sconosciuto (o sconosciuta) decidesse di farmi dono di un altro pezzettino di sé, o magari di un indizio sulla sua identità.

E poi un giorno, mentre mi dirigevo verso la solita fermata dell'autobus, vidi da lontano qualcuno chino sulla mia panchina, intento a scrivere. Fu così che incontrai l'uomo che avrei sposato e che sarebbe stato l'amore della mia vita: Stefano.

Era un ragazzo alto, castano, con dei bellissimi occhi color nocciola. Me ne innamorai appena il mio sguardo si posò su di lui. E fu allora che lo capii.

Quel giorno capii che sarei stata più che una scrittrice. Un giorno, quando fossi stata pronta, sarei stata moglie, e poi madre.

Ho coltivato quel sogno nel segreto del mio cuore per anni, aspettando che il Destino si compisse. Ma il Destino non ha niente a che fare con i nostri progetti, o i nostri desideri. Il Destino si manifesta quando meglio crede, ponendoci di fronte a situazioni che mai avremmo potuto anche solo immaginare o prevedere.

E fu così che un venerdì mattina di ottobre qualcuno bussò alla mia porta.

Stefano, nel frattempo diventato mio marito, era uscito presto per raggiungere il paesino dove si trovava la scuola in cui insegnava matematica. Così, rimasta sola in casa, andai ad aprire, completamente inconsapevole e impreparata a quello che avrei trovato al di là di quella porta.

Appoggiata alla parete del pianerottolo c'era una ragazza con i capelli lunghi e biondi, gli occhi verdi velati di tristezza e dolore, magrissima, con il volto emaciato e dei brutti lividi che le chiazzavano la pelle pallida delle braccia.

E un pancione enorme.

Disse di abitare nell'appartamento a fianco al nostro e di aver bisogno di aiuto perché le erano appena cominciate le doglie ed era sola in casa.

Sapevo bene che mentiva. Abitavamo in quel condominio da diversi anni e non l'avevo mai incontrata, nemmeno una volta. Ma conoscevo il tipo che abitava nell'appartamento adiacente al nostro, e non era certo una persona che avrei definito per bene, né tantomeno affidabile. In quel momento capii che dovevo fare qualcosa, dovevo aiutare quella ragazza, o avrebbe finito per partorire il suo bambino sull'uscio della mia porta.

Corsi in casa a mettermi un paio di scarpe da ginnastica, afferrai le chiavi della mia Panda e chiusi a chiave la porta di casa. Poi la feci appoggiare a me e la aiutai a scendere le scale.

La corsa in ospedale non la dimenticherò mai. Ero nel panico, quasi più che se fossi stata io ad essere in travaglio. Arrivate al Pronto Soccorso, la affidai alle cure dei medici e stavo per spostarmi in sala d'aspetto, quando la ragazza afferrò la manica della mia giacca di jeans e mi tirò verso di lei.

E mi pregò di non andare.

Voleva che stessi con lei, che non la lasciassi sola. E così feci. Rimasi con lei per le seguenti diciotto ore. Le accarezzai i capelli, le massaggiai la schiena e le tenni la mano.

E lei mi raccontò la sua storia.

Il suo nome era Sara. Aveva diciassette anni ed era un'alcolista. Il nostro vicino di casa era stato per lei l'avventura di una notte. E quando gli aveva comunicato che aspettava un bambino, lui se ne era lavato le mani. Le aveva dato cinquantamila lire e le aveva detto di abortire. Lei aveva pianto tutta la notte e il giorno dopo si era recata presso l'ospedale per procedere con l'interruzione di gravidanza.

Ma mentre era in sala d'aspetto, in attesa che chiamassero il suo nome, Sara aveva accarezzato il suo pancino di due mesi e mezzo, e aveva provato amore. Amore per quel piccolo ospite dentro di lei, quell'esserino che le stava stravolgendo la vita, ma che non poteva fare a meno di amare incondizionatamente. Così aveva preso la sua borsa, si era alzata, ed era uscita dalla sala d'aspetto, senza mai voltarsi indietro.

Da quel giorno aveva cercato di smettere di bere, per il suo bene e soprattutto quello del suo bambino, ma la sua dipendenza si era dimostrata più forte di qualsiasi altra cosa.

Più volte era tornata da quel ragazzo, sperando che cambiasse idea e decidesse di aiutarla, ma non aveva ricevuto altro che botte e rifiuti.

Anche la sua famiglia si era dimostrata contraria a quella gravidanza. Le avevano chiaramente detto che non avrebbero più sopportato tutti i suoi casini, e che se avesse voluto tenere il bambino sarebbe stato un suo problema, non loro.

E così aveva capito. Era rimasta sola. Totalmente e completamente sola. E non ce l'avrebbe mai fatta a crescere il bambino e ad affrontare il suo alcolismo senza l'aiuto di nessuno. Non le restava che una sola cosa da fare, per il bene del suo piccolo.

Fu in quel momento che mi afferrò la mano e la strinse con tutte le forze che le erano rimaste in corpo. E mi chiese il mio nome. Mi disse che aveva notato che portavo la fede. Perciò mi domandò se amavo mio marito. E quando le risposi che era l'uomo della mia vita e che lo amavo più di ogni altra cosa, lei mi guardò, con quegli occhi verdi così belli e allo stesso tempo così pieni di tristezza e solitudine, e mi chiese di amare qualcun altro sopra ogni altra cosa. Mi chiese di prendere il suo bambino e di amarlo come se fosse stato mio. Come se fosse stato nostro. In quel modo sarebbe cresciuto bene, con un padre e una madre che lo avrebbero amato e lo avrebbero aiutato a diventare un uomo.

E io in quel momento non seppi cosa rispondere. Ero scioccata. Mai avrei pensato che una madre avrebbe potuto affidare suo figlio ad una perfetta estranea. E quando provai a chiederle perché avesse scelto me, mi rispose che ero l'unica persona che le avesse dimostrato affetto da molto, molto tempo. Diceva di vedere il buono in me attraverso i miei occhi blu. E a quel punto non potei rifiutare. Sapevo che Stefano sarebbe rimasto sconvolto da tutto quello, che probabilmente il Tribunale dei minori non ce lo avrebbe dato in affidamento molto facilmente.

Ci sarebbero state complicazioni, non ne dubitavo.

Eppure, nel momento esatto in cui Sara mi chiese di avvicinarmi e mi posò tra le mani quel minuscolo fagottino, seppi che ero diventata mamma.

Non lo avevo portato nel mio grembo, non lo avevo sentito trasformarsi dentro di me da piccolo agglomerato di cellule all'esserino che ora cullavo tra le mie braccia. Non lo avevo sentito scalciare, non gli avevo potuto parlare prima che venisse al mondo.

Eppure lo sentivo mio.

Nel momento esatto in cui aprì un occhietto e allungò la sua microscopica manina verso di me, seppi che quello scricciolo era mio figlio e che lo avrei amato sopra ogni altra cosa. Non perché lo avessi promesso a Sara, ma perché era successo e basta. Lo avevo stretto a me e lui era diventato il mio bambino.

Non lo avevo programmato, non lo aspettavo. Lui era semplicemente piombato nella mia vita, come tutte le cose migliori che mi sono successe nel corso degli anni.

Ed io ero nata per amare quel bambino.

Chiesi più volte a Sara, nei giorni seguenti, se non volesse ripensarci, se non avesse cambiato idea. Sapevo che in quel caso il mio cuore sarebbe andato in mille pezzi, ma non avevo nessun diritto di privare Sara della possibilità di essere madre, ne ero consapevole. Ma lei si dimostrò determinata. E dopo aver conosciuto Stefano fu ancora più convinta di aver preso la decisione giusta.

Ci chiese solo una cosa. Voleva scegliere il nome del bambino.

e dopo diverse settimane di trafile burocratiche, di carte, firme, visite di assistenti sociali e psicologi, ottenemmo l'affidamento del bambino.

Quando Sara e i suoi genitori vennero a casa nostra per portarcelo, io e Stefano eravamo emozionati e terrorizzati allo stesso tempo. Anche lui aveva accolto l'idea di prendere il bambino, ma come me temeva di essere impreparato al compito che ci aspettava.

Ma il Destino aveva già fatto la sua mossa. E noi non avremmo mai potuto tirarci indietro. Non senza perdere una parte del nostro cuore.

E fu così che aprimmo la porta, e quando Sara adagiò tra le mie braccia il leggero fagottino, diventammo la mamma e il papà di Marco.


Marco fissò attonito quelle parole per un po', rileggendole ancora e ancora, nella speranza che prima o poi sarebbero diventate più chiare.

Sapeva quello che c'era scritto, ma il suo cervello si rifiutava di accettarlo. Se fosse stato tutto vero, questo avrebbe significato che la sua intera vita non era stata altro che un'immensa bugia.

Sentiva un peso sul petto, come un macigno che non aveva la forza di rimuovere. Il respiro si fece sempre più corto, la pareti della stanza gli sembrarono stringersi intorno a lui sempre di più. Doveva uscire di lì, se ne doveva andare.

Fanculo il libro. Fanculo la verità. Fanculo tutti.

Così si alzò di scatto, rovesciando la sedia sul pavimento, e senza dire una parola, uscì di casa come una saetta, sbattendo la porta alle sue spalle.

Alessandro aveva provato a chiamarlo, a seguirlo, ma poi aveva deciso che, qualunque cosa lo avesse sconvolto a tal punto, aveva bisogno di sbollire da solo per un po'. Conosceva suo fratello abbastanza bene da sapere che cercare di farlo ragionare quando si trovava in quello stato era completamente inutile.

Ora anche lui, però, aveva bisogno di sapere quale fosse la verità che la loro madre aveva nascosto a tutti. Così sollevò la sedia dal pavimento, si sedette alla scrivania e cominciò a leggere il manoscritto. 

Spero che questo assaggio del manoscritto lasciato a Marco da sua madre vi sia piaciuto ^-^

Ma ora dove andrà a rifugiarsi Marco? E cosa ci sarà scritto nel resto del libro?

Sapete che non sono crudele, tra pochi giorni avrete il resto del capitolo ^-^

E se vi piace la storia lasciate un commento e una stellina, mi renderebbe molto felice

Sempre vostra ❤ 

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