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"They say fear is for the brave

For cowards never stare it in the eye

So am I fearless to be fearful

Does it take courage to learn how to cry

So many winding roads

So many miles to go"

Home - Passenger



Erano le sei del pomeriggio quando Aurora uscì dal dipartimento di fisica per dirigersi a casa. Dopo il temporale di quella mattina, le nuvole si erano diradate e un vento gelido aveva preso il posto della pioggia. Nonostante il freddo, aveva scelto di allungare il percorso e prendere la strada che costeggiava l'Arno.

Le luci dei lampioni e delle case si riflettevano nelle scure acque del fiume, mentre il vento ne increspava la superficie.

Aurora si fermò ad ammirare quello spettacolo. Tutto quello le era familiare. Il vento che le scompigliava i capelli, il turbolento scorrere del fiume... le fecero tornare in mente il mare d'inverno. Il suo mare. E subito provò nostalgia di casa. Probabilmente la conversazione di quella mattina con Marco aveva avuto la sua parte di responsabilità. Non pensava che sarebbe riuscita a parlare di nuovo di casa. Non con un estraneo, quanto meno. Era strano come le fosse venuto tutto così spontaneo. Quel ragazzo sembrava avere l'incredibile potere di farla sentire a suo agio.

Ma ora, con il ricordo di casa di nuovo presente alla sua mente, Aurora si sentì improvvisamente fragile, esposta, come se parlare del suo passato con lui l'avesse resa vulnerabile al dolore.

Per i suoi familiari non era un segreto che lei non volesse parlare di casa. Era da prima che si trasferissero che avevano smesso di parlarle di qualsiasi faccenda riguardasse quella che una volta chiamava casa. E lei gli era infinitamente grata. 

Quando era partita, aveva fatto l'unica cosa sensata a cui fosse riuscita a pensare: aveva preso ogni ricordo del suo passato, ogni momento vissuto lì, e lo aveva relegato in un angolino buio e nascosto della sua mente e del suo cuore. E insieme al dolore e alla sofferenze dell'ultimo anno, aveva dovuto rinunciare anche ad ogni attimo di gioia, ad ogni ricordo felice vissuto in quel luogo che per così tanto tempo aveva chiamato casa. 

Era stato l'unico modo per andare avanti, per poter continuare a sopravvivere, in attesa che il tempo potesse alleviare la sua pena e rendere il dolore quantomeno sopportabile.

Ma il peso che sentiva nel petto le suggeriva che non era ancora il momento per poter ricordare. Non era ancora il momento per poter ricominciare.

Un clacson per strada riscosse Aurora dai suoi pensieri, così diede un'ultima occhiata al fiume e riprese il cammino verso casa.

La nuova casa era a pochi passi da Piazza di Santa Maria Novella. Decisamente troppo piccola per cinque persone, ma nel poco tempo che avevano avuto a disposizione i suoi genitori non erano riusciti a trovare niente di meglio. In compenso l'appartamento era stato ristrutturato da poco e ammobiliato secondo uno stile semplice e moderno, con mobili bianchi in perfetta armonia con il parquet scuro che rivestiva i pavimenti. 

Lì però non aveva più il suo piccolo angolo di mondo, e doveva condividere la camera con sua sorella minore, Isabella, mentre il loro fratello maggiore, Falco, aveva preteso di avere una camera tutta per sé.

Pur andando d'accordo con sua sorella, Aurora avrebbe preferito avere un po' di spazio tutto per sé, ma sapeva che non aveva il diritto di avanzare pretese. In fondo il loro trasferimento lì era avvenuto a causa sua, e la famiglia aveva già dovuto sopportare abbastanza cambiamenti nell'ultimo periodo; le sue lamentele sarebbero certamente state fuori luogo.

La casa era composta da tre camere da letto (la terza ovviamente occupata dai loro genitori), la cucina, un salottino con un bel mobile con tanti scaffali che presto suo padre avrebbe riempito di dischi e sua madre di libri, due bagni, e un piccolo stanzino destinato a diventare lo studio di suo padre Tommaso, musicista e compositore. Sua madre, Ilaria, brillante dottoressa specializzata in traumatologia, con il trasferimento aveva rinunciato al suo incarico di primario del pronto soccorso per un posto nel reparto di ortopedia di una clinica privata lì a Firenze.

Ogni volta che ripensava a tutte le rinunce fatte dalla sua famiglia per lei, le si spezzava il cuore. Isabella, all'ultimo anno del Liceo Artistico e studentessa al conservatorio, era stata costretta ad abbandonare tutto ad anno già cominciato, amici, insegnanti, abitudini, per ricominciare in una città lontana dall'unico posto che era sempre stato casa per loro.

Anche Falco aveva fatto le sue rinunce. Laureatosi da poco in Economia e brillante giocatore di pallavolo, aveva acconsentito a proseguire a distanza la storia con la sua ragazza di sempre, Beatrice, rimasta al paese, per stare con la famiglia.

Aurora stentava ancora a crederci... Era passato un anno da quel giorno, quel maledettissimo giorno. Eppure lei aveva la sensazione che fosse accaduto solo qualche attimo prima. Come se il tempo si rifiutasse di scorrere e quei momenti tristi e bui continuassero a ripetersi all'infinito, senza concederle tregua. 

Sentiva ancora il penetrante e nauseante odore di disinfettante, il fortissimo cerchio alla testa e il dolore, quel dolore diffuso ovunque nel suo corpo, così forte da non saperne rintracciare l'origine.

Un mese. 727 ore e 47 minuti. Quello era il tempo che Aurora aveva perso in quel letto di ospedale, in coma. Quello era il tempo durante il quale il mondo era andato avanti senza di lei. I giorni successivi al suo risveglio non ricordava nulla di quella maledetta sera. Era come se il suo cervello avesse posto un velo su ogni dettaglio che potesse causarle ulteriore sofferenza. E anche se avesse ricordato, non avrebbe potuto parlarne ugualmente. La capacità di parlare aveva impiegato più della memoria a tornare.

Lo stato di parziale amnesia era durato poco. Troppo poco a suo parere. 

Il primo ricordo di quella notte le tornò quattro giorni dopo il suo risveglio, in tardo pomeriggio. Era in piedi davanti alla finestra della sua stanza, lo sguardo fisso sul via vai di macchine nel parcheggio dell'ospedale. All'improvviso aveva sentito una fitta lancinante alla testa, e le era tornata in mente l'immagine di una luce accecante e il rumore di uno schianto. 

Il resto era tornato un po' alla volta, nei giorni seguenti. Per riprendere a parlare, invece, le ci erano voluti due mesi. La prima cosa che era riuscita a dire era stato il nome di lui. Poi era rimasta in silenzio un'altra settimana, per scelta. Aveva scoperto che parlare a volte è molto più doloroso che rimanere semplicemente in silenzio.

Per raccontare di quella notte, invece, le ci erano voluti sei mesi. Ne aveva parlato una volta sola, davanti ad un avvocato e un paio di carabinieri. Sapeva di doverlo fare, sapeva che era necessario. Quello non voleva dire però che le fosse costato meno.

Alla fine era tornata a ricordare, aveva ricominciato a parlare. Non le restava che tornare a vivere. Ammesso che fosse possibile per lei. A volte Aurora aveva la sensazione che la sua vita fosse finita quella maledetta notte. 

O almeno la vita come l'aveva vissuta sino ad allora. 

Il presente le sembrava un sogno sbiadito, come se al risveglio dal coma fosse stata catapultata nella vita di uno sconosciuto. Ogni cosa le era estranea, incolore, come guardare un vecchio filmino di famiglia in cui non riconosci nessuno.

«Aurora sei tu?»

«Sì, sono io. Mamma non è ancora tornata?» Posò lo zaino nell'ingresso, insieme al cappotto e al cappello, e si diresse in cucina, guidata dalla voce di suo fratello.

«No, mamma ha detto che stasera farà tardi, deve studiare le cartelle di alcuni pazienti. Ci raggiungerà dopo cena. Sai che fine ha fatto Isabella?»

«No, oggi non l'ho sentita per niente, e io sono uscita poco fa dal dipartimento. Ma cos'è questo profumino?»

Aurora sollevò il coperchio della pentola sul fuoco e inspirò l'aroma del risotto che sobbolliva piano nel brodo.

«Risotto allo zafferano. So che ti piace molto, e immaginavo avresti avuto bisogno di qualcosa di buono alla fine della prima settimana qui. Com'è andata? È stato molto difficile ambientarsi?»

«Beh Falco, onestamente non posso dire di essermi già ambientata... Una settimana è troppo poco tempo per sentirsi a proprio agio in un posto che non si conosce... E a te com'è andata? Hai avuto fortuna con qualche annuncio di lavoro?»

«Sì, penso di aver trovato un posto come barista in un locale che ho notato l'altro giorno, proprio dall'altra parte dell'Arno. La paga non è male.»

Aurora lo guardò attentamente, cercando di decifrare l'espressione sul volto del fratello, nel tentativo di carpirne i pensieri e le intenzioni.

«Lo sai che a mamma verrà un infarto quando le dirai che vuoi fare il barista, vero?»

Falco continuò a mescolare il riso, lo sguardo fisso sul contenuto della pentola, come se non avesse udito affatto le parole di Aurora. Lei sapeva bene cosa significava quella reazione: il fratello stava ignorando il problema, fingendo che non esistesse. Ma lei decise di non demordere.

«Falco... Hai almeno intenzione di dirglielo?»

Lui lasciò cadere il cucchiaio nella pentola, afferrò con entrambe le mani il bordo della cucina e fece un respiro profondo. Poi si voltò e la guardò negli occhi.

«Se proprio lo vuoi sapere sì, ho intenzione di informarli stasera al termine della cena. Comincerò a lavorare lunedì, e con i turni che farò non posso inventarmi nessuna balla. Presto o tardi verrei beccato comunque. Tanto vale affrontare la questione subito, tanto so già che si incazzeranno. Ma non ho bisogno del loro permesso, perciò...»

«E Beatrice? Cosa ne pensa di questo nuovo lavoro?» chiese Aurora titubante.

«Beh, direi che non è certo entusiasta. È convinta che stando al bancone e avendo a che fare con molta gente, in particolare ragazze... beh, è convinta che questo ci allontanerà.»

«E tu cosa ne pensi? Di tutta la situazione intendo.»

Fece una pausa, incerta se fosse il caso di proseguire.

«Insomma, state insieme da quando? La seconda superiore? Pensi davvero che una qualunque sconosciuta potrebbe intromettersi tra voi?»

«Aurora, non è questo... Non si tratta di conoscere un'altra persona. Il problema è la distanza. Il tempo cambia le persone, e se non si cambia insieme si finisce per perdersi. È di questo che ho paura io.»

Aurora si avvicinò al fratello, gli poggiò il mento sulla spalla sinistra e gli accarezzò i capelli sulla nuca, nel tentativo di fargli sentire la sua vicinanza. Ascoltando le parole di Falco aveva provato una vera e propria fitta allo stomaco. Sapeva bene che tutta quella sofferenza era colpa sua, e non aveva idea di come poter rimediare.

In risposta, il fratello accennò un sorriso malinconico, e poggiò la mano sulla sua. Bastava quel semplice gesto per farle capire che lui non la riteneva responsabile. Ma questo non riusciva affatto a farla sentire meglio. 

Falco era il suo fratellone. 

Quando era piccola lo considerava il suo eroe, sempre pronto a difenderla dai mostri che si nascondevano sotto il letto. E quando era diventata un'adolescente, dai ragazzini che la prendevano in giro. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter tornare indietro a quella notte e cambiare le cose. Non solo per lei, ma soprattutto per la sua famiglia, per il suo eroe.

«Tranquilla, piccola. È tutto okay. Vedrai che si sistemerà tutto. Troveremo un modo per far funzionare le cose» disse Falco abbracciandola.

«Hai ragione tu. E sappi che per la questione del lavoro... Se è questo che desideri ora, io sono dalla tua parte. Insomma, lo sai, lo sono sempre... Ti voglio bene fratellone.»

Sussurrò le ultime parole all'orecchio di lui, come fossero un segreto tra loro.

«Te ne voglio anch'io, sorellina. Lo sai che per te farei qualsiasi cosa» rispose lui, stringendola ancora di più a sé. Poi la lasciò andare e sorrise.

«Beh, ora basta con le smancerie, o qui il risotto si attaccherà tutto al fondo. È la mia unica arma per ingraziarmi mamma e papà prima di dargli la notizia.»

Aurora rise. «Hai ragione, ora ti do una mano a preparare il resto della cena e ad apparecchiare. Sperando che mamma abbia finalmente tirato fuori dagli scatoloni le tovaglie.»

Tre ore più tardi Aurora era in camera sua, sotto il pesante piumone azzurro che ricopriva il suo letto. Isabella non era ancora rientrata in camera. Molto probabilmente era crollata sul divano mentre guardava un programma in TV. 

Come programmato, al termine della cena, Falco aveva fatto il suo annuncio. E come previsto, i genitori non l'avevano presa affatto bene. Lei aveva provato a prendere le difese del fratello, ma lo sguardo raggelante di sua madre le aveva fatto intendere che erano questioni in cui avrebbe fatto meglio a non intromettersi. 

Alla fine Falco aveva chiarito che nessuno avrebbe potuto dissuaderlo dal fare quello che voleva, e poi si era chiuso in camera, sbattendo la porta. Aurora sapeva bene che in quei casi era meglio lasciarlo sbollire la rabbia per conto suo, così si era preparata per la notte e si era messa a letto. Ma la discussione in cucina era proseguita anche senza di loro. La casa era piccola e riusciva a sentire le frasi concitate dei suoi genitori anche da sotto le coperte. 

Così prese l'ipod, indossò gli auricolari e spense il caos e il rumore con il Valzer di primavera di Chopin. E mentre la musica scorreva leggera nella sua testa, sulla sua pelle, fin dentro il petto, così da sciogliere il nodo che sentiva dentro, le dita delle mani presero a muoversi al buio, sul piumone, come si muovessero su una tastiera invisibile. 

Molti la chiamavano memoria muscolare. Quando un'azione viene ripetuta ogni giorno per un lungo periodo di tempo, i muscoli tendono a mantenere memoria dei movimenti che costituiscono l'azione stessa. 

È il corpo che ricorda, anche quando la mente non può.

E le sue mani ricordavano molto bene quella melodia, la sensazione dei tasti freddi sotto i polpastrelli, quel calore che le aveva riscaldato il cuore ogni volta che si era seduta su quello sgabello.

Ed ecco un altro pezzo di lei che se n'era andato quella notte. E mentre la musica continuava il suo corso, Aurora pianse. Pianse senza far rumore, senza accorgersene. Pianse perché aveva perso l'unica cosa che l'aveva sempre fatta sentire al sicuro, l'unica cosa che l'aveva sempre resa felice. L'unica cosa avrebbe potuto salvare la sua anima.

Così Aurora pianse in silenzio, fino a quando non si addormentò.

Se vi piace la storia lasciate un commento e una stellina, grazie

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