8. When she loved me

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"And when she was sad

I was there to dry her tears

And when was happy so was I

When she loved me"

When she loved me - Sarah McLachlan



Erano le dieci di sabato mattina quando Marco aprì gli occhi. Dalla finestra sopra il suo letto vedeva le gocce di pioggia scivolare sul vetro, poi rotolare sul davanzale e ricadere giù sull'asfalto due piani più in basso. Si mise a sedere sul letto, un gomito poggiato sul ginocchio sollevato, e fissò lo sguardo sul cielo temporalesco. Aveva dormito solo poche ore quella notte. Per lo più l'aveva trascorsa a pensare ad Aurora. Alla loro chiacchierata al bar. Avevano trascorso insieme un paio d'ore, ma a Marco erano sembrati solo pochi minuti. Il tempo con lei era davvero volato. Avrebbe voluto chiederle così tante cose, sapeva così poco di lei... e quando l'aveva guardata negli occhi aveva intuito che c'era un intero mondo dietro quello sguardo, come un iceberg di cui lui era riuscito a scorgere solo il lontano profilo.

Dopotutto anche lui non aveva condiviso molto del suo passato. Non si sentiva ancora pronto a parlare di lei. Con nessuno. Meno che mai con una ragazza appena conosciuta.

Anche in casa nessuno osava accennare all'argomento. Non suo padre, Stefano, e nemmeno suo fratello minore, Alessandro.

Marco si alzò, si avvicinò all'anta a specchio del suo armadio e sollevò la maglietta, così da scoprire il petto. Era proprio lì, appena sotto il cuore, che si era tatuato il suo nome. Giulia era scritto in un'elegante e sottile calligrafia corsiva, con una piuma che si allungava dalla gamba della a.

Accarezzò piano l'inchiostro appena sotto la sua pelle e ripensò al giorno in cui aveva deciso di farlo.

Era una fredda giornata di Aprile. Lei era andata via solo da due settimane e Marco girovagava per la città senza meta. E ad un certo punto del suo vagabondare, si era ritrovato davanti allo studio di un tatuatore. In vetrina erano esposte foto di tatuaggi di ogni tipo, da quelli più piccoli e semplici a quelli più elaborati, neri e colorati, con scritte e segni tribali. E senza nemmeno rendersene conto aveva spalancato la porta d'ingresso, si era steso sul lettino, e si era fatto incidere la pelle con il suo nome. Una piccola parte di lui, la più ingenua, era convinta che portare il suo nome addosso avrebbe attenuato il dolore, che gli avrebbe fatto sentire meno la sua mancanza. Ma non avrebbe potuto essere più lontano dalla realtà. Non c'era stato giorno in quei nove mesi in cui lei non gli fosse mancata.

Così anche quel sabato mattina prese il suo diario, si sedette alla scrivania e scrisse a lei. Scrisse per lei.

Cara Giulia,

l'ho rivista. Riesci a crederci? E come ti avevo promesso non ho sprecato questa preziosa occasione. La voglia di conoscerla ha vinto ogni imbarazzo e timidezza in me. Non potevo rinunciare a scoprire chi si celasse dietro quegli occhi che somigliano così tanto ai tuoi.

Oh Giulia, se tu potessi vederla... è così bella e dolce, proprio come te. Frequenta la facoltà di fisica, quindi sicuramente ha una passione per la matematica che tu non hai mai avuto, ma questo aspetto di lei mi affascina molto. In fondo cerchiamo entrambi la risposta ai grandi interrogativi, pur percorrendo strade diverse.

Ricordo ancora quel compleanno, quando mi regalasti quella raccolta dei miti più belli di Platone. Non saprei dirti quante volte ho riletto quel libro. Ormai la copertina è consunta e le pagine sono piene di pieghe e orecchie. Ricordo che quando lo leggevo per te, mi chiedevi di mettere un segno ad ogni pagina in cui c'era una frase che ti aveva colpito. E ben presto mi sono ritrovato con il libro pieno di carte, scontrini, pezzetti di giornale, qualsiasi cosa fosse a portata di mano, tanto da riuscire a malapena a richiuderlo. Ma non temere: sono ancora tutti lì, ogni singolo pezzetto di carta che mi hai chiesto di inserire è al suo posto. Non ho avuto il coraggio di spostare nulla. Una parte di me spera ancora che tu un giorno possa tornare e possa chiedermi di rileggerti tutte le frasi che ti sono piaciute così tanto. E io non voglio mancarne neanche una. 

Perché, come mi dicevi sempre tu, noi siamo fatti di ogni cosa bella che vediamo, che ascoltiamo ma soprattutto che leggiamo. E io non sono ancora pronto a perdere neanche un minuscolo pezzettino di te.

Ricordati sempre che dovunque tu sia, qualunque cosa tu stia facendo, spero solo che tu stia bene e sia felice.

Con amore.

Marco posò la penna sul diario e accarezzò l'inchiostro sulla pagina. Ogni volta che le scriveva si sentiva un po' meglio. Nulla avrebbe potuto riempire il vuoto, ma doveva pur fare qualcosa per andare avanti.

Dei colpi alla porta lo distolsero dai suoi pensieri e lo riportarono alla realtà.

«Sì, avanti» disse pigramente.

Qualche secondo dopo suo fratello Alessandro entrò nella camera e lo raggiunse alla scrivania. «Ohi Marco. Da quando sei in piedi? Io non ho proprio sentito la sveglia, e così mi sono svegliato solo pochi minuti fa, accidenti... Avevo una prova in conservatorio alle nove... La prof mi ucciderà...» disse Alessandro passandosi una mano tra i folti capelli castani.

«Buongiorno fratellino. Anch'io non sono sveglio da molto, stanotte non riuscivo a prendere sonno. E papà? Sai se si è alzato?»

Un leggero tono di preoccupazione velava la voce di Marco.

«Sì, credo si sia svegliato almeno un'ora fa, perché è già chiuso nello studio della mamma. Ma non credo abbia fatto colazione, perché in cucina è tutto in ordine, come abbiamo lasciato ieri sera.»

Marco poggiò i gomiti sulla scrivania e si passò entrambe le mani tra i capelli, evidentemente esasperato.

«Accidenti! È la terza mattina di fila che non mangia niente, finirà per ammalarsi...»

«Ah, e comunque ti devo informare che il frigo è vuoto. Restano solo due uova, una mezza zucchina e un pezzo di formaggio, ma non posso assicurarti che quest'ultimo sia ancora commestibile.»

«Sì Ale, lo so. Avevo in programma di fare la spesa stamattina. Prenderò la macchina. Tu che vuoi fare? Vuoi venire con me o preferisci che ti lasci in conservatorio? Magari la professoressa potrebbe farti partecipare ugualmente alla lezione, anche se sei in un ritardo mostruoso direi...»

«No, non importa, la lezione ormai è andata. Ma se puoi darmi uno strappo andrei comunque, dovrebbe esserci una saletta libera in cui posso esercitarmi. Vorrei evitare di irritare papà con il suono acuto del violino.»

Marco fece un sospiro profondo e fece vagare lo sguardo fuori dalla finestra alla sua destra.

«Sai bene che non uscirebbe mai dallo studio, neanche per dirti di smettere... Comunque sì, forse è meglio che tu vada ad esercitarti in conservatorio. Allora vai prima tu in bagno, e muoviti o stamattina non combineremo nulla.»

Alessandro stava per uscire dalla camera, poi si fermò sull'uscio e si voltò di nuovo verso Marco. Esitò qualche secondo, evidentemente indeciso se fosse il caso di parlare oppure no.

«Marco ma... è a lei che scrivi ancora? Dopo tutto questo tempo?»

Marco si voltò di scatto a guardare Alessandro negli occhi, stupito da quella domanda inaspettata. «E se ti rispondessi di sì, che differenza farebbe?»

«Niente, è solo che... pensavo che forse sarebbe meglio parlarne, piuttosto che continuare a scrivere a qualcuno che non risponderà mai... Non ti sembra che sia come parlare da solo davanti allo specchio?»

Ascoltando le parole del fratello, Marco sentì una fitta allo stomaco. Come poteva fargli capire quanto fosse importante per lui scriverle? Alessandro aveva il suo violino, era la musica il suo modo di comunicare con il mondo. E scrivere era il suo. Se avesse dovuto rinunciare anche a quello, allora la vita gli sarebbe risultata davvero insopportabile.

«Ale, tu sai quanto ti voglio bene, ma devi aver pazienza, non sono ancora pronto a parlare di lei. Ti prego, non insistere oltre, d'accordo? Ti prometto che quando sarò pronto ne parleremo, okay?»

Alessandro poggiò una mano allo stipite della porta, abbassò lo sguardo e tirò un lungo sospiro. Poi, dopo alcuni secondi, uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle, senza aggiungere altro.

Marco rimase immobile, seduto alla scrivania, a fissare il punto della stanza in cui pochi attimi prima si era fermato suo fratello. Aveva registrato il suo respiro profondo, le sue spalle curve, lo sguardo triste sul viso ancora da ragazzino, nonostante i suoi diciannove anni. Sapeva che stava soffrendo anche lui, e avrebbe voluto poter fare qualcosa, consolarlo, dirgli che presto sarebbe andato tutto bene, che era solo un periodo e prima o poi il tempo avrebbe guarito ogni ferita. Ma non aveva nessuna voglia di mentire. Sapeva bene che alcune ferite non guariscono mai. Possono smettere di sanguinare, ma restano sempre lì, in vista, a ricordarti ciò che avevi e che non c'è più.

Marco fece un respiro profondo, chiuse il diario, lo ripose nel primo cassetto della scrivania, e poi cominciò a sbrigare le faccende di casa, desideroso di tenersi occupato e non pensare per un po'. 

Se vi piace la storia lasciate un commento e una stellina, grazie 

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