Capitolo 7: Entra dentro, sbrigati ad uscire

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Quella settimana d'attesa tra un appuntamento e l'altro era trascorsa senza troppi intoppi.

Lauren aveva passato gran parte del suo tempo chiusa in camera ad ascoltare musica, Maria e Beth si erano dedicate al cucito e Jean aveva lavorato come un disperato pur di non stare troppo a lungo richiuso dentro quelle quattro mura che sembravano volerlo soffocare.

Non avevano chiacchierato molto, ma a tutti era andata bene così. Dopo la furente lite che li aveva visti protagonisti in salotto, Lauren aveva deciso che sì, sarebbe andata da Colton, ma a spese proprie. Attigendo a un vecchio conto di risparmio infatti aveva intenzione di impegnarsi a restituire agli zii fino all'ultimo centesimo. Ciò le faceva pensare che avrebbero smesso di rinfacciarle tutto il denaro che veniva speso per lei e per curare i suoi disturbi.

Quella mattina forte delle proprie idee percorreva a passo spedito una stradina secondaria e poco trafficata che l'avrebbe condotta sino alle porte dello studio del dottor Colton.

Avere Google Maps dalla sua era un vero toccasana per impedirle di perdersi o di dover chiedere di continuo informazioni ai residenti.

Dublino era immersa nella nebbia, nel freddo e nella solitudine. Sebbene fosse una città caotica e durante la notte piena di vita, di giorno sembrava quasi abbandonata. Tutti i cittadini stavano chiusi negli uffici, sui posti di lavoro e per strada c'era sempre poca gente, per lo più anziani in giro per commissioni di rito.

Lauren si vedeva bene dall'intromettersi in The gardiner street lower poiché zia Beth le aveva raccontato cose di quel posto che proprio non valeva la pena di visitare.

Al Playground gardiner, il parchetto proprio posto nel centro del quartiere, i naked si incontravano per lo spaccio di droga e per alimentare la malavita a esso connessa. Polacchi, zingari, rom, stranieri, neri, ma anche autoctoni popolavano quella zona malfamata.

Al Playground potevi trovare ogni genere di persona e ogni tipo di sostanza. Era già complesso per un vedente uscirne illeso, ma sarebbe stato ancora più complicato per un non vedente venirne fuori senza guai. Coloro che popolavano la zona amavano spesso prendersela con i più fragili.

Mantenersi nei pressi del quartiere  di Dame street era per Lauren la soluzione ottimale.
Lo studio del dottor Colton andava a separare, come fosse una linea di demarcazione, la cosiddetta Dublino uno, luogo ricercato e di tendenza nel quale sorgevano luoghi di nicchia come ad esempio il Temple Bar, dalla Dublino due, sede di malavita organizzata, ma comunque ricca anch'essa di storia e fascino, del calibro del The Spire, ascesa al cielo di uno dei più simbolici monumenti della città.

Lauren giunse alla porta del dottor Colton e pregò che la seconda seduta andasse meglio della prima. Sperava in cuor suo di ricordare qualcosa e di iniziare con la terapia dell'ipnosi, motivo per il quale si era lasciata convincere dagli zii per frequentare lo psicanalista.

L'odore di detergente per la sanificazione degli ambienti le pizzicò un poco il naso. Rispetto all'ultima volta qualcosa era cambiato. Non c'era Stephen, ad esempio. La sala d'attesa era avvolta nel silenzio, tetra e tristissima.

«Che bello rivederla signorina Gale. Prego, il medico la attende con ansia» disse quella che presumibilmente doveva essere la segretaria. Lauren l'aveva riconosciuta dalla voce; era la stessa donna dell'altra volta.

Sorrise per circostanza e si lasciò accompagnare fino all'accesso dello studio del dottore.

Prese posto alla solita poltroncina e con le dita ispezionò il tessuto. Poteva distinguere con chiarezza tutte le cuciture e il lavoro artigianale che stava dietro alla realizzazione di quella sedia reclinabile. Doveva essere veramente costosa visto l'odore intenso di pelle che emanava e la raffinatezza con la quale era stata prodotta.

«Temevo di non rivederti» esordì Colton con tono pacato.

«Temo di non poterla vedere nemmeno questa volta» ironizzò Lauren abbozzando un sorriso sghembo mentre si levava gli occhiali scuri.

La sua freddezza risultò pungente come al solito. Alle volte si sarebbe presa a schiaffi per via della propria sfacciataggine, ma non poteva davvero farne a meno. Negli ultimi due anni aveva dovuto costruirsi una sorta di personalità doppia: quando era sola poteva essere semplicemente se stessa, ma quando era con il resto del mondo sentiva il costante bisogno di doversi difendere. E attaccare era per Lauren la miglior difesa.

«Ho capito che sarà molto complesso far si che tu possa fidarti di me. Ci tengo solo a ricordarti che l'ipnosi non è cosa per tutti, questo penso di avertelo già detto» disse Colton risoluto. «Solo il venti per cento delle persone che sottopongo ad ipnosi riesce a raggiungere lo stadio di trance desiderato. Credi di far parte di questa percentuale di eletti?»

Per la prima volta Lauren si sentì in difficoltà. Era o non era tra quel venti per cento di persone adatte? Ancora non lo sapeva, ma di certo le sfide la stuzzicavano.

«Devi sapere alcune cose prima di iniziare la terapia. Vorrei sfatare alcuni miti» proseguì lui convinto di aver finalmente attirato l'attenzione della sua nuova paziente. «Non è vero che ti farò chiocciare come una gallina e non è nemmeno possibile che io possa farti camminare per lo studio, ballare o imitare il verso dei tuoi animali preferiti. Tu non seguirai me, seguirai solo te stessa e il tuo io, la parte latente di te. Io sono qui solo in veste di accompagnatore, non come quei ciarlatani che vedi alla televisione.»

Colton rise di gusto della sua stessa affermazione e Lauren nonostante non volesse mostrarsi fragile iniziò ad avere paura.

«Dormirò? Come funziona?» Era indispensabile saperne di più.

Colton si rigirò una penna tra le dita e si mise comodo sulla sedia. Il rumore del tessuto dei suoi pantaloni contro la pelle provocò uno stridio fastidioso per le orecchie di Lauren.

«No, non dormirai» rispose lui più serio che mai. «L'ipnosi consiste in un mondo a parte, una situazione intermedia che non ha a che fare né con il sonno, né con la veglia. È una condizione neurofisiologica a se stante. Ti troverai decontestualizzata dal tuo mondo oggettivo. Accederai a una abreazione spirituale, alla tua scarica emozionale.»

Lauren non ci aveva capito nulla e il fatto che tutto fosse così complesso la spinse a pensare di volersene andare a di corsa.

«Non sono più convinta di volerlo fare» esordì risoluta.

«Fidati di me, non corri pericoli.»

Colton si avvicinò alla sua sedia per reclinarla. Con uno scatto secco Lauren si trovò a centottanta gradi.

«Dovremmo procedere dal basso. Direi di iniziare con il ricordare cose semplici, belle. In questo modo posso capire se sei adatta a procedere con le cose più complesse.»

«Ora inizierà a canticchiare qualche nenia?» chiese intimorita.

Una fragorosa risata alleggerì la tensione nella stanza.

Sebbene Lauren non lo potesse vedere si convinse di alcuni particolari di Colton. Era certa che fosse un tipo davvero affascinante.
Solo ascoltando la sua voce lo aveva  immaginato alto, brizzolato e robusto. Doveva possedere occhi scuri come la notte e giusto un velo di barba sul viso. Sì, per lei doveva essere più o meno così.

«Posso farle una domanda?» chiese ancora, titubante. «Non servono i miei occhi per questa procedura? Non dovrebbe farmi fissare qualcosa, farmi seguire un pendolo o cose simili?»

«Se volessi risponderti a tono dovrei ricordarti che il pendolo su di te non avrebbe alcun effetto, ma in ogni caso io non opero così. Ti chiedo di rilassarti ora.»

Lauren afferrò i braccioli imbottiti della sedia e chiuse gli occhi. Semmai la seduta fosse andata male almeno avrebbe potuto ripiegare facendo un lauto sonnellino.

In un attimo la poltroncina di pelle si reclinò al massimo senza alcun preavviso e spaventandola a morte.

«Dannazione!» urlò in preda al panico e rimettendosi seduta.

Colton l'afferrò per le spalle e la invitò a rimettersi comoda.

«Mi sarei privato del divertimento se vi avessi detto che Bobby si adatta al peso.»

Quale pazzo da un nome a un oggetto, pensò Lauren lasciandosi andare di nuovo, ma con il cuore a mille.

«Non lo dico mai a nessuno che la mia poltrona va controcorrente. Lo so, ora crederai che sono un piccolo e fastidioso stronzo, ma fa tutto parte della terapia. Non vedi? Stiamo già entrando in confidenza e io non sto faticando per avere la tua fiducia.»

Per quanto Lauren fosse ancora restia nel fidarsi, il dottor Colton aveva già iniziato a farsi apprezzare. Era più giovanile e goliardico di quanto avesse creduto possibile.

«Ti chiedo solo di rilassarti come se volessi fare un sonnellino pomeridiano. Vorrei che senza fretta accedessi ai tuoi ricordi di bambina. Alle prime cose che ti legano ad un profumo, un rumore o un colore. È importante far attingere la memoria ai dettagli.»

Lauren lo assecondò, ma con una vena di scetticismo.

Rimase in silenzio per diversi minuti cercando di immaginare qualcosa, ma senza successo.
Stava iniziando ad arrendersi quando d'un tratto si sentì leggera, impalpabile come una piuma.

Alcuni stralci di un passato lontano sembravano voler tornare, ma non senza sforzo.
Dapprima il buio, poi del verde, del giallo e dell'azzurro: le sembrava di essere davanti un quadro di un artista famoso, ma la verità era che si trattava solo delle sue più rosee memorie di bambina.

Lauren siede a gambe incrociate sul prato. Può vedere, sentire e toccare ogni cosa attorno a sé. Sua madre siede poco distante e tiene tra le mani un voluminoso tomo. Ha da poco scelto  tornare a studiare; è la letteratura ad affascinarla più di ogni altra cosa al mondo, al punto da desiderare di farla diventare una vera ragione di vita. Vorrebbe insegnarla per professione, magari come docente universitaria.

Di tanto in tanto scruta la figlia giocare con le bambole. Lauren osserva le proprie mani, sono piccole e tozze come quelle di una bambina. È tornata bimba e sta rivivendo un ricordo d'infanzia, uno dei pochi che conserva ancora nitidamente.

Suo padre è fuori città per lavoro. La Lauren bambina non sa che suo padre è un vigliacco, un bugiardo. Lei sente di amarlo come ogni bambina ama il proprio papà.

Lo aspetta giorno e notte e nel frattempo si accontenta della presenza della mamma e delle bambole, sue fedelissime amiche. Attraverso il gioco può creare immaginari bellissimi, di principesse e cavalieri erranti.

Dalla cucina si sprigiona un forte odore di crostata. Sta ancora cuocendo nel forno, ma a giudicare dal profumo deve essere ormai cotta. Sua madre si appresta per salvare la torta poco prima che possa finire bruciata.
Richiama l'attenzione di Lauren, la quale abbandona per un secondo le bambole e la sua fervida immaginazione. Sua madre le porge una fetta di crostata ancora calda, le accarezza la nuca e la bacia. Lauren addenta la propria fetta e si lascia cullare dal dolce sapore della marmellata e della pasta frolla fatta in casa. Sorride alla madre e la ringrazia.
È la sua merenda preferita.

«Cosa vedi? Parlane con me» disse Colton dolcemente.

Lauren sorrise del suo stesso ricordo. Le sembrò di esserci finita dentro a piedi pari. Si era lasciata cullare dal profumo sempre più reale e più vivido. Come avesse ancora in mano un fetta di crostata di albicocche prese a raccontare al dottore del sapore, dell'aroma, del colore delle albicocche, mature e succose, della farina comprata dal contadino vicino a casa, tutti dettagli che pensava di aver rimosso per sempre.

«Stai facendo davvero un ottimo lavoro. Scendiamo ancora. Raccontami qualcosa di tuo padre adesso.»

Il gelo scese nella stanza.
Il caldo dell'estate venne presto soppiantato dal freddo pungente dell'inverno.
L'espressione di Lauren si fece immediatamente più seriosa, come se le fosse stato appena chiesto di fare qualcosa di sgradevole.
Provò in ogni modo a ricordare suo padre, ma capì ben presto che si stava sforzarando per nulla.
Lui non le veniva in mente: l'unica cosa che sentiva pensando a lui era il freddo dentro le ossa e una insana inquietudine.

«Non ci riesco. Non sono in grado di farlo.» Riaprì gli occhi e si mise a sedere come se si fosse appena destata da un lungo sonno.

«Per essere la prima volta te la sei cavata bene. Sei riuscita a portarmi con te. Molto brava. Sono certo che sapremo arrivare nei punti più bui della tua mente in breve tempo. Una cosa alla volta, ma sono fiducioso» esclamò Colton allungandole un fazzoletto per asciugare la fronte madida di sudore.

L'ora a loro disposizione era ormai giunta al termine. Lauren aveva l'impressione che il tempo fosse volato, letteralmente scivolato oltre la propria capacità di volerlo tenere sempre sotto controllo.

«Credi di voler tornare, la prossima settimana?» le chiese il medico con una nota di speranza nella voce.

«Credo di volerci provare.»

Si strinsero la mano con vigore.
Rivedere il dolce viso della madre nella mente aveva permesso a Lauren affrontare la seconda seduta con un umore decisamente migliore.
Anche se con fatica iniziava a convincersi del fatto che in un qualche modo ce l'avrebbe fatta.

Il suo cervello era stato capace di vedere, di vivere e di assaporare le mille sfaccettature di un ricordo come se esso fosse sempre stato lì, latente, ma non troppo.

Osservarsi dentro era possibile, non si trattava più di una banalità.

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