Capitolo I - Incipit

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"Queste le torri son, queste le mura,
ov'ebber culla gli antenati tuoi,
e la grandezza fu la nobil cura,
ed il retaggio degli Estensi eroi".
~ Luigi Minzoni.

Ferrara, 29 Giugno. Anno Domini 1475.

Nel tempo in cui la compiuta primavera cedeva il passo all'estate novella, mature s'ergevano al sole dorato le spighe ondeggianti e imbiondivano allora allora le fertili campagne. Sorgevano lì, sul limitare della città, l'imponente castello e il palazzo, residenza di quell'antica e nobilissima dinastia ch'erano gli Este, i quali da trecento e ottanta anni dominavano incontrastati Ferrara.

Città d'acqua avvolta dalle brume, essa era in quel tempo lambita dal volubile abbraccio del fiume Po, che parimenti la protegge e minaccia, simile alle spire di quel drago che in esso si diceva dimorasse in tempi assai remoti, terribile flagello per i popoli, prima d'essere infine annientato da San Giorgio invitto, suo santo patrono.

Radunatisi nella vasta sala affrescata della corte ducale per tener compagnia al loro signore, trepidavano d'attesa i gentiluomini e i letterati, ma il più impaziente fra tutti era senz'altro lo stesso duca: Ercole d'Este. Questi a lungo aveva passeggiato avanti e indietro per quella medesima sala, senza troppo badare a quel suo piede malandato che, a causa d'una vecchia ferita di guerra, lo costringeva a un'andatura zoppicante, e che soprattutto in quegli ultimi giorni gli stava arrecando grandi noie, tanto da obbligarlo a girare in carretta.

Adesso invece, ormai affaticato, s'era fermato innanzi alla grande finestra a bifora, e sedendo nell'alcova meditabondo fissava i tetti di tegola e i palazzi signorili dalle facciate recentemente affrescate, le anguste e tortuose vie strette dai bassi porticati e dai voltoni malamente illuminati di quella città che, dopo tanti ingiusti travagli, poteva finalmente chiamare la propria, assurto a un trono che, a onta della sua nascita legittima, era stato reso incerto dai fati.

Uomo di guerra e di governo, profondo conoscitore dell'animo umano, tale egli appariva a chiunque lo guardasse: d'altezza sì mediocre, però dotato d'un fisico vigoroso e asciutto e d'un viso dai lineamenti seri e composti che incuteva rispetto, in mezzo al quale spiccava il naso stretto e arcuato, nobile e antico retaggio degli Este, che gli uomini della famiglia si tramandavano di padre in figlio sin dai tempi remotissimi del capostipite Alberto Azzo, quale loro tratto distintivo. Gli occhi infine, piccoli e scuri, tendenti al grigio, ne lasciavano perfettamente intendere l'indole gelida e autoritaria, e non di meno amante del lusso e delle feste, incline allo scherzo.

Inconsciamente cominciò a roteare la coppa di vino che teneva nella destra, quasi il continuo oscillare di quel liquido purpureo lo aiutasse in qualche modo a placare gli spiriti agitati: sua moglie, la venticinquenne Eleonora d'Aragona, era entrata in travaglio da poco più d'un'ora e subito era stata mandata ad avvertire la levatrice acciocché accorresse al letto della partoriente.

Non si trattava della sua prima gravidanza: già nel maggio dell'anno precedente, rendendo fin dal principio merito alla fama di prolificità delle donne della sua stirpe, la duchessa era diventata per la prima volta madre d'una splendida bambina, Isabella. Ercole se n'era mostrato contento, ma non soddisfatto: a che sarebbero valse tante fatiche, tante privazioni e patimenti, se conquistati finalmente per sé le terre, i castelli e la dignità ducale, non avesse avuto un giorno a chi lasciarne? Tutto vano, tutto inutile.

Aveva oramai raggiunto i quarantaquattro anni d'età e già cominciavano pian piano a incanutirgli i capelli sul capo, né poteva ancora vantare un erede, legittimo o illegittimo che fosse. Ecco ciò che ancora gli mancava, recuperata ogni cosa: un figlio maschio che garantisse il perpetuarsi della stirpe, un fanciullo suo, che rendesse sicuro quanto ora era incerto, che egli avrebbe educato nel modo più eccelso, sì da farne un giorno un degno duca di Ferrara. Se solo Iddio avesse voluto esaudirlo...

Nella stanza del parto frattanto, in un ultimo immane sforzo, la duchessa Eleonora si protendeva in avanti, premuta contro la sedia gestatoria, e metteva finalmente al mondo la propria creatura. Le mani, sino ad allora strette con forza attorno ai braccioli di legno, si rilassarono, così i denti allentarono la morsa; gli occhi si apersero, posandosi sfiniti sulla figura che aveva dinnanzi.

« Com'è? »​ domandò soltanto, con quel poco di voce che riuscì a richiamare indietro dall'alveo dei polmoni. Il suo petto si sollevava e riabbassava ansante, nel tentativo di riprendere fiato, mentre alcune ciocche di capelli ramati, mal trattenute dallo sciugatoio arrotolato attorno al capo, le ricadevano sopra la fronte madida di sudore.

Avanti a lei la levatrice s'era risollevata in piedi e reggeva ora tra le braccia un involto dal quale fuoriuscivano, oltre a flebili pianti, soltanto una testolina di capelli brunastri e un piedino. Lo sguardo di lei appariva però tutt'altro che rassicurante: turbata, pallida quasi, fissava il nuovo nato, né osava far parola, come pure desolate vedeva radunarsi attorno a lei le rimanenti donne.

« Dunque? » la duchessa, non ricevendo risposta, subito si tese, « cos'ha mio figlio? » Quasi fu sul punto di risollevarsi in piedi per guardare da sé ciò che l'era tenuto nascosto, sennonché una delle nipoti del duca, Polissena, staccatasi dallo stuolo delle donne venne da lei, la convinse a rimanere seduta. « Suvvia, sta benissimo, non v'angustiate », le disse, mentre con un fazzoletto ricamato le asciugava la fronte. « Soltanto che, ecco... non è il maschietto che attendevamo ».

« Non è... »  Eleonora levò gli occhi stravolti, le parole le morirono in gola. Soltanto allora la levatrice, chinandosi verso di lei, le mostrò la neonata dicendo: « Sono mortificata, madonna duchessa, è un'altra femmina... »

In quell'attimo poté ella sentire il mondo intero crollarle addosso. Delusa, amareggiata, a dir poco distrutta, respinse crudelmente da sé la creaturina che aveva appena messo al mondo e si lasciò andare al pianto. « Portala via », le ordinò, voltando sprezzante il capo, «non voglio vederla! »

Fatica, dolore, sangue, questo le era costato mettere al mondo quella creatura, e a che l'era valso, se ora non poteva presentare al marito altro che una seconda indesiderata figlia femmina? Una figlia di più e una figlia di troppo.

A togliere d'impaccio la levatrice che, profondamente rammaricata, se ne restava titubante, intervenne la stessa Polissena, la quale subito accolse la bambina fra le proprie braccia. « Non siate troppo dura con voi stessa »,​ sussurrò allora all'avvilita madre, chinandosi ver lei, « vedrete che il vostro signore capirà ».

« No, non questa volta », Eleonora scosse lentamente il capo, strizzando via le lacrime dagli occhi che bruciavano,  « questa volta Ercole non me lo perdonerà... »​ Quante gioie, quante speranze disilluse in un istante... davvero lo aveva creduto stavolta, se lo sentiva dentro che sarebbe stato un maschio, ogni giorno aveva pregato il Signore perché fosse così, l'aveva pregato con tutta sé stessa, ma non era stata esaudita. Solo tempo perso.

Allorché nella sala d'attesa una delle fantesche comparve ad annunciare la novità, i borbottii dei presenti cedettero immediatamente il largo al più totale silenzio. Il duca fra tutti mollò la coppa in mano al primo che si trovò dinnanzi e subito s'appressò alla donna, chiedendo: « e dunque, mio figlio è nato? »​

« Sì, mio signore, ma... »​ esitò, gli occhi bassi, timorosa, ancor più fomentando in tal maniera il fastidio del proprio duca.

« Orsù, parla! Cosa non va? È forse accaduto qualche accidente a mia moglie? »​

« No, signor duca... la vostra illustrissima consorte è in perfetta salute, soltanto che ha partorito una femmina... »​

Immensi, incommensurabili furono allora la delusione e lo sconforto che pervasero l'animo del duca a quella deprecabile risposta, ma niente di tutto ciò era possibile percepire dalla spoglia esterna: fuori era rimasto impassibile, né un solo muscolo del suo viso s'era contratto.

Alla fine, senza proferir parola, sollevò appena la mano sinistra, congedando così la fantesca. Ai gentiluomini che, per quanto consapevoli di come quella nascita non apparisse ai suoi occhi niente più che una disgrazia, tentavano ugualmente di porgergli le proprie congratulazioni, egli perentorio ordinò: « andate, tornate alle vostre occupazioni, ché non v'è proprio nulla da festeggiare qui »​.

Di fretta, scuro in volto, scivolò fuor dalla sala gremita, desideroso soltanto di rinchiudersi nella solitudine delle proprie camere per tenervi fuori il mondo. Solo il suo fido segretario, Paolo Antonio Trotti, volle corrergli dietro, e lo raggiunse per sua fortuna poco prima che imboccasse le scale. Ben sapeva infatti che, quando lo prendeva uno dei suoi malumori, il duca era capacissimo di separarsi dal consorzio umano per giorni, con tutte le prevedibili conseguenze per l'amministrazione.

« Mio signore », lo trattenne un istante, « e se dovessero domandarmi di vostra figlia, come devo rispondere che l'avete chiamata? »​

Ercole non lo degnò d'uno sguardo, soltanto tirò indietro la fronte, scuotendo l'alta berretta che gli adornava il capo, e concluse: « che pensi sua madre a darle un nome, io non ne voglio sapere nulla »​. 

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Note al capitolo:

(1) Nel 1467, durante la battaglia della Riccardina, Ercole era stato gravemente ferito da un colpo di archibugio al malleolo del piede destro, mentre si batteva eroicamente in termini che più in là si diranno. Per la ferita fu sul punto di morire, guarì invece, dopo una convalescenza lunga due anni, ma rimase zoppo.

(2) La carretta era considerato mezzo di trasporto esclusivamente per donne, fanciulli e malati, disdegnata invece dagli uomini, i quali preferivano spostarsi a cavallo. Il fatto che in quei giorni il duca si fosse ridotto a girare in carretta, e che dalla carretta avesse perfino tirato di balestra per partecipare al palio annuale, lascia bene intendere quanto dovesse essere forte il dolore che dal piede si irradiava per tutta la gamba.

(3) Nel 1472 a Ferrara si erano cominciate per la prima volta ad affrescare le facciate dei palazzi nobiliari, usanza nuova in molte città d'Italia, in quanto prima di allora si imbiancavano e si dipingevano, e ben di rado, soltanto le facciate delle chiese.

(4) Su chi fosse il capostipite degli Este non si è unanimemente d'accordo: secondo Virgilio Ferrari, capostipite della famiglia fu Alberto Azzo II, del quale il figlio Guelfo IV diede origine al ramo di Germania, mentre dal figlio Folco si dipartì il ramo ferrarese; Aimone Bisi indica lo stesso Folco, senza menzionare il padre, e sostiene che invece capostipite del ceppo bavarese fosse stato tal Corrado. Il più antico componente della dinastia di cui si abbia memoria è in ogni caso Oberto I, creato conte palatino nel 962 e nonno di Alberto Azzo II. Noi alla fine abbiamo deciso per quest'ultimo, essendo che è con costui che inizia la Genealogia dei principi d'Este coeva.

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