La città di Araapas parte II

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Riprendendo il cammino ci ritrovammo di nuovo in un piccolo borgo immerso nel verde della campagna, lì le case erano tutte in pietra, ma sempre con il tetto a forma di vela. Erano sparse qua e là in mezzo alla radura pianeggiante, sembrava un dipinto con le abitazioni in primo piano la natura da cornice e sullo sfondo le montagne con i picchi ancora innevati. 

Mentre ci addentravamo nel piccolo villaggio, scorsi numerosi Fabbri tutti intenti a creare e fabbricare armi. «Come vedi Terech il messaggio è giunto anche a noi e il nostro re Balian ci ha dato ordine di preparare le armi per i cinque regni, ed ecco!» Disse la guardia indicando le diverse fucine. Poi il suo volto si rabbuiò quando il suo sguardo giunse a dei fabbri intenti nella distruzione delle armi. Quando il soldato parlò la sua voce risuonò nostalgica e addolorata. «I fabbri del sud, purtroppo dopo quanto accaduto alla tua gente, in questo momento stanno distruggendo le armi un tempo realizzate per voi.» Detto ciò si fermò un attimo a parlare con i fabbri del sud indicando Terech e tornando poco dopo con un arco e una spada e due nuovi di zecca di cui fece dono al mio amico, poi riprendemmo il cammino. 

«A nord invece stanno realizzando armi per i Tecar signori della terra, ad ovest per gli Scart signori dell'acqua e ad est per noi Celac». «Perché voi create le armi per tutti?» Chiesi io piena di doppiaggio «Perché solo i fabbri Celac hanno le capacità e i materiali per creare armi che siano in grado di accogliere l'energia magica dei soldati che le useranno, ad esempio guarda l'arco di Terech», Il mio compagno di viaggio senza attendere oltre prese l'arco che poco fa gli aveva dato il soldato, tese la corda e in quell'istante si creò una freccia infuocata. Scoccata questa volò via fino a quando toccando terra non esplose in altri dieci dardi che con un gran fracasso esplosero «Spero ora te abbia capito» disse la guardia guardando il mio volto stupito con divertimento «Fantastico!». Esclami facendo scoppiare a ridere tutti quanti. Riprendemmo a camminare tra verdeggianti radure assolate e ombreggiate e ruscelli. Solo al tramonto giungemmo al centro della cittadella, «Benvenuta nel cuore della nostra isola» Confusa guardai quella immensa roccia davanti a noi piena zeppa di piante rampicanti, vedendo la mia confusione il soldato mi sorrise e poi spostò delle piante che scendevano fino a terra. Fu allora che si rivelò a me un paesaggio paradisiaco. 

C'erano fiumi che scorrevano limpidi e sereni su un manto di erba verdissimo pieno di fiori e bambini che giocavano nei campi con l'erba alta, adulti che coltivano la terra e ragazzi e ragazze che felici oziavano sdraiati a terra scherzando felici. Soldati che si addestrano con i loro comandanti e piccole pesti che imitavano i loro movimenti, altri cavalcavano maestosi puledri i Vallians questi erano tutti bianchi con ali piccole sui polpacci delle gambe una criniera bianchissima e lunghissima, scoprii che questi cavalli erano le cavalcature dei soldati Celac privi di ali erano la fanteria. Chi li stava cavalcando si allenava a tirare con l'arco restando in equilibrio ed erano davvero bravi.

Le case erano migliaia tutte in fila una dietro l'altra posizionate lungo la strada di selciato che si diramava in tutte le direzioni. Poi in lontananza vidi un immenso castello isolato nella prateria, dietro l'immensità delle montagne, un fiume passava accanto a questo castello e scendeva a formare una cascata nel burrone sottostante che separava il palazzo dalla parte della città. 

Il palazzo era collegato all'altra sponda da un ponte di legno massiccio, l'entrata dell'immane edificio si poteva scorgere anche in lontananza tanto era grande. Un gigantesco arco cui poggiava un terrazzo enorme, il palazzo poi saliva verso l'alto intrecciandosi fino a sopra in cima dove spiccava una luce che illuminava la vallata. «Quella luce è il Menitar, la luce della vita. Essa deriva dal nostro fuoco sacro il Merech, senza di lei la forza che tiene in aria la nostra isola, verrebbe meno e noi e tutta la città precipiteremo a terra, frantumandoci in mille pezzi». «Bè speriamo non succeda proprio oggi» dissi sotto voce a Terech che scoppiò a ridere sentendo la mia voce piena di ansia.

Più ci avvicinavamo a quella gigantesca costruzione più mi sembrava monumentale. Attraversammo il ponte di legno massiccio salendo i gradini a causa di una due tanta era la nostra fretta e poi entrammo nell'immenso portone, una volta entrati ci accolse un gradevole caldo, era come ritrovarsi in un immenso spazio pieno di aria. Le pareti erano bianchissime e di vetro, cosa che da fuori non sembrava vista la composizione in legno.

Salimmo su una strana piattaforma che appena ebbe l'imput da parte del nostro accompagnatore inizia a scalare i diversi piani del palazzo roteando tutta intorno alle levigatissime scale a chiocciola, a mano a mano che salivamo verso l'alto era come essere nel cielo. Piccole luci calde gironzolavano qua e là tra le pareti del palazzo illuminando le stanze.

Finalmente la piattaforma su cui eravamo si fermò, lasciandoci all'interno di un grande salone con molti camini accesi e grandi lampadari di vetro bene lavorati e luccicanti. Dipinti giganti e affreschi floreali o di storie antiche della famiglia reale. La sala del trono era divisa da una grande porta di legno in cui erano scolpite statue di re, regine e alla fine nel punto più alto vi era un affresco che raffigurava la nascita del Merech il fuoco sacro. Al centro vi era un immenso fiore di colori accesi dall'alto scendeva una luce dorata. Al di sopra di essa disposti a semi cerchio erano figure celesti avvolte da una luce bianca e figure oscure avvolte da un manto di ombra. In terzo piano disposti a cerchio intorno al Merech erano i regni primordiali con i loro signori più uno che si teneva in disparte e nell'ombra.

Era davvero un grande lavoro, se là si guardava da vicino si poteva anche vedere le parti chiaroscurali o le incisioni più forti e le emozioni che i volti rilasciavano. La porta si spalancò e noi entrammo.

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