4 - Il nuovo studente

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Oggi

Milano – Università La Bicocca
ore 9.00

«Eccolo, fai finta di nulla.»

«Se tu la smetti di fissarlo e di sbavare, magari è anche meglio.»

Silvano emette uno sbuffo, dando un leggero pugno sul braccio dell'amico, che non smette mai di punzecchiarlo, mentre seduto al suo fianco, su una delle grandi panchine situate di fronte all'ingresso dell'università, cerca di non lasciarsi attrarre di continuo da quel ragazzo che da giorni frequenta il suo stesso corso.

Non lo aveva mai incrociato in una lezione, anche se lo aveva già notato nei mesi precedenti. Da quello che ha saputo, lo sconosciuto è riuscito a fare, in forse appena cinque mesi, tutti gli esami del primo anno e ora è approdato al secondo. Un genietto affascinante dai capelli castano scuro e lunghi, forse di tre o quattro anni più grande di lui, con una benda su un occhio, che non parla mai con nessuno. Non può che ammirarlo, perché il corso di scienze e tecniche psicologiche non è certamente uno dei più semplici dell'università, e Silvano è riuscito a sapere anche che il ragazzo, forse straniero, si è già laureato in giurisprudenza.

«Ti pare facile, ma lo vedi quanto è carino?» risponde sospirando all'amico, mentre sbircia ancora verso lo sconosciuto, seduto da solo all'ombra di un albero, e per un attimo incrocia lo sguardo con lui, sentendo improvvisamente il cuore in gola quando quell'unico occhio, così intenso e penetrante, lo fissa a lungo «oddio, mi ha sgamato» dice deglutendo, voltandosi dalla parte opposta, mentre con una mano sistema il ciuffo di capelli neri che gli ricade sulla fronte.

«Ma smettila, non ti sta proprio considerando. È sempre lì che legge e studia. Deve essere una palla infinita, non so cosa ci trovi in lui» le parole di Marco sono accompagnate da un'alzata di spalle, e quando Silvano torna a guardare lo sconosciuto lo vede di nuovo assorto nei libri.

«I nerd mi affascinano. E poi, con quell'aspetto da pirata, mi attizza.»

«E allora aggancialo, così te lo scopi e non rompi più le palle a me con le tue paranoie.»

«Marco, sei una bestia. Esiste anche altro nella vita, non solo il sesso e le canne.»

«Hai ragione, esiste anche l'alcol!» la risata di Marco accompagna le sue parole e con un balzo si alza dalla panchina per evitare il libro con cui Silvano cerca di colpirlo, che poi frana rovinosamente a terra.

«Ci vediamo in classe, bestia» gli dice ridacchiando e con un cenno della mano lo saluta, guardando l'amico allontanarsi verso il grande edificio squadrato dai pannelli rosso mattone, dove migliaia di studenti come lui mettono le basi del loro futuro.

Con un sospiro poi chiude gli occhi lasciando che il sole tiepido di marzo gli riscaldi il viso dai tratti raffinati, fino a quando un'ombra non glielo nasconde. Li riapre e vede una figura controluce di qualcuno che gli porge un libro.

«Non dovresti usare i libri come arma, è un peccato rovinarli e se non è l'opera omnia di James Joyce, difficilmente puoi fargli del male.»

Silvano sbatte gli occhi più volte, sentendo il cuore mancare qualche colpo, mentre fissa con i suoi occhi nocciola la figura longilinea e slanciata del ragazzo dai capelli lunghi, dalle cui mani prende il libro come un automa. «Gra... grazie» riesce appena a sussurrare.

«Di nulla, sei anche tu al secondo anno di scienze e tecniche psicologiche, vero?» si sente chiedere con una voce calda e profonda dal vago accento straniero, mentre lo guarda sedersi al suo fianco.

«Sì, sì è così. Ti ho visto a lezione. Ma tu non sei italiano, vero? Da quanto tempo sei in Italia?»

«Sono inglese, e sono arrivato qui meno di un anno fa per frequentare questo corso.»

«Diamine, ma parli benissimo l'italiano. Impari proprio in fretta. Come mai hai scelto questo? Quello inglese non ti piaceva?»

«Era interessante anche quello di Londra, ma per motivi personali ho preferito questo italiano, soprattutto per la parte approfondita degli esami di criminologia e per lo stage, che posso scegliere di fare in una sezione investigativa.»

«Ma dai, ma lo sai che mio padre è un ispettore di polizia? Magari gli chiedo se ti prende a fare lo stage, se ti va. A proposito, io mi chiamo Silvano Lacorte» gli dice sorridendo e allungando la mano verso di lui.

«Piacere, Silvano, io sono Miki.»

Milano – Piazzale Lugano – ore 9.30

Sotto il ponte della Ghisolfa. Ancora dannazione e morte sotto quel maledetto ponte.

Quando l'ispettore Maurizio Lacorte ha avuto l'indicazione di dove è stato ritrovato il cadavere, il primo pensiero che gli si è formato nella mente è stata un'immagine in bianco e nero e il titolo di un film di Visconti. Sono passati almeno cinquant'anni dall'uscita di Rocco e i suoi fratelli, ma quella zona di Milano rimane ancora oggi, in alcuni angoli, cupa e abbandonata a sé stessa.

L'ispettore lascia l'auto all'inizio del piazzale, proprio alla fine del lungo e moderno cavalcavia, che attraversa e sovrasta un tratto di strada portando direttamente da Viale Bodio a piazza Stuparich, costruito in mezzo a palazzi e negozi in modo da evitare semafori e code.

Perché a Milano si corre. Tutti corrono, tutti hanno fretta, tutti devono fare chissà quale urgentissima cosa, devono produrre, lavorare o raggiungere gli amici per un happy hour.

E invece lui non ha mai fretta. Le cose si fanno con calma, non è guadagnando qualche minuto che ti cambia la vita. Maurizio Lacorte vive a Milano da quando è nato, e a cinquantacinque anni ancora non si è abituato a questo mondo moderno e caotico, digitale, irrefrenabile, fatto di persone che non si fermano mai, neanche un secondo, magari per godersi un panorama.

Non che ci sia qualcosa di bello da vedere in questa porzione di città. Anche il fascino un po' lugubre dei vecchi gasometri, che una volta si vedevano in lontananza dalla parte opposta del ponte, sono ora coperti da palazzoni e inavvicinabili, perché l'intera area della Bovisa, 420mila ettari oramai abbandonati, è recintata e in attesa di una bonifica.

Maurizio sospira, chiudendosi il giaccone attorno al corpo alto e scattante, che conserva nonostante l'età e l'assoluta mancanza di qualsiasi genere di esercizio fisico, a parte le lunghe passeggiate che ama sempre fare. Anche se a marzo la temperatura a Milano inizia a essere meno rigida, lui mal sopporta il freddo. Di sicuro è colpa delle origini siciliane della madre, si dice spesso quando si trova costretto a indossare piumini, cappelli di lana e guanti imbottiti, per affrontare i mesi di gennaio e febbraio, che portano spesso le temperature sotto lo zero. Ancora oggi non sa come ha fatto a sopravvivere a quell'anno tremendo, quando il termometro alle quattro del pomeriggio segnava meno cinque, e cumuli di neve ghiacciata erano rimasti per settimane a lato delle strade e sui marciapiedi poco frequentati. Almeno ora basta un giaccone e oggi poi è una bella giornata, di quelle rare in cui il vento ha soffiato via tutte le nuvole e lo smog, e il cielo è di un azzurro intenso che poche volte ha visto.

Percorre il piazzale, guardando a destra quel poco di verde e i quattro alberi che sono rimasti, dirigendosi verso i palazzoni abbandonati della vecchia sede delle poste. La strada è un vicolo quasi a forma di elle un po' arrotondata, che termina contro il ponte. Sotto le finestre incrostate e arrugginite del vecchio edificio oramai dimorano solo dei senzatetto. In fondo alla strada una roulotte abbandonata, forse usata da qualche tossico ogni tanto. Nonostante la via principale che proviene dal cavalcavia sia sempre trafficata, e durante il giorno siano in molti a parcheggiare fin dove è possibile, questo piazzale, soprattutto durante le ore notturne, è talmente isolato e abbandonato, che viene spesso scelto da chi vuole appartarsi, qualsiasi sia il motivo per cui voglia farlo. Un luogo adatto per uccidere qualcuno, senza correre il rischio di essere visto o avere testimoni, che non siano talmente fatti o ubriachi da non ricordare neanche il loro nome.

Ecco perché lui lascia sempre l'auto distante dalla scena del crimine. Ecco perché cammina lentamente, osservando ogni particolare, passandosi una mano tra i corti capelli brizzolati, più bianchi che neri oramai. Perché per Maurizio avvicinarsi a una scena del crimine è come l'inizio di un film, il prologo di un libro, qualcosa da assorbire con attenzione, perché ogni minimo dettaglio può essere utile. I suoi occhi scuri osservano le varie auto della polizia e l'ambulanza, ferme attorno al mezzo abbandonato, con tutti gli uomini del R.I.S., che con le loro tute mimetiche bianche sembrano tanti alieni sbucati da chissà quale pianeta.

«Ispettò, eccovi qua» la voce dell'agente Del Vecchio lo accoglie, quando è arrivato oramai al cordone che delimita l'area.

«Del Vecchio, ma da quanti anni sei a Milano? Possibile che ancora non ti sei abituato a dare del lei o del tu? Se anche non conoscessi la cadenza napoletana, se anche tu fossi alto e biondo invece che l'esatto contrario, non avrei dubbi sulla tua origine» gli risponde con un tono ironico e serio, come sua abitudine, anche se il lieve sorriso mitiga sempre le sue parole.

«Ispettò e che vi devo dire, io ci posso rimanere pure altri trent'anni a Milano, ma certe abitudini sono dure a morire. Come per il caffè o la pizza, sarò banale e uno stereotipo vivente, ma non mi convincerete mai che quella ciofeca annacquata e quella cosa piatta e croccante si possono chiamare veramente caffè e pizza» risponde l'agente, alzando il nastro per far passare l'ispettore all'interno dell'area delimitata.

«Del Vecchio, smettila di dire le solite scemenze e dimmi cosa hai trovato.»

«Niente di particolare, Ispettò. Il cadavere sta dentro alla roulotte. Il medico legale ha detto che probabilmente è morto tra le undici e mezzanotte. Ha un ago infilato nel braccio, presenta un colpo alla testa, forse durante un'overdose ha battuto il capo cadendo. Infatti c'è parecchio sangue per terra e anche su un angolo del tavolo, e la scientifica lo ha già raccolto per confrontarlo. Si chiama Giorgio Berruti, anni venti, incensurato. Padre ingegnere, madre medico, non risulta nulla a carico della famiglia. Non so altro per ora.»

«Il figlio di una famiglia benestante che muore dentro a una roulotte con una siringa nel braccio... questa storia già non mi piace. Va bene, Del Vecchio. Vai pure e tieni a bada eventuali giornalisti» Maurizio saluta con un cenno del capo l'agente e con un sospiro si dirige verso il mezzo, che cade a pezzi e il cui odore di sporco e ruggine invade ben presto le sue narici.

Sale i due scalini, dopo aver indossato le soprascarpe, fermandosi a guardare la scena pietosa di quel covo, dove chi pensa di non avere nulla per cui vale vivere annega i suoi vuoti interiori nella finta estasi dell'eroina. Con un sospiro si avvicina al corpo del ragazzo, i cui occhi sbarrati sembrano gridare ancora il dolore che lo ha portato a chiudersi in questo luogo squallido e abbandonato. Si china sulle ginocchia per osservare più da vicino ogni dettaglio, ogni particolare che può raccontargli gli ultimi istanti di questa vita tormentata. Poi annuisce e rialzandosi in piedi si guarda intorno, osservando il letto in fondo alla roulotte, un semplice materasso sporco e bucato, un telo da bagno buttato in un angolo, un pacco di fazzoletti e uno di preservativi.

«Va bene, io qui ho finito. Fatemi avere al più presto i risultati dell'autopsia e le foto della scena.»

Una volta uscito, si toglie le soprascarpe, lasciandole in un secchio, e con un sospiro si allontana. Se ha ragione, questa storia sarà una di quelle che il questore non ama, il che significa che a lui verrà un gran mal di testa, ogni volta che sentirà la sua voce querula e ansiosa al telefono per chiedere aggiornamenti e novità.

Milano – Università La Bicocca – ore 12.00

Questo professore è un incapace, la mia sorellina Mary saprebbe spiegare meglio.

Miki sobbalza sul sedile, reprimendo per l'ennesima volta il pensiero e il ricordo costante di una vita mai davvero vissuta. Nota lo sguardo interrogativo di Silvano al suo fianco mentre, seduti sugli spalti più in alto dell'aula, stanno assistendo all'ultima lezione della mattina.

«Tutto bene?» il sussurro del ragazzo lo fa appena sorridere e con la testa annuisce in un cenno affermativo.

«Sto bene, devo andare un attimo in bagno, tanto la lezione è quasi finita. Ci vediamo fuori» gli risponde a bassa voce, prima di prendere lo zaino e uscire dall'aula, cercando di non disturbare nessuno.

Una volta all'esterno, percorre i corridoi fino ai servizi, apre la porta e una volta dentro butta lo zaino in un angolo, poggiando poi le mani al lavabo per guardarsi allo specchio.

Dovresti prendere quelle dannate pillole.

Miki sospira, guardando il riflesso del suo volto teso allo specchio. Lo sa bene che i farmaci terrebbero a bada questi continui falsi ricordi, questa parte di vita onirica in cui ha vissuto e da cui ancora oggi non riesce mai a separarsi, ma i farmaci non appannano solo i falsi ricordi, gli annebbiano anche la mente, lo rendono meno lucido, meno attento. Se avesse continuato a prenderli, come i medici hanno creduto lui facesse, non sarebbe mai riuscito a laurearsi in così breve tempo in giurisprudenza, dopo essere andato via dall'ospedale psichiatrico di Londra quattro anni prima. Non sarebbe mai riuscito a fare in pochi mesi tutti gli esami del primo anno di corso. Gli psicofarmaci gli permettono di non impazzire, ma lo rendono uno qualunque e lui non vuole essere come gli altri, lui vuole essere come Sherlock.

Smettila, idiota. Sherlock non è tuo padre, Irene non è tua madre, Mary non è tua sorella.

Un mantra, oramai ogni giorno è costretto a ripetere a sé stesso come un mantra queste parole, che lo riportano alla realtà, ma allo stesso tempo gli bucano l'anima e il cuore. Per dieci anni ha vissuto in un mondo onirico, tra mille avventure, circondato da una famiglia un po' stramba e anticonvenzionale, ma piena d'amore. Risvegliarsi, quando gli psicofarmaci avevano iniziato a fare effetto, era stata la peggiore delle torture.

Come si fa a cancellare dieci anni di vita, anche se non è mai stata reale?

Miki sospirando si toglie la benda nera, e osserva allo specchio il volto, e quell'occhio non più cavo come era all'inizio. Lo hanno operato, gli hanno messo un occhio finto talmente perfetto da sembrare vero, ma da quando ha lasciato l'ospedale ha ripreso a utilizzare la benda, perché quell'occhio nuovo non riesce a riconoscerlo come suo, quella vita vuota non riesce a sentirla reale. Si abbassa sul lavabo e aperta l'acqua fredda sciacqua il viso più volte, fino a quando non sente d'aver ripreso il controllo.

Era stato facile, al suo risveglio, far credere a medici e infermieri che continuava a prendere i farmaci, che non aveva più falsi ricordi della sua vita passata. Aveva studiato a lungo molti testi scientifici e di psicologia, e per lui fingere d'essere del tutto guarito era stato semplice quanto bere un bicchier d'acqua, anche se non volevano ancora lasciarlo uscire da quel posto. Ma il suo atteggiamento tranquillo li aveva resi meno attenti nei suoi confronti, e alla prima occasione se n'era andato.

Ok, va tutto bene, rimettiti la tua benda ed esci da questo bagno.

Con un sospiro si copre di nuovo l'occhio destro, sistema i capelli e, preso lo zaino, esce dal bagno nei corridoi, oramai gremiti di studenti. In lontananza vede Silvano che gli viene incontro e con un cenno della mano lo saluta.

È uno a posto, Silvano.

Miki ha sempre avuto intuito per le persone e ha notato da giorni come lo guarda. Ha capito che l'interesse del ragazzo nei suoi confronti è particolare, ma non gli ha dato fastidio. Lui non giudica mai nessuno, e non bada neanche tanto a quello che la gente pensa sul suo conto. In genere non socializza molto, ma questa mattina, quando lo ha visto ridere e scherzare con l'amico e poi godersi il sole, ha capito che Silvano è uno pulito e sincero, e a lui piacciono le persone così.

«Ti vedo meglio.»

«La lezione era talmente noiosa che avevo bisogno di rinfrescarmi un attimo» gli dice con un lieve sorriso.

«Hai ragione, quel professore è di una noia mortale» lo guarda mordersi un labbro e tirarsi il lobo di un orecchio, in quello che deve essere un tic quando è nervoso «senti, ti va di venire a mangiare e studiare a casa mia? Così magari quando rientra mio padre te lo presento e gli puoi parlare dello stage. Non staremo da soli comunque, tranquillo, c'è mia madre.»

«E perché mai dovrei preoccuparmi se non ci fosse tua madre?» gli domanda inarcando un sopracciglio, mentre si avviano verso l'uscita.

«No, niente, non lo so, cioè, insomma, sono un bravo ragazzo in effetti, non un molestatore.»

«Ti stai impiccando con le parole, Silvano. Andiamo» gli dice Miki, e quando vede il viso del ragazzo diventare rosso a stento trattiene un sorriso.


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