37 | Non c'è niente da amare in me

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CAPITOLO 37
Non c'è niente di amare in me

https://www.youtube.com/watch?v=L4U3OcHxY1A

Ritorno nella mia stanza, non so esattamente quando e come ma lo faccio. Con la mano sulla maniglia della porta chiusa davanti a me, sposto gli occhi sulla parete accanto e la fisso per secondi interminabili, troppi. I brividi che mi attraversano come schegge le guance che si conficcano dentro il mio petto, nel mio cuore, che si infilano nelle vene e fanno il giro di ogni capillare possibile.

E scatto.
Un urlo di rabbia, frustrazione e dolore esce dalla mia bocca, il mio pugno sbatte con violenza contro la parete. Ancora, ancora e ancora mentre la gola mi viene graffiata con prepotenza dai lamenti.
Un altro pugno, un altro ancora, fino a spaccarmi le nocche, finché la vernice bianca non si tinge di tracce di sangue.

Ancora, un'altra volta.
Urlo, ringhio, mi lamento e un altro pugno si conficca nel cartongesso finché non si inclina, non si squarcia del tutto.
E mi allontano. Mi fermo di getto.
Gli occhi sbarrati guardano la parete, poi si abbassano sulla mano che mi sta tremando con forza. Le nocche sbucciare, imbrattate di sangue. Il fiato pesante, tremolante e irregolare. La carne che mi freme da ogni punto, il petto che mi fa male, mi mozza il fiato, le lacrime che mi scendono copiose sul viso, che mi scivolano sulla pelle roventi.

Che cosa ho fatto?
Cosa... cosa ho fatto?

Non so darmi una risposta, io non so darmela. È successo troppo così rapidamente e non ho saputo come interrompere tutto quello. Avrei potuto farlo? Io non lo so. Sì? Avrei potuto? Forse, credo... non lo so.
Non lo so.

A piedi nudi indietreggio lentamente dal muro, mi volto verso la scrivania, le lacrime che mi annebbiano la vista. Non ci vedo un cazzo.

Che cosa ho fatto?

Con un movimento secco afferro tutto quello che c'è sulla scrivania e lo scaravento a terra. Dalla bocca mi esce un altro urlo di disperazione.
Alcune cose finiscono con violenza contro il pavimento, altre sbattono contro la parete accanto.
E mi allontano. Raggiungo a piccoli passi il letto. Le mani tra i capelli. Li tiro con rabbia e impotenza.
Mi lascio cadere sulla moquette, di spalle al letto, le ginocchia al petto e le mani a coprirmi il viso.

Che cosa ho fatto?

L'ultima persona che mi rimaneva io l'ho mandata via da me. L'ho allontanata. L'ho delusa.
Logan... il mio unico e vero miglior amico, il ragazzo più dolce che io abbia mai incontrato nella mia vita, l'unica cosa bella che avevo... il ragazzo che mi ha amato fino all'ultimo respiro, il ragazzo che io amavo.

Io... lo amavo.
È questa la cruda verità che ho sempre rinnegato a me stessa. Lui non era una piccola cotta, non lo è mai stato.
Io di lui ero profondamente innamorata.
Forse ho iniziato ad amarlo quella volta quando mi ha fatto compagnia sul divano a guardarci 9 Underground, oppure quando abbiamo guardato le stelle insieme e mi ha riportata a casa dopo il casino allo Yosemite National Park. O forse mi sono innamorata di lui per il suo modo di fare, la sua gentilezza nascosta tra le righe delle sue battute.

Noi eravamo giusti insieme ma... io non ero giusta per lui, non adesso, non quando ho perso tutto.
Ma mi rimaneva lui.
Lui c'era.
E allora perché... perché ho fatto tutto quello che ho fatto?

Io sono senza speranza.
Rido tra le lacrime e mi asciugo il viso.
Sono senza speranza, è questa ragione. La realtà dei fatti. Niente è stato più limpido di così, mai.
Io non sono fatta per essere amata e né tantomeno per dimostrare amore perché non so come farlo e ogni volta che di mezzo ci sono dei sentimenti scappo sempre pur di non affrontarli perché non so con certezza che cosa potrebbe uscirne fuori.
Ma di lui mi fidavo. Io mi fido.
L'ho fatto dal primo istante che l'ho incontrato senza nemmeno rendermene conto.
Ma io non sono giusta per lui. Merita di meglio, qualcuno diverso da me che lo apprezzi veramente e che lo faccia sentire felice e spensierato com'era quando noi due non ci conoscevamo ancora.

Io l'ho rovinato.
Le lacrime si bloccano finalmente. Sospiro tra i miei singhiozzi che cerco di fermare. Porre finalmente fine al mio respiro irregolare, smettere di strozzarmici in esso.
L'ho rovinato.
Ma è meglio così, meglio che se ne sia andato così eviterò di fargli altro male.

Io l'ho salvato. Sì. L'ho salvato.
Da me stessa. L'ho fatto, è questa cosa infondo, molto in profondità nel mio cuore mi fa sentire sollevata e rincuorata.
Come può uno come lui innamorarsi di me?
Non può.
Nessuno può amarmi perché non c'è niente da amare in me.

***

È

passato un mese o forse di più. Ho perso la cognizione del tempo.
Il mio è un continuo dividermi tra università e lavoro. Dopo aver terminato le lezioni scappare, prendere la metro e raggiungere la caffetteria in cui lavoro per potermi pagare gli studi, mettere qualcosina da parte e comprare qualche bottiglia di qualche alcol del discount per poi berlo a fine turno di lavoro sul retro del negozio.

Uno spinello tra le dita, nell'altra la fiaschetta di whisky e gli occhi puntati su un gatto nero che sta cercando qualche straccio di cibo nel bidone della spazzatura. Con gli occhi fissi su di lui mi porto lo spinello alla bocca, ispiro e caccio fuori il fumo.
Finalmente c'è silenzio.
Saranno le nove di sera, il locale ha chiuso un'ora prima del solito perché la titolare, Denise, ha raccolto le sue cose ed è scappata all'ospedale dicendo che a sua moglie si sono rotte le acque e che loro figlia sta venendo al mondo. Perciò ha lasciato a me il dovere di servire gli ultimi clienti rimasti dentro, per poi chiudere tutto e ora sono qui.

Devo tornare al campus, riposare e domani essere pronta per presentarmi a lezione nonostante nell'ultimo periodo finisca sempre col saltare le prime due ore perché mi sveglio tardi siccome non sento la sveglia suonare affatto.
Non è solo la stanchezza e il fatto di staccare tardi da lavoro, farmi venti minuti in metro e altri quindici a piedi fino alla residenza studentesca, ma è anche la sbornia che puntualmente mi fa svegliare con la gola secca, la fame chimica e un mal di testa assurdo.

Poggio la nuca contro il muro esterno del retro della caffetteria e chiudo per un istante gli occhi rischiando di addormentarmi con lo spinello tra le dita che mi scivola e finisce per terra.

Cazzo.

Apro gli occhi a fatica, sbatto le ciglia e alla fine mi faccio forza e mi tiro su in piedi, non prima di avvicinarmi al bidone della spazzatura, infilare una mano nella borsa che indosso e staccare un pezzo di prosciutto del sandwich che mi porto sempre dietro da mangiare a fine turno di lavoro quando non ce la faccio a raggiungere una tavola calda e cenare.
Chiamo dolcemente il gatto che mi fissa e fa per scappare via, ma poi si ferma di colpo quando sente l'odore della carne.
Quindi gliene lancio un pezzo vicino, lui si avvicina, lo annusa e lo afferra in bocca.

Un piccolo sorriso si dipinge sulle mie labbra, sorriso che si spegne subito dopo quando con il bocconcino il gatto scappa via lasciandomi da sola nel buio di San Francisco.

Caccio un sospiro e prendo a incamminarmi verso la strada. Nella metro provo a tenere la mente lucida e non crollare contro il finestrino tramortita dalla spossatezza.
Quando arrivo davanti alla mia stanza del campus, infilo le chiavi nella serratura, giro e chiudo la porta.
Senza nemmeno accendere le luci, mi tolgo le scarpe con solo l'uso delle punte dei piedi, lascio cadere la borsa sul pavimento e raggiungo il letto, cadendo di faccia contro il cuscino.
E mi addormento così.

Il giorno successivo solita routine, niente di speciale. Salto le prime due ore come sempre, mi dirigo al bar, prendo un caffè e mi siedo a un tavolo.
Con gli occhiali da sole sul viso, mi stropiccio un occhio ficcando le dita sotto la lente nel mentre ho il gomito appoggiato sul tavolo e quasi non scivolo di lato quando mi sto per addormentare di nuovo. Faccio appena in tempo ad evitare di cadere di testa contro il tavolo. Merda.

Un berretto si poggia improvvisamente sulla mia testa. Stranita, alzo il mento e trovo Nath che mi sorride tutta raggiante.
«Buongiorno!» esclama e tira la sedia davanti a me, facendola strisciare fastidiosamente contro il pavimento. Strizzo gli occhi in automatico per via delle orecchie che mi vengono graffiate tanto che una fitta di dolore si propaga lungo tutto il cervello, da parte a parte.
«Buongiorno...» biascico e rimango con il berretto in testa. Prendo il caffè e ne bevo un sorso.
Kim si aggiunge a noi, sedendosi accanto a me.

«Hai un aspetto terribile» mi dice piuttosto che darmi il solare buongiorno di Nath.
Alzo un pollice in segno affermativo.
Con la coda dell'occhio la scorgo avvicinarsi a me, annusarmi e poi tirarsi indietro.
«Quand'è l'ultima volta che hai fatto il bucato?» chiede con una smorfia in viso che cerca di nascondere ma non ci riesce affatto.
«Non lo so...» rispondo e proprio nello stesso istante i miei occhi si poggiano infondo al bar, sulla porta d'ingresso.
La giacca da motociclista è la prima cosa che vedo, la seconda è il suo sguardo che finisce su di me e non appena mi nota lo sposta andando verso il bancone. Si appoggia ad esso e ordina qualcosa.
Fatalità vuole che nel bar entrino anche Duncan e Yuri. Si avvicinano a Logan, lo salutano e poi vedono me.

Cazzo.

Si avvicinano al tavolo dove sono seduta, Yuri prende posto sulla quarta sedia mentre Duncan ne prende una dal tavolo vuoto accanto, la trascina vicino e si butta su di essa con un tonfo, infilandosi tra me e Yuri.
«Hai un aspetto terribile» dice.

Oh, magnifico...

«Sì, glielo detto anche io» commenta Kim.
«Grazie ragazzi, siete molto gentili oggi» replico con aria stanca.
«E puzzi di erba, lo sai?» mi fa Duncan con una occhiata lunga indicandomi con un dito. Alzo lievemente gli angoli della bocca.

«Mi hai beccata» sollevo svogliatamente una mano per poi rimetterla sotto il viso, a reggerlo mentre mando giù un altro po' di caffè. Duncan riprende subito parola.

«Non vi parlate più?» chiede facendo un cenno verso Logan che sta afferrando un caffè, paga e gira i tacchi andando via.
«No» rispondo semplicemente senza sentire niente dentro di me.

All'inizio ho pianto, mi sono disperata ma poi... col passare dei giorni il dolore mi ha fatto esaurire ogni lacrima e si è solidificato tanto da creare una sorta di corazza intorno al mio cuore che niente e nessuno riesce più a scalfire per farmi ancora provare anche solo una briciola di qualcosa... qualunque cosa sia. E mi sta bene così.

«Pensavo fosse uno dei vostri soliti litigi... non è così?»
«No.»
Lui resta in silenzio per alcuni istanti.
«E perché?»
Ispiro profondamente.

«Perché è così e basta» rispondo cercando di mantenere la calma.
«Magari dovresti provare a parlargli e risolver-»

«Vuoi chiudere quella cazzo di bocca?!» sbotto di scatto, assalendolo con violenza. Il bicchiere di carta che avevo in mano si stringe tra le dita con tanta di quella forza che il caffè fuoriesce e si riversa tutto sul tavolo per poi gocciolare sul pavimento.
Fisso Duncan da dietro gli occhiali da sole nonostante non possa vedere i miei occhi iniettati di sangue. Lo trovo con un'espressione sbigottita stampata in faccia. Mi giro lentamente e do un'occhiata a tutti gli altri che come lui mi guardano allo stesso modo.
Fanculo.

Mi tiro in piedi, sventolo la mano destra per togliere via il caffè e la asciugo contro i jeans fortunatamente scuri.
«Non mi servono i tuoi consigli di merda, perciò tieniteli pure per te stesso e non rompere le palle a me. Okay?» chiedo cortesemente a Duncan con un sorriso tirato.

Con la borsa in spalla cerco di allontanarmi ma Kim mi richiama perciò mi giro.
«Che c'è adesso?!»
Alzo le mani e le lascio ricadere lungo i fianchi.
Lei mi rivolge uno sguardo di pena che mi fa solo infervorare di più.
«Duncan voleva solo dire che tutto questo si risolverà e vedrai che tornerà tutto come prima...»

Scoppio inevitabilmente a ridere tanto da beccarmi uno sguardo confuso da parte sua.
«Oh, ma davvero?» alzo le sopracciglia. «Sapete una cosa? Perché invece non vi fate i cazzi vostri una volta ogni tanto? Godetevi la vostra vita perfetta del cazzo anziché farmi le vostre raccomandazioni. Io sto bene così, non mi serve Logan o chiunque altro. Ho sempre fatto affidamento su me stessa prima di venire qui, poi mi sono lasciata andare e mi sono affezionata quando non avrei mai dovuto lasciare che ciò accadesse. Non mi serve nessuno.» Ringhio a denti serrati a mille sotto gli occhi di tutti i presenti nel bar ma non me ne frega un cazzo di quello che potrebbero pensare su di me, che si mettano pure a bisbigliare, ormai tutto è irrilevante.

Senza aggiungere più niente esco da questo cazzo di bar dove io volevo solo starmene per i fatti miei e invece no!
Non posso!
Perché devo trovarmi questi pezzi di merda a ficcare il naso nei miei affari come se loro capissero qualcosa di me quando è affatto così!

Furiosa mi incammino verso il padiglione della mia terza lezione. Tiro fuori il cellulare e do una rapida occhiata all'orario. Sono in largo anticipo, non fa niente, magari prendo posto e finalmente potrò godermi di un po' di silenzio, nessuno più a rompermi le palle con i loro commenti e osservazioni non assolutamente richieste.

Sbatto contro qualcuno e qualcosa di bollente si riversa sulla mia felpa.
Cazzo.
Come se non fosse già sufficiente il telefono mi cade dalla mano, scivolandomi per terra. Mi abbasso subito a raccoglierlo cacciando una imprecazione a denti stretti fregandomi di chiunque io abbia urtato. Non appena mi rimetto in piedi con gli occhi bassi sulla mia felpa, cerco di asciugare il caffè che ormai ha mandato a puttane la felpa grigia. Fanculo.

«Quando cammini che problema hai? Non guardi per dove cazzo metti i piedi?!» sibilo avvelenata strofinando nervosamente le mani sulla felpa.
«Ma tu guarda che gran pezzo di merda che sei! Me l'hai rovinata... Fanculo!» biascico. Lascio perdere la felpa, non posso più farci niente. Alzo il viso pronta per sbranare l'imbecille. Viso che mi si sbianca di colpo.

Occhi scuri, le ciocche frontali raccolte dietro la testa. Rabbrividisco copiosamente, fin dentro le ossa.
Logan è davanti a me e mi guarda in silenzio. Faccio lo stesso per alcuni fratti di secondo finché non riprendo a camminare, passandogli di fianco e aumentando il passo per allontanarmi quanto più rapidamente possibile da lui.
Mi sfilo la felpa rimanendo in canottiera e la appoggio sulla borsa a tracolla. Poi però mi rendo conto che mi è volato il berretto di Nath, perciò sbuffo e torno indietro.

Merda.

Mi avvicino di nuovo a lui, mi chino e lo raccolgo da terra, ficcandolo in testa furiosa.
«La prossima volta guardati in giro prima di versarmi il tuo fottuto caffè addosso» gli sibilo contro e mi allontano, tornando sui miei passi senza guardarlo un'ultima volta.
Non mi serve.

Non mi ha voluto più nella sua vita perciò adesso mi comporto come più mi pare. Non sono poi tanto diversa dalla Ronnie che era nel Texas prima di venire qui a San Francisco.
Io ero questa Ronnie.
Solo con un maggior autocontrollo e con quella che consideravo una famiglia, che pensavo di avere e che adesso non ho più.
È stato lui a cambiarmi, scavare nelle mie paure, nella parte più fragile di me stessa e io mi sono abbandonata a lui perché volevo finalmente fare affidamento su qualcuno, ma adesso mi rendo conto che sono stata una stupita a spifferargli i miei fatti personali.

Ma che diavolo mi è passato per la testa?
L'amore.
Che grandissima stronzata.

Avrei preferito che qualcuno me lo dicesse prima di ficcarmici dentro. Dirmi che se avessi mai voluto amare qualcuno avrei dovuto scontrarmi col dolore, che sarei dovuta cambiare, che tutto questo mi avrebbe cambiata. Ho cercato di controllare tutto e alla fine è stato il tutto a controllare me.

E io amo lui.
Cazzo...
Anche adesso che lui non è più mio e non lo è mai stato, io lo amo e odio me stessa per amarlo. Come odio lui perché ama lei, quella che io adesso non sono più.

***

Angolo autrice
Non so che scrivere ma... provo solo tanta compassione per lei. Povero amore....

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