19 | Stavi messa proprio male

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CAPITOLO 19
Stavi messa proprio male

Seduta su uno sgabello della piccola isola della cucina di casa mia, niente in confronto a quella del suo appartamento, i gomiti sul bancone e le mani a sorreggere il viso, fisso le spalle larghe di Nicholas fasciate dalla camicia. È vicino al fornello.
Tira fuori un pesce grigio chiaro che non ho idea cosa sia, viene verso il lavabo a me difronte e lo mette sul tagliere.

Prende due coltelli, li affila con una maneggevolezza che mi lascia a tratti ipnotizzata. Incide il pesce sotto la pancia, lo mette sott'acqua, tira fuori le interiora, lo lava, sciacqua il tagliere dal sangue e lo asciuga con una pezza.

Mette il pesce sopra, incide accanto la testa poggiando una mano su di esso e le mie pupille sangono su, dalle sue mani ai suoi avambracci scoperti dalle maniche tirate su. Le vene visibili, i muscoli contratti... deglutisco.

Tira un filetto perfetto che mette accanto, fa lo stesso dall'altra parte. Con un movimento fluido e deciso toglie la pelle con le squame, e mette i resti in una bustina accanto.
Quando finisce solleva gli occhi.

«Bello, vero?» mi guarda con uno strano entusiasmo che gli ho visto quella volta a casa sua, quando mi aveva mostrato quello che aveva preparato per quella cena che ovviamente io ho mandato a puttane.

«Hai una buona mano...» mormoro con tono assorto per poi rendermi improvvisamente conto di quello che ho detto.

Oh, merda.

Lui se ne accorge eccome, infatti mi lancia un sorrisetto a dir poco equivoco.

«L'hai fatto tante volte?» chiedo subito provando a non lasciarmi trasportare dai miei ormoni e poso lo sguardo sul pesce.

«L'ho imparato in Australia.»

Alzo gli occhi.
«Non eri di Richmond?»

Lui annuisce, va al frigo, tira fuori del ghiaccio, poi prende una ciotola e torna davanti a me.
«I miei sono divorziati da sempre. Mia madre si è risposata subito dopo il divorzio ed è andata a vivere in Australia. Da piccolo facevo avanti e indietro di continuo. È lì che ho imparato a pescare, lavorare part-time con la gente del porto e soprattutto...» mi guarda prima di iniziare a tagliare i filetti a piccoli pezzi, «a capire che l'università non faceva per me. Volevo girare il mondo, scoprire culture, cibi, imparare cose nuove e fare lavoro di squadra.»

Non nego di non rimanere stupita da quanto mi ha detto.

«La vita sul mare mi piaceva...» commenta d'un tratto sovrappensiero, quasi con aria malinconica.

«E perché sei finito a fare il soldato?»

Nicholas poggia le mani per un attimo sul banco da cucina, mi guarda e tira un profondo respiro.

«Ero un apprendista. I pescatori mi portavano sulle loro barche in giro, sai... al largo» fa una breve pausa e riprende a tagliare il pesce.
«Un giorno decisi di seguire il mio mentore su una nave mercantile, la tappa era lungo il Pacifico verso quello Indiano, dovevamo raggiungere Mombasa per la distribuzione di cibo e mezzi agricoli alla gente che non aveva niente, la nave era di un'associazione di Medici senza frontiere. Oltre al cibo c'erano dottori, vaccini, diverse medicine e attrezzatura medica di migliaia di dollari.»
Prende il pesce e lo mette sul ghiaccio.
«Una volta raggiunto l'oceano Indiano la nave è stata attaccata da dei pirati della Somalia.»

Alza gli occhi, mi guarda e poi sembra ripercorrere nella testa i propri ricordi, uno ad uno.
«Fino all'arrivo delle forze speciali della Marina statunitense di Dubai, il mio mentore è stato sparato davanti ai miei occhi mentre cercava di proteggermi, il Capitano preso in ostaggio e metà dell'equipaggio fatto fuori perché stava tra i piedi.»

Rabbrividisco.
Non c'è alcuna battuta che oso sparare, né un commentino fuori luogo, perché non so che dire. Per la prima volta da quando lo conosco non so veramente che dire.

Nicholas ripone gli occhi su di me.
«Per questo faccio il soldato» risponde e va verso il frigo, torna con il trancio di salmone, lo mette sul tagliere e lo taglia a pezzetti.

«Quanti anni avevi?» gli chiedo temendo di essere sul serio indiscreta questa volta, peggio dell'ultima volta che se l'ha presa male.
Lui mette il salmone sul ghiaccio accanto all'altro pesce.
«Quindici.»
«È un'esperienza...»
«Traumatica?» solleva un angolo della bocca. Sospira. «Avrei fatto lo chef in un qualche ristorante, magari in Francia...» sorride con una tale tristezza che mai gli ho visto in viso. «Ma dopo quello mi sono reso conto che là fuori c'è gente che mossa dalla disperazione, dalla corruzione e dalla povertà, è capace di togliere la vita a un altro pur di sopravvivere e andare avanti.»

Va alla busta, prende un cetriolo, lo lava e lo taglia lungo la sua lunghezza, facendo una dei filetti che rotola e taglia facendoli diventare così una sorta di spaghetti a vista.

«Perché il Medio Oriente? Potevi restare a Richmond o Washington DC, lavorare come poliziotto, diventare un sergente oppure... arruolarti nelle forze speciali e restare qui, in America.»

Lui alza il viso.
«Perché volevo una famiglia.»

La sua risposta mi lascia spiazzata.
Abbassa gli occhi con un piccolo sorriso sulle labbra. «Non ho mai avuto una vera famiglia, avevo il mio mentore ma l'avevo perso... e volevo scoprire com'è. Con mio padre non ho mai avuto un vero rapporto, mia madre si è rifatta una famiglia e si è dimenticato della mia esistenza. Poi mi sono arruolato e ho trovato finalmente dei fratelli che avrebbero rischiato la propria vita per me, così come io avrei fatto allo stesso modo senza margine di esitazione» si ferma di parlare e raggiunge la busta, tira fuori delle cose, torna da me, prende una ciotola, e mette dentro il pesce, mescolando, mettendoci una sorta di aceto e mescola di nuovo.

Prende un piatto, uno stampo in metallo che non sapevo di avere nei cassetti della cucina, mette tutto dentro dandogli una forma rotonda, lo toglie, mette il cetriolo sopra dei semi di sesamo e poi me lo mette sotto il viso.

«Assaggia» mi fa con un cenno di testa verso il piatto. Titubante per quello che mi ha raccontato in un modo così... disinvolto, afferro la forchetta. Prendo e infilo in bocca sotto i suoi occhi che mi fissano mentre ha le mani a bordo del banco di cucina.

«Com'è?»

Esito per qualche istante, mando giù e lo guardo.
«Beh... è veramente... sì, insomma, molto buono. Posso... posso finirlo?»

Lui caccia un cenno di risata e annuisce.
«È una tartare, non ha niente di speciale. Avrei fatto altro, ma... sai, i tempi di cottura» gesticola con una mano. «E avevi bisogno di qualcosa di leggero, quindi niente grassi saturi.»
Prendo due, tre forchettate e poi mi fermo d'improvviso. Questo non è un appuntamento e non dovrebbe piacermi affatto, così come non dovrei lasciare che mi dica altro su di lui, la sua vita.

«Nicholas» lo chiamo, lasciando perdere per un attimo la tartare.
«Uh?»
«Perché sei qui?» gli faccio finalmente la fatidica domanda.
Cosa pensa di fare, qui, da me a casa mia? Cosa sta... provando a fare?
Se l'intenzione è quella di raccontarmi della sua vita e farmi conoscere chi è lui veramente... non lo voglio, perciò meglio che giri i tacchi e voli lontano da me, dalla mia vita disordinata, dal mio futuro incerto e le mie aspirazioni che ormai sono cenere e nient'altro. Lui ha fatto qualcosa con la sua di vita, ha fatto le sue esperienze e ha conosciuto gente e posti che io di sicuro non farò mai.
Non capisco cosa ci trovi di talmente interessante in qualcuno come me perché non ho niente di speciale, sono solo un disastro a livello di tutto. Solo qualche mese fa fumavo erba e bevevo tanto di quel alcol da essere caduta su dei sacchi dell'immondizia, fradicia.

«Io...» prendo un profondo respiro. È calata una strana atmosfera che non mi piace per niente, soprattutto se devo condividerla con lui. «Non sono la persona che ti sei creato nella tua testa. Quindi sei ancora in tempo a raggiungere quella porta» gliela indico. «E andartene.»

Nicholas alza le sopracciglia. «Mi stai cacciando?»
Sembra proprio che non fosse questa la reazione che si aspettava da me.

«Senti...» mi strappo la pelle secca dal labbro inferiore. «Io non sono la persona che credi» gli ripeto questa volta quanto più seria possibile.
«Ovvero?»
Lo indico col palmo di una mano e un sospiro esasperato.
«Io non provo niente per te, Nick, e mai lo proverò perché non lo voglio. Tu hai una vita lontana anni luce della mia, sei più... grande e non so che ti aspettavi venendo qui, ma io non posso e né voglio darti quello che cerchi perché non ho la minima intenzione di innamorarmi o qualunque altra cosa tu stia provando a fare, men che meno di uno come te

Qualcosa sul suo viso cambia, glielo si legge negli occhi, ma io non la voglio la sua gentilezza, non un'altra volta adesso che sono in tempo per fermarlo perché le altre volte mi è stato a dir poco impossibile siccome mi ha beccata nei miei momenti peggiori.

Tutto d'un tratto annuisce con la testa, fa il giro del bancone e si avvicina a me. Ruota lo sgabello su cui sono seduta, si infila tra le mie gambe tanto vicino, a contatto con me che mi sento di nuovo andare a fuoco soprattutto quando alza una mano e mi afferra il viso. È rovente il suo tocco. Dannatamente rovente.

«Va bene.»

Aggrotto la fronte.
Ma... ho per caso sentito male?

«C-cosa?» gli domando intontita.

Lui scuote la testa in segno affermativo.
«Va bene» ripete. «Forse questa volta sono stato troppo sincero, magari non era questo il momento per parlarti di alcune cose... la mia famiglia o... la mia vita che non è una tra le più rosee in assoluto, ne sono ben consapevole, io... non sono bravo con le parole e né con le persone, e credo...» tira un profondo respiro e alza lievemente un angolo della bocca. «Di averti spaventata» conclude.

Toglie la mano e si allontana. In silenzio lo vedo raggiungere sul serio la porta. Contro ogni mia aspettativa lo fa il che mi lascia a dir poco incredula.
Si gira un'ultima volta.
«Mi dispiace» dice. Resto ancora più confusa. «Per averti arrecato ogni tipo di disturbo e... per aver rubato le tue patatine» sorride flebilmente, mi saluta con un cenno di testa e se ne va.

Seduta sullo sgabello della mia cucina, la forchetta in mano e la sua tartare di fronte, resto immobile a fissare la porta ormai chiusa.
Ma che diavolo è appena successo?

***

Maddy è tornata.
Sì, proprio così e non posso esserne più felice. Denise, invece, farà ritorno al lavoro la settimana prossima. I miei due giorni a riposo sono finiti e menomale che c'è stata Maddy a sostituirmi altrimenti sarebbe stato un gran bel problema.
Torno alla solita routine, niente di eclatante e allo stesso ritmo arriva il weekend.

Mi fremono le mani perché so cosa succederà fra solo venti minuti quando il Pink Ocean chiuderà e io staccherò finalmente da lavoro. No, non tornerò a casa o perlomeno non effettivamente. Ci salirò solo per qualche minuto per farmi una doccia e mettere dei vestiti puliti.
Logan ha detto che verrà a prendermi una volta finito il mio turno di sabato sera. Ho il cuore che mi batte all'impazzata nonostante lui non sia ancora qui.

Ethan è dietro al bancone del bar ad occuparsi delle ultime comande mentre io fisso con agitazione l'orologio appeso al muro. Ora ne mancano quindici di minuti. Solo quindici.

«Aspetti qualcosa?»
Ethan mi fa trasalire di colpo. Mi giro col gomito sul bancone e gli do un'occhiata.
«Sì, che me ne vada a casa. Tu no?» alzo un sopracciglio nel modo meno sospettoso possibile. Non voglio che capisca che in realtà sto aspettando altro, qualcosa che lui stesso mi aveva letteralmente vietato di fare: rimettere mano nel mio passato e rischiare di combinare un casino gigantesco.

Ma non è così... non perlomeno. Non accadrà niente tra me e Logan, è solo una uscita al cinema a detta sua e al cinema si sta in silenzio a guardare un film, giusto? Quindi non c'è da preoccuparsi.

«Io voglio un gin tonic da bere nel mio jacuzzi finché non crollo e soffoco sott'acqua» sento Ethan ridacchiare con aria stanca. «Se vuoi, puoi farmi compagnia. Ti preparo un Lemon Virgin Margarita e brindiamo a questa settimana torrida.»
«Passo. Voglio solo dormire» certo, dormire magari dopo essere uscita con Logan, sempre che io riesca a farlo, probabilmente passerò la nottata in bianco, fortuna che domani è domenica quindi potrò svegliarmi anche per orario di pranzo.

«Ci hai solo da perdere» fa il finto offeso facendomi sorridere.
«Domani?» chiedo invece. Ethan fa una smorfia pensierosa.
«Solo se mi porti quella fetta di torta al cioccolato e mandorle che fanno alla pasticceria vicino al Tribunale. Quei avvocati noiosi sanno viziarsi, li invidio.»
Rido. «D'accordo, prenderò un Uber e te la vado a prendere. Senti, settimana prossima vieni con me alla concessionaria?»

Ethan aggrotta la fronte.
«Ti compri una macchina?»
Alzo una mano e scaccio via questa assurda ipotesi, con i risparmi che ho non ce la farei mai, nemmeno a rate.
«Nah... Pensavo perlopiù a una moto. Mi farebbe comodo.»
«A cosa se abiti letteralmente sul posto di lavoro?» sorride lui confuso.

Alzo le spalle.
«Non lo so, tipo andare al negozio e prendere le mie cose senza farmi sempre quindici o venti minuti a piedi rischiando di svenire di nuovo sotto il caldo?»

Ethan annuisce. «Okay, verrò! Così potrò finalmente vedere una streghetta in sella a una moto. Ti renderà molto sexy, lo sai, vero? Con quella farai girare la testa a Nicholas» ride sotto i baffi e mi molla un'occhiata equivoca, ma io non sorrido affatto. Anzi, mi è proprio morto il senso dell'umorismo.
È da lunedì che non l'ho più visto, si è dissolto nel nulla questa volta molto probabilmente per sempre. Non so con esattezza cos'è successo nel mio monolocale, ma c'è stato un momento veramente strano tra noi due considerato che solo una ventina di minuti prima lui...
Deglutisco.
... la sua mano mi toccava nel mio punto più sensibile con un modo di fare, una tale sicurezza e audacia che se ci penso mi viene a mancare il fiato.

«Ti sta ancora sulle palle?» scimmiotta e alza le sopracciglia. «Senti, per fortuna che c'era lui nei paraggi quando hai perso i sensi perché io non avrei saputo che fare fino all'arrivo dell'ambulanza.»

Aggrotto la fronte.
«Che vuoi dire?»
Ethan rimane a fissarmi per qualche istante. «Non te lo ricordi?»
Scuoto la testa. «Non ricordo, cosa?» chiedo di rimando.
«Non respiravi.»
«Cosa?»
Indugia prima di riaprire quel discorso.
«Sei svenuta per almeno due o tre minuti senza dare segni di vita. Non te lo ricordi?»
Corruccio la fronte.
«Io stavo per svenire» lo correggo gesticolando con un dito. «Ma mi sono ripresa. Mi hai dato da bere dell'acqua, no?»

Ethan mi guarda in silenzio che accresce solo la mia confusione.
«Ti ho dato l'acqua solo dopo che Nick ti ha somministrato l'adrenalina.»
Ma di che sta parlando?
«Per questo ho chiesto al paramedico se dovevamo portarti all'ospedale, perché gli ho detto della tua anafilassi e lo svenimento, e lui ha detto di no e che se non ti fosse stata data l'adrenalina fino all'arrivo dell'ambulanza avresti potuto subire una emorragia interna. Quindi menomale che c'è stato Nicholas e che aveva l'adrenalina con sé.»

Inutile dire che resto in silenzio, completamente ammutolita.
Perché non mi ricordo di tutta questa parte?
Poi realizzo improvvisamente altro: Nicholas mi ha di nuovo e per l'ennesima volta aiutata, con la sola differenza che questa volta mi ha letteralmente salvato la vita.

Ethan sorride lievemente. «Fossi in te lo ringrazierei. Anche se ti sta "sulle palle"» fa le virgolette con le dita. «Non si tratta se ti piace o meno, ma semplicemente di essere gentili» e si gira verso un cliente, vendendogli una bottiglietta d'acqua.

Rimango in silenzio, pensierosa.
Io... che dico grazie a Nicholas dopo tutto quello che gli ho già detto a casa mia? No, non esiste. Sarebbe veramente troppo fuori luogo.
«Perché non me l'hai detto prima?» gli chiedo ad un certo punto. Ethan torna frettolosamente con l'attenzione su di me e ci resta per molti istanti, sembra in difficoltà, quindi scuoto la testa aspettando una risposta.

«Perché... era meglio che non lo sapessi.»
«E per quale motivo?»
Ethan si avvicina a me questa volta e mi rivolge un'occhiata talmente intensa e seria da lasciarmi stranita.
«Ronnie, tu mesi fa stavi messa proprio male.»
«Sì, avevo un problema con l'alcol e l'erba, ma adesso-»
«No, mesi fa hai provato ad ammazzarti.»

Mi si taglia il fiato.
Ethan ispira profondamente guardandomi diritto negli occhi, occhi che mi si inumidiscono.
«Ma eri così ubriaca che ti sei addormentata sul tuo divano con il coltello in mano. Quando ti ho trovata, ti ho portata al pronto soccorso, te lo ricordi?» fa titubante.
Abbasso di colpo il viso.
Certo che me lo ricordo.
Mi hanno fatto tenuta ricoverata ben tre giorni di fila, dicendomi che mi mancava ancora un grado in più rispetto al quattro presente del mio corpo per mandarmi in coma etilico. Adesso a ripensarci me ne vergogno come poche volte. So solo che erano le feste natalizie ed ero giù di morale. La mia testa è andata a viaggiare alla mia famiglia che non ho più, a Logan, a tutto quello che ho perso e il nulla che mi rimaneva.

«Io so bene di non essere l'amico perfetto e che a volte scherzo su questa cosa, ma non te la voglio far pesare e farti ricordare quello che ti è successo. Ti avevo anche consigliato di andare a quei incontri per alcolisti anonimi e tu mi hai mandato al diavolo più di una volta. Poi, tutto d'improvviso...» fa una pausa. Alzo gli occhi e lo becco con un piccolo sorriso. «Non so che cosa ti è successo, ma hai ripreso il controllo, pian piano hai smesso con l'erba, con l'alcol e perfino con anche una semplice birra.»

Sono cascata su dei sacchi dell'immondizia, vorrei dirgli, e mi sono vomitata addosso, vorrei dirgli, e Nicholas mi ha ripescata e trascinata a casa sua... vorrei dirgli.

È stato lì che ho capito di aver raggiunto il fondo perché io... di me sul divano intenta ad ammazzarmi non me lo ricordo affatto e non ricordarmelo mi ha fatto venire i brividi. Perché non me lo ricordo?

Ethan mi riscuote dal pensieri. «Ehi, piccola streghetta...»
«Mhm?» lo guardo cercando di ritornare con i piedi sulla terra e lasciare quello che ero e ho fatto alle spalle. Non sono più quella persona.
«Vieni qui» mi fa segno di avvicinarsi, quindi faccio il giro del bar. Ethan mi viene incontro e mi raccoglie al suo petto in un abbraccio.
«Ti voglio bene» sussurra tra i miei capelli e mi solleva in su, tanto da farmi ridere lievemente. «Veramente molto bene. Sei la mia piccola strega dal cuore di ghiaccio e non sai quanto io sia fiero di te adesso... non ne hai idea.»

Il cuore mi batte tutto d'un tratto.
Lo abbraccio anche io, cosa che non faccio mai, ma lo abbraccio a me.
Ethan mi stringe un'ultima volta e poi mi lascia andare. Lo guardo con un sorriso appena accennato che lui ricambia e mi arruffa i capelli beccandosi un'occhiataccia da parte mia, dinanzi alla quale ride come un cretino e torna al bar.

Lo sguardo mi torna sull'orologio posto al muro. Mancano dieci minuti.
Maddy ha già messo il cartello con su scritto "chiuso" alla porta e sta pulendo alcuni tavoli, Ethan invece sta lavando dei bicchieri.
Mi tolgo il grembiule e lo poggio sul bancone del bar.
«Vai di già?» chiede.

Sto per fare una cazzata, me lo sono. Sto per fare una grandissima cazzata.

«Chiudi tu?»
Lui annuisce.
Gli auguro buona notte, sia a lui che a Maddy che mi saluta con un piccolo sorriso stanco, prendo la mia borsa da dietro il bancone del bar, la metto in spalla ed esco, ma non mi dirigo affatto alla porta accanto che conduce al mio appartamento.
Con le mani ficcate nella felpa nera e la pioggia che sta iniziando a picchiettare sull'asfalto, tiro su il cappuccio e prendo a camminare in direzione del negozio aperto ventiquattr'ore che dista a una quindicina di minuti a piedi.

Non appena entro, la prima cosa che noto è il cassiere che non appena mi vede cerca di non alzare gli occhi al cielo, la seconda è il posto desolato.
Vado agli scaffali, cerco tra i vari prodotti e non appena li trovo nella confezione di carta torno alla cassa, pago ed esco. Ritorno in direzione del Pink Ocean, ma mi fermo a qualche centinaio di metri prima, mi giro e alzo lo sguardo.
La pioggia è diventata di colpo più violenta, quindi mi affretto a salire i due gradini in pietra e raggiungere il portone principale, prendo l'ascensore e salgo su.

Non appena gli sono davanti alla porta, con i capelli lunghi che fuoriescono dal cappuccio e le ciocche umide, busso e aspetto.

Sto facendo una grandissima stronzata. Sì, lo so.

***

Angolo autrice
Beh, non so che dire. Greve, dico solo questo. Cioè Ronnie che ha provato a suicidarsi e nemmeno se lo ricorda... Povero amore mio. 💜

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